Il generale Percival trascorse la prima settimana di febbraio immerso in un’attività frenetica. Era tale la rapidità con cui i giapponesi avevano dato seguito ai loro attacchi, che sapeva di non poter contare su più di una settimana di proroga prima che sferrassero un attacco all’isola di Singapore. C’erano tantissime cose da fare e pochissimo tempo per farle. Non tornava nemmeno più a Flagstaff House a dormire, ormai: si sdraiava nel suo ufficio al quartier generale del comando in Sime Road e nel giro di qualche istante si ritrovava immerso in un fiume di angosce ancora più penose di quelle che doveva affrontare da sveglio. Quindi, per quanto stanco, preferiva rimanere vigile e rifugiarsi nel lavoro come se fosse una fortezza.
Inoltre, talvolta aveva l’impressione che le sue sorti stessero per cambiare, che la mano invisibile avesse smesso di esercitare la propria influenza sulla sua vita. Infatti, se si consideravano i fatti in modo oggettivo si capiva subito che la situazione avrebbe potuto essere assai peggiore. Dopotutto la maggior parte delle forze di terra al suo comando non era forse riuscita a ritirarsi al di là della Causeway e a trasferirsi nelle postazioni difensive sull’isola senza problemi? Adesso erano lì e scavavano meglio che potevano sotto le granate che avevano cominciato ad arrivare dal mare, dal Johore. Certo, la Ventiduesima brigata ormai era perduta, a parte qualche soldato rimasto indietro che era riuscito ad attraversare lo Stretto su piccole imbarcazioni o che era stato recuperato di notte dalle navi superstiti della Marina. Senza contare che il resto della Diciottesima divisione (britannica) sarebbe dovuto arrivare il 5. Percival era certo che sarebbe giunto proprio all’ultimo momento.
Per la sua forma l’isola di Singapore assomigliava in qualche modo alla testa di un elefante che si muove pesantemente verso l’osservatore, con le orecchie spiegate e svolazzanti e la città di Singapore più o meno al posto della bocca. Sulla punta dell’orecchio sinistro dell’elefante (cioè sulla costa orientale) si trovavano le postazioni fisse delle batterie di Johore e Changi. Sull’altro orecchio c’era il campo di volo di Tengah e la costa con le sue insenature e le paludi di mangrovie. Per l’appunto nessuna delle due orecchie era di grande utilità per il generale Percival: Tengah era a portata di tiro dell’artiglieria che si vedeva arrivare dalla terraferma e non poteva più essere usata dai pochi aerei Hurricane rimasti, che erano stati trattenuti sull’isola per tirare su di morale la popolazione e scortare gli ultimi convogli; adesso dovevano utilizzare l’aerodromo civile di Kallang. Quanto agli enormi cannoni da quindici pollici di Changi, striati come leopardi, che avevano tanto contribuito a diffondere l’idea che Singapore fosse una fortezza, erano stati posizionati in modo da poter affrontare un attacco navale, anche se alcuni di questi in effetti potevano essere collocati di traverso in modo da sparare sul Johore; le loro munizioni (merce rara, fra parentesi), in grado di trapassare le blindature, erano inoltre pensate per essere usate contro le navi e si riteneva che si sarebbero conficcate troppo in profondità per risultare efficaci contro gli obiettivi terrestri.
Insomma, per quanto si dovessero difendere le orecchie dagli sbarchi nemici, com’era ovvio, era la testa a contare, perché tutti i siti importanti si trovavano sulla parte centrale dell’isola. Dal cocuzzolo dell’elefante l’isola era (o meglio era stata) collegata alla terraferma tramite la Causeway, che era lunga poco più di due chilometri: quando l’ultimo Argyll che aveva ricevuto il pericoloso incarico di coprire la ritirata l’ebbe attraversata sano e salvo e fu tornato sull’isola, venne aperto con l’esplosivo un buco gigantesco… o così parve. Percival ne era stato molto soddisfatto quando aveva visto l’acqua scorrervi in mezzo a gran velocità. Ma dopo un po’ anche quel buco si era rivelato una delusione, perché ciò che aveva visto era il flusso durante l’alta marea… con la bassa marea era tutta un’altra storia. Non sembrava più tanto efficace come ostacolo, ma comunque era molto meglio che stare senza buco.
La strada principale che di norma raggiungeva la Causeway e approdava sul cocuzzolo dell’elefante proseguiva dritta verso la bocca e la proboscide, dove si trovava la città di Singapore… ossia più o meno verso sud. A due terzi della lunghezza incrociava il villaggio di Bukit Timah, e da lì prendeva il nome di Bukit Timah Road per poi giungere al traguardo in città.
Questa strada era circondata da alture non particolarmente imponenti come Bukit (che significa “collina”) Mandai, Bukit Panjang, Bukit Timah e Bukit Brown, l’unica zona collinare dell’isola, da un’area non meglio definita di nome Sleepy Valley, da un ippodromo, da un circolo del golf e da un cimitero (su Bukit Brown), il tutto raggruppato intorno al quartier generale del comando di Sime Road dove Percival adesso scacciava le mosche che cercavano di atterrargli inesorabili sul dorso delle mani sudate mentre era chino sulle mappe.
Poco più a est, proprio in mezzo agli occhi della bestia, si trovavano le riserve idriche che se l’assedio si fosse prolungato sarebbero state vitali e, ancora più a est, la stazione di pompaggio di Woodleigh. A parte l’acqua dei bacini, presso l’ippodromo erano state scaricate abbondanti scorte alimentari recuperate sulla terraferma. Di fianco a questo erano stati allestiti due depositi di combustibile, per non parlare degli altri magazzini di cibarie, benzina e munizioni situati nella zona di Bukit Timah. Sì, nell’insieme era un’area che Percival sapeva di dover difendere a ogni costo. Ma avrebbe comunque dovuto difenderla “a ogni costo”, dal momento che la città di Singapore era poco più avanti lungo la strada.
Nei piani predisposti per la difesa dell’isola si era deciso che se fosse successo il peggio e i giapponesi avessero consolidato le loro posizioni sulla terraferma, le aree a est e a ovest (le orecchie dell’elefante) potevano à la rigueur essere abbandonate e le forze che le difendevano arretrare verso le seconde linee di difesa. Queste ultime, note come “linee di scambio”, seguivano approssimativamente il profilo della testa dell’elefante all’attaccatura delle orecchie: sul lato est la “linea di scambio” si ritrovava a sporgere un po’ dal capo in modo da includere l’aerodromo di Kallang; senza contare che i pesanti cannoni di Changi avrebbero dovuto essere abbandonati. Sul lato occidentale la “linea di scambio” era particolarmente facile da stabilire grazie a due fiumi o ruscelli, il Jurong e il Kranji, che scorrevano rispettivamente verso nord e verso sud proprio nel punto in cui l’orecchio si congiungeva al cranio. Si trattava quindi soltanto di unire i due ruscelli con una linea difensiva che andava da nord a sud in modo da isolare completamente l’orecchio occidentale. Niente di più semplice.
Quella “linea di scambio” nota come “linea Jurong” era stata quindi perlustrata ma non era stato fatto alcun tentativo di insediarvi postazioni di difesa fisse, e questo per due motivi. Il primo era che le truppe stavano già scavando freneticamente le trincee lungo la costa settentrionale per prepararsi a un attacco giapponese dallo Stretto di Johore e quindi non ne avevano il tempo. Il secondo era che Percival non era convinto che i nemici sarebbero arrivati da quella parte. Pensava piuttosto che avrebbero attaccato in un punto sulla cima dell’altro orecchio (quello orientale) fra Changi e Seletar.
Riteneva che l’attacco giapponese sarebbe avvenuto sulla costa nordorientale dell’isola anche perché, quando aveva discusso quella prospettiva con Wavell un paio di settimane prima, questi si era mostrato scettico: pensava che sarebbe avvenuto sulla costa nordoccidentale. E non era l’unico: era ovvio che anche il generale di brigata Simson, il DGCD, la pensava allo stesso modo, perché lui o il vicecapo dei genieri stavano scaricando di propria iniziativa grandi quantità di materiali per la difesa a ovest della Causeway. Li stavano accumulando fin da dicembre: congegni esplosivi, filo spinato, filo anticarro ad alta resistenza e persino barili di benzina con cui dar fuoco all’acqua e riflettori per illuminare ogni possibile punto di sbarco. Avevano scaricato blocchi anticarro, ostacoli e catene ai lati della strada. Senza dubbio Simson aveva buone intenzioni. Restava il fatto che, secondo Percival, aveva tutte le caratteristiche per diventare una maledetta seccatura. Fin da quando era arrivato aveva chiesto che fossero costruite postazioni fisse di difesa sulla costa settentrionale dell’isola. Non voleva capire ciò che tali difese avrebbero significato per il morale delle truppe che combattevano nell’entroterra, e a dirla tutta anche dei civili. L’ultima novità di Simson consisteva nel togliere i fari dalle auto per aumentare il numero di riflettori! Il governatore, però, lo aveva bloccato sul nascere e Percival, sapendo che non rimaneva molto tempo per prepararsi all’attacco giapponese, aveva provveduto a far spostare il materiale per la difesa dalla parte occidentale a quella orientale della Causeway dove, ne era certo, sarebbe stato necessario.
Tormentato dalle mosche, con la testa che gli girava per la mancanza di sonno, Percival se ne stava nel suo ufficio di Sime Road a rimuginare sulle mappe e ad ascoltare i tonfi lontani e monotoni dei cannoni. I giapponesi non avevano perso tempo per spostare l’artiglieria pesante, erano soldati in gamba, inutile negarlo. Adesso stavano bombardando la costa settentrionale a tappeto… e in particolare, per l’appunto, quella a ovest della Causeway. Ah, ma Percival non si sarebbe fatto ingannare, l’attacco vero non sarebbe stato sferrato lì! Bombardare un settore per poi attaccarne un altro era un vecchio trucco. C’era quasi qualcosa di piacevole, gli parve, nel costante rimbombare dei colpi, che comprendeva le bombe lanciate dalla sua artiglieria sul Johore e il martellare delle difese antiaeree… gli ricordava curiosamente i tempi della sua gioventù, gli infiniti scontri di artiglieria della Grande guerra. Per quanto fosse stata terribile, adesso gli pareva quasi un ricordo gradevole. Pensò per un attimo di accennarlo a Brookers… anche lui avrebbe apprezzato le reminiscenze. Ma poi si ricordò che Brooke-Popham era già tornato in Inghilterra. Pazienza, davvero. Al vecchio amico ormai non interessavano più quelle cose.
Poi gli venne in mente che ciò che era andato storto fino a quel momento nella campagna era l’impossibilità da parte sua di intraprendere una vera e propria azione: era stato più volte costretto a reagire. Grazie alle esitazioni di Brooke-Popham il comandante giapponese aveva preso l’iniziativa fin dall’inizio e non l’aveva mai persa. Certo, lui era stato vittima di un’eccezionale (e davvero sospetta) serie di sfortune, ma restava il fatto che quella mano invisibile lo aveva costretto a fare quello che voleva lei. Quando Wavell aveva suggerito che l’attacco giapponese sarebbe stato sferrato a ovest della Causeway e il geniere capo, a quanto pareva di sua iniziativa, aveva cominciato a scaricare materiali proprio lì, be’, come sarebbe stato facile credere che quello fosse il punto giusto! Ma qualcosa dentro di lui si era ribellato. Aveva avuto la sensazione che ancora una volta quella mano invisibile stesse cercando di manovrarlo e allora si era detto: «Sii obiettivo!» Perciò si era liberato dai pregiudizi e aveva ristudiato la mappa chiedendosi che cosa avrebbe fatto se fosse stato nei panni del comandante giapponese. La risposta era: avrebbe sferrato l’attacco sulla costa a nordest sfruttando Pulau Ubin, l’isola dalla forma allungata che sorgeva nello Stretto di Johore, così da celare i preparativi a chi si trovava sull’isola di Singapore. Percival aveva quindi assegnato alle truppe inglesi della Diciottesima divisione appena arrivate, il cui morale non era ancora stato intaccato dalla lunga ritirata attraverso la penisola, il settore che riteneva più critico… sebbene ovviamente fosse necessario difendere tutta la costa settentrionale.
C’era però ancora la possibilità che si sbagliasse sul fatto che i giapponesi avrebbero attaccato a est della Causeway. I tizi dell’intelligence a Fort Canning, per esempio, prevedevano un attacco a ovest. Ma che ne sapevano loro? Di certo non più di lui, non avevano gli aerei di ricognizione ad assisterli. A ogni modo, per andare sul sicuro, aveva ordinato a Gordon Bennett di inviare nottetempo delle pattuglie sulla terraferma per farsi un’idea più precisa di quello che avevano in mente i giapponesi. Bennett l’aveva tirata per le lunghe e adesso Percival avrebbe dovuto parlargli chiaramente.
Allungò una mano per prendere alcune carte sulla scrivania e nel farlo gli cadde una fotografia: erano documenti privati di scarsa importanza che aveva portato da Flagstaff House con l’intenzione di distruggerli. Per puro caso la foto era di lui e Bennett in piedi, fuori da Flagstaff House, a quanto pareva. Erano entrambi “a riposo”, vestiti in modo identico a parte il fatto che Bennett indossava una camicia con le maniche corte mentre lui se le era arrotolate fino al gomito. Ma quello che colpì Percival in quel momento fu la differenza di espressione: mentre lui sorrideva garbatamente davanti all’obiettivo, Bennett, un tipo basso e bene in carne con la cintura stretta su un pancione di tutto rispetto, era in piedi un po’ indietro rispetto a lui, sembrava scontento e addirittura lo fissava di sbieco con la coda dell’occhio, in un modo che avrebbe potuto sembrare quasi sprezzante. Ma forse se lo stava solo immaginando… era risaputo che le fotografie davano l’impressione sbagliata, che coglievano strane espressioni sui volti dei soggetti ritratti. Eppure doveva ammettere di non riporre più in Bennett la stessa fiducia di una volta. Mentre tanti soldati australiani avevano combattuto eroicamente e con buoni risultati, Bennett, che ne era il capo, si era dimostrato un peso morto. Quindi, tutto sommato, Percival era contento che coprisse l’area a nordovest che aveva minori probabilità di essere attaccata.
In quel momento i suoi pensieri furono interrotti dal GSO1 di servizio nella sala operativa, che non recava buone notizie. Era giunto un dispaccio urgente dall’aerodromo di Kallang tramite il personale della RAF: una delle quattro navi del convoglio che trasportava le rimanenti unità della Diciottesima divisione britannica, la Empress of Asia, era rimasta indietro rispetto alle altre tre e non era riuscita, con il favore delle tenebre, a raggiungere lo scudo (relativamente) sicuro delle difese aeree di Singapore. Era stata attaccata da bombardieri in picchiata al largo delle isole Sembilan e rischiava di affondare. La Marina era impegnata nel recupero dei sopravvissuti.
Per qualche istante, mentre valutava la notizia, Percival rimase senza parole. Era così sicuro che la mano invisibile non avrebbe interferito ancora nei suoi affari… e invece! Aveva dato per scontato che la Diciottesima divisione sarebbe arrivata sana e salva. Alla fine, però, si riscosse e disse meccanicamente al GSO1: «Dobbiamo considerarci fortunati di aver perso solo questa nave». Poi, con fare brusco, si dedicò ad altre questioni. C’erano ancora tante cose da fare. In particolare voleva sapere quali progressi erano stati compiuti nella demolizione dell’impianto presso la base navale: gli pareva incredibile, ma il personale della Marina se l’era filata a Ceylon su ordine dell’Ammiragliato senza nemmeno disturbarsi a informarlo che sarebbero state le sue truppe già in difficoltà a doversi occupare di quella demolizione.
Poco dopo giunsero altre notizie sulla Empress of Asia: sebbene sia il transatlantico che gli armamenti che trasportava fossero stati distrutti, le perdite umane erano state poche. Quello era senza dubbio un buon segno: Percival chiamò subito l’autista e si fece accompagnare al porto per accogliere i sopravvissuti. Certo, non sarebbero stati di grande aiuto senza gli armamenti, tra cui vi erano pezzi di artiglieria anticarro (se solo ne avessero avuti di più sullo Slim!), ma era comunque un passo nella direzione giusta. E alla fin fine tutti gli uomini in salute avrebbero potuto essere utili, purché vi fosse abbastanza tempo per mettere in piedi una difesa soddisfacente.
Poi, però, gli giunse una notizia ancora più preoccupante: il 7 febbraio Bennett si era finalmente deciso a inviare sulla terraferma le pattuglie di ricognizione notturna da lui richieste. Al ritorno avevano riferito un fatto sconcertante: le truppe giapponesi si stavano concentrando di fronte al settore nordovest. Possibile, si chiese Percival, che la sua previsione fosse sbagliata?