Matthew era tornato da un incendio e trovò un messaggio in cui Vera gli diceva di essere andata al villaggio di Bukit Timah a cercare una persona che forse sarebbe stata disposta a offrirle un nascondiglio dai giapponesi. Quando lo lesse, Matthew si mise le mani nei capelli, terrorizzato. Ma era impazzita? Non si rendeva conto di andare esattamente verso la parte più pericolosa dell’isola? Né lui né gli altri che incontrò avevano un’idea precisa di dove si trovasse la linea del fronte, ma dal rumore dell’artiglieria pareva che i giapponesi stessero già avanzando verso Bukit Timah. Sperava nella presenza di blocchi stradali che le avrebbero impedito di proseguire, com’era plausibile, ma dopo aver trascorso alcuni minuti a camminare avanti e indietro, incerto sul da farsi, decise di andare a cercarla. Anche se sapeva di avere ben poche probabilità di trovarla con quel buio e quella confusione, quantomeno la ricerca l’avrebbe tenuto impegnato. E così, a tempo debito, partì sulla motocicletta di Turner.
Matthew aveva guidato una moto solo un paio di volte, e non era affatto sicuro di riuscire a tenere a bada quella, soprattutto in una notte di buio pesto con il faro coperto e la prospettiva di trovare le strade piene di crateri. Ma dopo cinque minuti di pratica sotto la guida di Turner all’interno del comprensorio, in cui aveva fatto un paio di giri intorno al campo da tennis e sulle aiuole fiorite, afferrò la leva del cambio sul serbatoio e si preparò a lasciare la presa. Il mezzo scattò sulla strada come una tigre.
In un lampo era già in Stevens Road e sbandava nell’oscurità calda dei tropici verso Bukit Timah Road. Mentre procedeva, con il piede continuava a tastare una sporgenza metallica che doveva essere il freno… eppure quando la schiacciò gli parve di accelerare e più andava veloce, più si allarmava, senza rendersi conto che per l’agitazione stava involontariamente dando gas con la manopola di destra. Su entrambi i lati della strada, forme scure incombevano e svanivano a una velocità terrificante. Continuò a tutto gas, il piede che cercava ancora il freno. All’incrocio con Dalvey Road si accorse finalmente che la moto correva a più non posso perché stringeva troppo l’acceleratore. Lo lasciò andare e rallentò un minimo, e appena in tempo, perché c’era un blocco stradale. Agitando una torcia oscurata, qualcuno gli fece cenno di fermarsi. Lui si avvicinò, il piede che cercava il freno sempre più disperatamente mentre avanzava sbandando.
«Non riesco a fermarmi!» gridò alle figure scure in piedi sulla strada poco più in là. Agitato com’era, dimenticò che non doveva ruotare la manopola e si ritrovò ancora una volta scagliato in avanti. Le figure si scansarono a destra e a sinistra.
«Stronzo!» gridò infuriata una di loro mentre Matthew le sfrecciava accanto. Ma lui era già all’angolo con Bukit Timah Road. Poi, proprio quando era sicuro di andare incontro al suo destino come una saetta nel flusso di traffico, il suo piede atterrò su un’altra sporgenza metallica che scoprì essere il freno. Evitò per miracolo di cozzare contro un camion che stava sbucando all’incrocio in fondo a Stevens Road.
Era difficile distinguere che cosa stesse succedendo. La strada pareva piena di figure che imprecavano trascinando i piedi, alcune in una direzione, alcune nell’altra. Un poliziotto militare gridava con voce roca ai guidatori stando in mezzo alla strada, accanto al canale di scolo. Al di là di questo, qualche luce tremula tradiva la presenza di un’altra lunga colonna di soldati in Dunearn Road che avanzavano a fatica nella direzione opposta. Qualcuno gli puntò in faccia una torcia e gli gridò rauco: «Stai andando nella direzione sbagliata, amico. Quella è la strada che porta verso la maledetta guerra!» Non c’erano altri blocchi stradali e nessuno cercò di fermarlo, ma lungo la via uomini e veicoli continuavano ad annaspare nel buio come le membra di un gigante incatenato e ferito.
Ben presto Matthew imparò a insinuarsi con la moto negli spazi stretti tra i veicoli, ma avanzava comunque adagio. Vicino all’ippodromo divampava un incendio gigantesco, con fiamme che si levavano di trenta metri verso il cielo: era il deposito con le scorte di combustibile che il generale Percival aveva ordinato di incendiare un’ora prima del buio. Matthew riuscì a vedere in controluce i profili di uomini armati dalle ombre lunghe, che arrancavano verso la città di Singapore ma venivano continuamente bloccati dal traffico che si immetteva nel flusso o si apriva a forza un varco. Anche lui ebbe difficoltà a procedere, incuneato tra due camion carichi di indiani silenziosi e preoccupati. Nel frattempo nella direzione opposta continuavano a riversarsi figure disperate, i volti trasfigurati dal bagliore. Uno di quegli uomini barcollò verso di lui, soffiandogli in faccia l’alito che sapeva di whisky. «Che sta succedendo?» chiese Matthew ansioso. «Ci stiamo ritirando?»
«Cavolo, amico, ci puoi scommettere!» rispose l’uomo, allontanandosi con una risata isterica.
Nonostante la luce dell’incendio al deposito di benzina era impossibile vederci abbastanza da poter riconoscere qualcuno. «Come faccio a trovare Vera in questo caos?» si chiedeva Matthew disperato. Di tanto in tanto, fra i soldati in fuga dal villaggio di Bukit Timah, c’erano gruppetti di civili con i fagotti sulle spalle o intenti a trascinare carretti a mano; ai lati della strada intravide le ombre di uomini che correvano a passo lento con un palo sulle spalle al quale erano appesi scatole, valigie o altri fardelli, ma sfilavano via distogliendo lo sguardo: solo dai vestiti si poteva cercare di indovinare se fossero indiani, malesi o cinesi. Era una situazione disperata. Pensò di tornare indietro, ma ormai si era lasciato sulla destra l’ippodromo e Bukit Timah non poteva essere a più di un chilometro da lì, perciò decise di spingersi un po’ più avanti. Guidò stordito, trovando sempre meno ostacoli via via che proseguiva. Superò un bivio sulla sinistra. Quella strada era tranquilla e lo tentava, ma non la prese e in quel momento, visto che iniziava la salita, capì che Bukit Timah e l’incrocio con Jurong Road dovevano essere vicini.
Sospeso tra due file di case sul viale, un groviglio di cavi elettrici lanciava una cascata crepitante di scintille bianche su uno scenario talmente caotico che a Matthew si fermò il cuore. Camion e quad muniti di torretta erano incastrati alle angolazioni più varie e una marea di uomini vi scorreva accanto: i poliziotti militari, che urlavano addosso ai guidatori, si gridavano a vicenda e cercavano intanto di ordinare a una squadra di portare via un veicolo abbandonato o incidentato, parevano incapaci di sbloccare il traffico congestionato. In tutto quel caos, su un’auto d’ordinanza scoperta quattro generali di brigata cercavano di decifrare una cartina alla luce di una torcia e ogni tanto si guardavano intorno nell’oscurità che brulicava, come chiedendosi dove fossero.
Matthew girò la moto e si lasciò risospingere indietro da dove era venuto per un breve tratto, in mezzo a una folla di soldati indiani in corsa, che in certi casi avevano abbandonato i fucili e gli stivali e procedevano scalzi, chiacchierando agitatissimi tra loro. Matthew, contagiato dalla loro paura, continuava a guardarsi alle spalle come se si aspettasse di avere i giapponesi alle calcagna. Di colpo si ritrovò all’incrocio con la stradina tranquilla che aveva visto prima; accelerò allontanandosi dal gruppo di indiani e svoltò per imboccarla. Per un po’ li sentì ancora chiamare e parlare mentre proseguivano verso Singapore.
Aveva imboccato Reformatory Road, che portava a Pasir Panjang, sulla costa. C’era il rischio che conducesse dritto alle linee giapponesi… ma dov’erano, poi, le linee giapponesi? A ogni modo, purché la strada non svoltasse verso i tonfi e i lampi dell’artiglieria alla sua destra, era pronto a seguirla, sebbene con prudenza. Iniziò a cadere qualche spruzzo di pioggia tiepida.
Un po’ più avanti vide il lampo di una torcia squarciare il buio. Fermò immediatamente la moto e trattenne il respiro, il cuore che martellava. La luce della torcia ricomparve un attimo dopo: illuminava la parte anteriore di un’automobile. Non gli parve che si avvicinasse, quindi abbandonò la moto e avanzò a piedi senza fare rumore. Mentre si avvicinava vide l’ombra di una jeep con un uomo in uniforme che sbirciava dentro il cofano; un attimo dopo lo richiuse, disse qualcosa a un altro uomo seduto dentro l’auto e si avviò di corsa verso Pasir Panjang, evidentemente per cercare aiuto.
Matthew avanzò cauto, ascoltando il rumore degli stivali dell’autista che si allontanavano sul manto d’asfalto: non voleva che gli sparassero per sbaglio. Quando si trovò a pochi metri dalla jeep, qualcuno riaccese la torcia e il chiarore gli svelò la presenza di un uomo basso e corpulento con i baffi, che indossava un’uniforme da generale; anche lui stava consultando una mappa. Il viso tondo e scontento con gli occhi sporgenti aveva senz’altro qualcosa di familiare: quell’ometto grassoccio abbandonato al buio, con le gocce di pioggia che avevano iniziato a picchiettare sul cappello dalla banda rossa e sulla cartina che teneva in mano, era sicuramente il generale Gordon Bennett, il comandante australiano! Matthew aveva visto una sua foto su un giornale, scattata mentre ispezionava le truppe. E adesso era lì, da solo su una jeep rotta in quello che poteva essere un momento critico della battaglia per Singapore. Forse lui, Matthew, grazie alla motocicletta, in quel frangente cruciale avrebbe potuto aiutarlo. Esitò, chiedendosi se doveva farsi vedere e offrire i propri servigi.
Gordon Bennett, seduto sulla jeep, non aveva sentito Matthew avvicinarsi. Era assorbito da altre questioni, ben più disperate. Le ultime ore erano state le peggiori di tutta la sua vita: quel mattino era rimasto sconvolto dalla notizia che i giapponesi avevano fatto breccia fra le sue truppe sulla costa nordoccidentale, il che rappresentava per lui un fallimento prima inconcepibile. Poi c’era stato il bombardamento del suo quartier generale proprio mentre Wavell e Percival erano in visita. E come se non bastasse aveva pure fatto una figuraccia con Wavell perché non sapeva che cosa stesse combinando Maxwell nel suo settore della Causeway. No, nelle ultime ore le cose non erano andate affatto bene. Forse l’unica briciola di conforto era che in una fase precedente della campagna il sultano del Johore lo aveva preso in simpatia ed era stato molto generoso; gli aveva persino fatto intendere che nel caso di una disfatta britannica avrebbe potuto prendere in considerazione l’idea di aiutarlo a fuggire in Australia.
Sì, Gordon Bennett aveva capito che il sultano era una persona di gran classe e quest’ultimo, ne era certo, non aveva mancato di notare in lui le qualità che denotavano una buona educazione. Non molto tempo prima, così aveva sentito dire, un’ospite del sultano, una nobile inglese, aveva espresso il capriccio di voler nuotare nello Stretto di Johore, infestato dagli squali. Per tanti anfitrioni sarebbe stata una richiesta eccessiva, ma non per lui. Che cosa aveva fatto? Aveva ordinato a diverse centinaia di guardie del palazzo di entrare in acqua e di prendersi per mano formando un recinto a prova di squalo nel quale la dama avrebbe potuto fare il bagno in sicurezza. Quella, per Bennett, era classe. Sapeva distinguere un gesto di classe a un chilometro di distanza. Sospirò e tornò a concentrarsi sulla mappa, seppure con riluttanza. Fu proprio in quel momento, come se la disfatta non fosse stata sufficiente, che un civile dagli occhi sbarrati sbucò fuori dal buio e puntò su di lui come un lupo mannaro. Mentre Matthew emergeva dall’oscurità circostante, Bennett si tirò indietro, così terrorizzato che si vide persino il bianco degli occhi.
«Chi diavolo sei e cosa vuoi?» chiese infuriato.
«Ho una motocicletta» disse Matthew, spiazzato da quell’accoglienza ostile. «Mi chiedevo solo se desidera un passaggio… Ma immagino di no» aggiunse vedendo che le guance del generale si imporporavano. Con un colpo di tosse imbarazzato tornò a immergersi nell’oscurità. Poi si sentì una moto rombare e allontanarsi. Il generale rimase solo nella pioggia notturna.
Quando Matthew tornò al Mayfair Building scoprì che Vera, impossibilitata a raggiungere Bukit Timah, era tornata lì, ma era ripartita quasi subito e non si sapeva per dove.