Non lontano da dove Charlie era in attesa insieme ai Punjabi, una figurina con gli occhiali in tenuta da battaglia stava seduta sul retro di un camion, il fucile incastrato in mezzo alle ginocchia strette nervosamente. Altri non era che il soldato Kikuchi, seduto nel buio più totale, che faceva del suo meglio per concentrarsi sull’esempio eroico dello zio, il trombettiere Kikuchi, che aveva suonato la sua tromba fino all’ultimo respiro. Il soldato Kikuchi sapeva che nel giro di pochi minuti, a un cenno del suo comandante, il tenente Matsushita, avrebbe dovuto lanciarsi con la baionetta, pronto a far fuoco, «come un cieco che non ha paura dei serpenti», così aveva detto il suo superiore. Sarebbe stato capace di seguire l’impeccabile esempio dello zio Kikuchi? Rannicchiati accanto a lui sul camion che avanzava a fari spenti, sentiva i commilitoni del Reggimento Ando senza riuscire a vederli. Anche loro si chiedevano che cosa sarebbe successo in quelle ore prima dell’alba. Sarebbero sopravvissuti per vedere il nuovo giorno? Forse speravano, se possibile, di morire eroicamente mentre combattevano per l’imperatore. Senz’altro lo sperava il tenente Matsushita, un ufficiale dagli occhi ardenti che aveva già servito nell’esercito imperiale, eliminando briganti in Manciuria.
Kikuchi guardava sbalordito il tenente Matsushita e davanti a lui si sentiva in soggezione. Ogni volta che incrociava quei suoi occhi ardenti era come se ricevesse una scossa elettrica. L’intensità del suo sentire, la devozione assoluta all’imperatore e al suo paese erano state una rivelazione persino per Kikuchi, il quale, si sarebbe potuto pensare, con uno zio del genere aveva ben poco da imparare sullo Spirito Nazionale Giapponese. Eppure in lui c’era anche qualcosa che Kikuchi trovava al tempo stesso alquanto spaventoso… A volte sembrava quasi che volesse non solo farsi uccidere, ma anche far uccidere tutti gli altri. Si lanciava in avanti mentre i proiettili gli cadevano intorno come un acquazzone primaverile, quando magari avrebbe potuto avanzare in relativa sicurezza per un’altra via.
A peggiorare la situazione (o a migliorarla, a seconda di come la si guardava) c’era il fatto che provava una particolare simpatia per Kikuchi, merito del suo onorevole zio o forse perché percepiva la sua fascinazione nei propri confronti. In un’occasione l’aveva preso da parte e gli aveva mostrato alcune medaglie da lui ricevute, che portava sempre con sé in un borsellino impermeabile, anche nelle sortite più disperate in mezzo alla giungla. Gli aveva permesso di guardare l’onorificenza dell’Ordine del Sol Levante, quarta classe, la Decorazione della Manciuria, quarta e quinta classe, la medaglia per la Campagna dell’Incidente Cinese, quella per l’Incidente Mancese e parecchie altre, compreso un Ordine del Nibbio d’Oro, quinta classe. «Un giorno, Kikuchi, anche tu avrai delle medaglie come queste» gli aveva detto. I suoi occhi erano inchiodati in quelli del soldato e li tenevano stretti come due bacchette di fuoco perché non si potesse girare. «Oppure sarai morto» aveva aggiunto in tono raggelante, come se ci avesse ripensato.
Non che a Kikuchi dispiacesse davvero morire per il suo imperatore, se doveva; dopotutto, come i commilitoni, aveva lasciato in Giappone alcuni capelli e frammenti di unghie tagliate per il funerale, nel caso il resto del suo corpo non fosse tornato. Non era certo un Kikuchi per niente! Eppure, un paio di volte, osservando Matsushita e il suo amico del cuore, il tenente Nakamura, con cui si era diplomato all’Accademia militare, gli era passato per la testa (anzi, gli era entrato in testa a forza, sotto stretta sorveglianza e in fretta, come un disertore che non deve contagiare i compagni) che ogni aspetto delle vicende umane, persino la gloria sul campo di battaglia, può essere spinto troppo oltre. Non era che magari anche l’Alto Comando la pensava così? Be’, no, era alquanto improbabile. Eppure, nonostante il loro eroismo, né Matsushita né Nakamura avevano fatto molta strada nell’esercito. Erano ancora giovani, ovviamente, ma forse c’era qualcos’altro dietro la mancata promozione… Kikuchi aveva sentito circolare voci sul fatto che avevano preso parte a una replica dell’Affare di Novembre presso l’Accademia militare, organizzando un’altra rivolta di cadetti ultranazionalisti… o forse dipendeva dal fatto che avevano aggredito altri ufficiali che secondo loro scimmiottavano le maniere europee, o qualcosa del genere… Pazienza, qualunque fosse la verità, era un onore, concluse Kikuchi stringendo più che mai le ginocchia per non pensare allo stomaco in subbuglio (forse avrebbe dovuto ingoiare un paio di pillole Jintan?), servire al comando di ufficiali così intrepidi e patriottici. Per l’appunto in quel momento si trovavano entrambi vicino a lui: Matsushita solo pochi centimetri più in là nel buio in cui tutto oscillava. Kikuchi non riusciva a vederlo, ma se lo immaginò seduto nella sua posa abituale, i palmi delle mani posati sull’elsa della sciabola guarnita di nappe, l’espressione spietata.
Quanto a Nakamura, dato che era al comando dei carri armati si sarebbe potuto pensare che non dovesse trovarsi nei paraggi di quel camion carico di fanti, invece era solo a pochi metri da lui. Era successo infatti che Matsushita, avventato come sempre, aveva insistito perché un plotone di fanteria scelta, al suo comando, affiancasse il carro armato di Nakamura a capo della colonna di assalto che adesso avanzava verso le postazioni britanniche. Il tenente non aveva perso tempo e aveva scelto Kikuchi per viaggiare al suo fianco sul primo camion, stretto fra due dei carri armati di testa; altre truppe del Distaccamento Ando si trovavano in una posizione relativamente più sicura e arretrata, in fondo alla colonna di mezzi corazzati. Kikuchi, ovviamente, era ben cosciente dell’onore che gli era stato concesso, ma d’altra parte i veicoli che aprivano la colonna si sarebbero certamente attirati gran parte del fuoco nemico: sarebbe stato già brutto per i carri armati, con la loro corazza… che cosa ne sarebbe stato di un vulnerabile camion carico di fanti? Eppure bisognava agire eroicamente e sperare per il meglio.
I carri armati e i camion continuarono a sfilare l’uno attaccato all’altro, a fari spenti. C’era un gran silenzio, come se tutti gli uomini a bordo stessero trattenendo il respiro; Kikuchi ascoltava lo sferragliare costante dei cingoli sulla strada, ma persino quel rumore sembrava a malapena udibile, assorbito immediatamente dalla massa scura della giungla che li circondava. Per quanto sarebbe andato avanti il tutto? Era sfinito e voleva dormire. Aveva anche fame. Come li avevano fatti sgobbare! Gli pareva che quella campagna, anche se durava solo da tre settimane, fosse in corso da sempre. A volte trovava difficile credere di aver mai condotto una vita diversa… Erano avanzati faticosamente, mangiando di rado qualcosa di diverso da pane secco e sale, senza nemmeno fare una pausa per assaggiare le copiose scorte di cibo abbandonate dagli inglesi durante la ritirata.
E quanta resistenza richiedeva loro l’Alto Comando! Nel ricordo di Kikuchi le traversie iniziavano a offuscarsi e confondersi l’una con l’altra, e solo ogni tanto un evento particolare emergeva in modo chiaro nella sua mente: ricordava per esempio l’avanzata nella giungla verso il ponte di Kuala Kangsar senza niente da mangiare a parte la frutta che trovavano (sì, si era ricordato di evitare i frutti dalla forma e dai colori meravigliosi) e di tanto in tanto uno stufato di serpente (sì, aveva diligentemente consumato il fegato crudo del serpente in base agli ordini ogni volta che se n’era presentata l’occasione), preparato cucinando le tristi creature che entravano e uscivano dal sottobosco passandogli sotto i piedi. Ricordava un feroce attacco degli scozzesi a nord del fiume Perak; per un po’ erano rimasti bloccati sul posto, incapaci di comunicare con il quartier generale. Ma poi un aeroplano leggero era comparso sulla giungla e aveva gettato loro un cilindretto di metallo. Conteneva un messaggio del signor ufficiale di Stato maggiore Okada. Matsushita aveva riferito a Kikuchi il contenuto: «Stimato distaccamento, la nostra più profonda gratitudine per questi giorni di eroici combattimenti». Com’era stato contento Matsushita per quell’elogio del signor ufficiale di Stato maggiore Okada. E lo era stato ancora di più quando aveva continuato a leggere, perché il messaggio ordinava un’incursione sulla riva meridionale del Perak. Il ponte doveva essere conquistato prima che venisse demolito dagli inglesi in ritirata. Come luccicavano gli occhi di Matsushita di fronte a quest’impresa disperata!
Via via che avanzavano nella giungla, Matsushita era dimagrito, eppure nessuno era più abile di lui nell’uccidere i serpenti e ingoiarne i fegati, inghiottendoli uno dopo l’altro come ostriche e lasciando i resti sventrati affinché gli uomini li succhiassero e li rosicchiassero meglio che potevano, perché non si potevano accendere fuochi per cucinare, altrimenti il fumo avrebbe rivelato la loro posizione. Via via che dimagriva, i suoi occhi diventavano più grandi e ardenti che mai: avrebbe partecipato alla gloriosa conquista del ponte sul fiume Perak! E aveva incitato i suoi uomini ad andare avanti per tagliare i fili lucenti prima che i genieri inglesi potessero azionare il detonatore. Ce l’avrebbero fatta, per l’imperatore!
Matsushita aveva chiesto dei volontari per quell’incarico dell’ultima ora; ovviamente si erano fatti avanti tutti gli uomini. Anche se nessuno di loro si sentiva di farlo, non avrebbero mai voluto che il tenente si mettesse in testa che fossero dei codardi… «Bene, allora devo scegliermi da solo gli uomini di questa pattuglia» aveva detto, gli occhi che li trapassavano uno alla volta. E lo aveva fatto, mentre le truppe aspettavano in silenzio di sapere quale fosse il loro destino. In quel momento Kikuchi aveva sentito pronunciare il proprio nome.
Intorno alla mezzanotte del 22 dicembre, mentre erano accampati a una certa distanza dal ponte sul Perak, in una giungla di alberi della gomma incolti, avevano sentito riecheggiare da sud una terribile esplosione. Quel fragore era stato così sconcertante che per diversi attimi tutti i rumori notturni della giungla si erano fermati ed era calato un silenzio temibile: persino gli insetti più minuscoli esitavano a mangiarsi a vicenda e i serpenti avevano smesso di contorcersi entrando e uscendo dalle loro viscide tane. Kikuchi e i suoi commilitoni si erano guardati, sgomenti. Quel rumore poteva avere una sola origine: gli inglesi avevano abbattuto il ponte che loro speravano di conquistare intatto. Bianco per lo shock di fronte a quell’occasione perduta, Matsushita aveva comunque voluto esaminare le mappe per vedere se il riferimento cartografico del ponte combaciava con la direzione da cui sembrava provenire il rumore. Era così. Il tenente aveva lanciato un gemito e chinato la testa. Più tardi aveva preso da parte Kikuchi e gli aveva detto sottovoce: «Ho il cuore colmo di pensieri di condanna nei miei confronti, Kikuchi. Dovremo rimediare al nostro errore con la nostra vita». Il soldato aveva annuito per tranquillizzarlo, anche se gli era balenato il pensiero che non c’erano motivi per cui le truppe che si erano limitate a obbedire agli ordini dovessero essere compartecipi dell’errore del tenente.
Adesso il carro armato su cui era Nakamura si era fermato davanti a loro, facendo arrestare la colonna. Si stava svolgendo un consulto sottovoce: il tenente riteneva di trovarsi vicino alla prima posizione difensiva britannica. Matsushita era sceso dal retro del camion come una pantera, invisibile nel buio. Kikuchi si alzò con prudenza e riuscì a dare un’occhiata alla strada. Dietro di loro si estendeva una colonna composta da due dozzine di carri armati da venti tonnellate, e la luce della luna scintillava sulle loro torrette; i camion di fanteria erano inframmezzati ai mezzi corazzati più lontani. Sapeva che, dopo quelli medi, veniva un distaccamento di carri armati Whippet, più leggeri, ma a causa della curva non riusciva a vederli.
Kikuchi tornò al suo posto, un po’ rassicurato da quella vista impressionante. Sapeva che ciascuno dei carri armati medi trasportava un cannone anticarro da quattro libbre e due mitragliatrici pesanti .303. Inoltre, su ogni carro era stato collocato un mortaio, e anche se era fissato in modo da poter coprire solo un lato della strada, i mezzi corazzati erano disposti in maniera tale che i mortai si alternassero puntando ora da una parte, ora dall’altra. Il fuoco dei carri armati sarebbe sicuramente stato pesante. Forse avrebbe potuto cavarsela, ma anche se fosse sopravvissuto a quella battaglia ce ne sarebbe stata un’altra e poi un’altra ancora. Per quante settimane o mesi sarebbe andata avanti quella vita da incubo? Non aveva più idea di dove si trovasse sulla penisola della Malesia Britannica, né di che giorno potesse essere. L’unica cosa che sapeva era che l’Anno Nuovo era iniziato.
E che Capodanno aveva passato! Matsushita aveva voluto guidare l’unità facendo una lunga deviazione in mezzo alla giungla e alle paludi a ovest della strada, per colpire alle spalle la postazione fortificata dagli inglesi a Kampar. Così, mentre a Tokyo, a centinaia di chilometri di distanza, la sua famiglia e i suoi amici si scambiavano auguri e festeggiavano mangiando soba, Kikuchi e i suoi commilitoni erano immersi in paludi terrificanti, dove spesso affondavano fino al petto nel fango puzzolente che minacciava di ingoiarli e li ricopriva di sanguisughe che ingrassavano a vista d’occhio sulla loro tenera carne. Perciò a Capodanno, invece di ascoltare le campane del tempio che facevano risuonare il loro messaggio – «Tutto è vano e irreale a questo mondo» – e divertirsi, Kikuchi aveva dovuto trascinarsi dietro a Matsushita, la pelle lacerata da rampicanti spinosi, i capelli dritti in testa mentre i serpenti velenosi si impennavano a destra e a sinistra, e senza altro da masticare che riso crudo e ogni tanto un pezzo di serpente ucciso da Matsushita, che ne inghiottiva il fegato secondo le indicazioni dell’opuscolo intitolato Leggi questo e vinceremo la guerra. In realtà, proprio nel corso di quella manovra Kikuchi aveva iniziato a chiedersi se Matsushita fosse del tutto sano di mente. Infatti, anche se questi aveva sempre avuto la tendenza a divagare su suo zio, il leggendario trombettiere, adesso aveva cominciato a fare di tanto in tanto delle osservazioni offensive, insinuando che se avessero fatto una gara di coraggio e dedizione al dovere lui, Matsushita, non sarebbe mai e poi mai risultato secondo allo zio Kikuchi… e si era persino spinto a dire che, sebbene suonare la tromba esalando l’ultimo respiro fosse una bella cosa, se stavi morendo era un’attività come un’altra. E se anche questo non fosse bastato a sgomentarlo, c’era addirittura di peggio. Il tenente infatti, mentre si gettava a capofitto nelle paludi e nella giungla aprendosi vigorosamente la strada con la sciabola dotata di nappe, gli occhi ardenti, ogni tanto si fermava e intonava un po’ ad alta voce, un po’ fra sé, uno strano canto in una lingua che Kikuchi non aveva mai sentito. Spesso Matsushita avanzava così in fretta da lasciare indietro i propri uomini, i quali, quando alla fine lo raggiungevano, lo trovavano ad aspettarli impaziente. Un giorno Kikuchi, correndo dietro al suo superiore che come al solito si era staccato dal resto del plotone, lo aveva raggiunto inaspettatamente in una specie di radura. Per qualche motivo Matsushita si era sbarazzato dell’uniforme ed era in piedi tutto nudo, a parte le sanguisughe gonfie che lo ricoprivano. Per giunta era circondato da alcuni serpenti velenosi che si erano impennati intorno a lui come per ascoltare il suo canto, che dirigeva con la sciabola. Kikuchi cercò di distinguere quelle strane parole…
… Hanc sententiam dicamus…
Floreat Sand… aah… aah… liaaaaa!
Quando quel bizzarro incantesimo che faceva venire i brividi terminò, Matsushita prese la sciabola e con un rapido colpo decapitò un serpente dopo l’altro. Poi raccolse in fretta per la coda i corpi che si contorcevano, rimase lì per un attimo con quel pugno di esseri che gli spruzzavano sangue sulle cosce come se fosse immerso in pensieri profondi, e alla fine andò a sedersi sul tronco di un albero, aprendoli uno dopo l’altro con due dita tozze in cerca del fegato che si lanciava in bocca. Kikuchi non poté fare a meno di notare una sanguisuga enorme che banchettava sulle parti basse del tenente. Nascosto dietro a una cortina di fronde, il soldato fissò smarrito il suo capo, chiedendosi che fare. Ma cosa c’era da fare se non presentarsi a rapporto come se niente fosse?
Tuttavia, mentre Kikuchi si avvicinava, Matsushita gli si rivolse in modo razionale e addirittura, quando fu arrivato anche il resto dell’unità, fece una breve predica corroborante sullo Spirito Nazionale Giapponese, diffondendosi sulle virtù che tale Spirito avrebbe portato fra le razze oppresse dell’Asia orientale non appena i decadenti europei fossero stati allontanati dall’esercito imperiale. Mentre parlava i membri dell’unità, esausti, stavano in fila in posizione di “riposo”, osservando la sanguisuga che aderiva alle parti intime del tenente e chiedendosi se avrebbero dovuto fargliela notare.