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XI. LA BELLEZZA INTERIORE

56. «Il dono supremo»

«Il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale.» L’autore di questa frase è lo scrittore russo di origine ebraica Vasilij Grossman, il quale non era certo ciò che oggi, per contrassegnare chi non ha idea di come va avanti il mondo, viene definito con un sorriso di sufficienza un idealista. Egli infatti il mondo lo conosceva bene: lo conosceva in quanto natura fin nelle sue strutture elementari essendo laureato in chimica, e soprattutto lo conosceva in quanto storia essendo stato corrispondente del quotidiano dell’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale. Nel corso dell’epica battaglia di Stalingrado rimase in prima linea diversi mesi rischiando ogni giorno la vita; fu il primo giornalista a entrare in ciò che rimaneva del campo di sterminio di Treblinka (il racconto che ne trasse venne utilizzato durante il processo di Norimberga),1 e varcò l’ingresso del palazzo della Cancelleria di Berlino giungendo fino all’ufficio personale di Hitler. Caduto in disgrazia sotto la dittatura sovietica per le critiche sempre più radicali al regime comunista, che giunse a equiparare al nazismo quanto a negazione sistematica e crudele della libertà,2 Grossman fu costretto negli ultimi anni della vita a vivere di traduzioni, e fu questo il motivo che lo portò in Armenia per un viaggio di alcuni mesi il cui resoconto costituisce una delle sue opere più belle e più commoventi. È da questo racconto che ho tratto la frase citata sopra, che ora riporto nel più ampio contesto:

C’è un dono superiore rispetto a quello dei geni della scienza e della letteratura, dei poeti e degli scienziati. Tra le persone di talento, se non di genio, tra i virtuosi delle formule matematiche, del verso poetico, della frase musicale, dello scalpello o del pennello, molti hanno un animo misero, debole, meschino, lascivo, avido, servile, cupido, invidioso; molti sono i molluschi, gli smidollati nei quali l’irritazione di una coscienza inquieta favorisce la nascita della perla. Il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale, della nobiltà d’animo, della magnanimità e del coraggio del singolo in nome del bene. È il dono di cavalieri e fanti timidi e senza nome che con le loro imprese fanno sì che l’uomo non si trasformi in una bestia.3

Quanti uomini di talento e di genio Grossman avrà visto riverire i potenti per ottenere sostegno, favori, posizioni, ciò che oggi, nell’era delle immagini, si usa chiamare visibilità? Quanti ne avrà visti produrre la loro opera artistica o scientifica spinti da smodata ambizione o da invidia o addirittura da odio? Le dittature, infatti, favoriscono al massimo la dimensione servile della natura umana. Per questo il non-credente Vasilij Grossman giunse a porre al vertice dei valori una dimensione non materiale, non economica, non politica, non scientifica, non culturale, ovvero non riconducibile a nessuno dei saperi e delle tecniche che gestiscono la macchina di questo mondo. Pose al vertice ciò che chiamò «bellezza spirituale», definendola anche «nobiltà d’animo», «magnanimità», «coraggio in nome del bene». Per lui infatti, e anche per me, il bene è il valore supremo, la vera grande bellezza. È il rapporto con il bene a ingrandire l’anima, a renderla magna, magna anima da cui l’aggettivo «magnanima» e da cui l’espressione sanscrita mahā ātman che genera il titolo onorifico mahātmā usato dalla tradizione hindu per i veri grandi uomini, tra cui il mahātmā Gandhi. Il bene suscita il desiderio di armonia con sé e con gli altri, che è la fonte della bellezza interiore.

57. «L’anima bella»

Per giungere a maturità, il rapporto del soggetto con il bene deve cessare di essere normativo. Se infatti tra il soggetto e il bene c’è ancora la norma a fare da mediazione, si tratta di un rapporto ancora acerbo; per diventare maturo, esso deve vivere di una spontanea attrazione interiore descritta al meglio dalla dimensione estetica. Divengono così centrali il fascino e la grazia; anzi, per spiegare il sentimento dolce e insieme severo alla base della libera attrazione suscitata dal bene, risulta persino legittimo parlare di seduzione, come il profeta Geremia rivolto al suo Dio: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Geremia 20,7). A questo livello l’azione sa andare a volte anche al di là dell’etica codificata e convenzionale.

Quasi due secoli prima di Grossman, il poeta e drammaturgo tedesco Friedrich Schiller parlava di questa dimensione umana usando l’espressione «anima bella»:

Si chiama anima bella quella in cui il senso morale sia giunto ad assicurarsi di tutti gli affetti dell’uomo al punto che può abbandonare senza timore al sentimento la guida della volontà, senza pericolo di trovarsi mai in contraddizione con le risoluzioni di esso.4

Nel suo rapporto con il bene e la giustizia, l’anima bella supera l’etica del dovere ed entra in una relazione di tipo estetico. Non fa il bene perché è suo dovere, perché qualcuno, per esempio la Bibbia o la Chiesa o il partito o il movimento o l’azienda, lo comanda; no, lo fa semplicemente perché ne è affascinata. Si affida cioè al suo sentimento, al suo originario e individuale sentire. Nella persona che può essere definita «anima bella» sentire etico e sentire estetico coincidono.

Naturalmente l’anima bella è ben lungi dall’essere riconducibile o anche solo accostabile al soggettivismo di chi non riconosce nulla di più importante di sé, secondo quella smisuratezza dell’ego evocata lucidamente da Max Stirner quando afferma: «Non c’è nulla che mi importi più di me stesso!».5 Né l’anima bella può essere associata alla ribellione contro le superiori potenze denominata titanismo, in riferimento alla sfida dei Titani contro gli Dei. Muovendosi all’interno della dimensione estetica, l’anima bella anzitutto sente: sente un’armonia superiore alla quale spontaneamente si connette perché la ritrova dentro di sé, e se supera la dimensione del dovere non è perché è ancora attaccata a se stessa, ma, esattamente al contrario, perché è andata completamente al di là del suo sé, arrivando a identificarsi con quell’armonia superiore ritrovata nella propria interiorità. Non si tratta quindi di un’affermazione capricciosa o titanica del soggetto; si tratta, al contrario, di un abbandono della volontà personale che giunge ad aderire spontaneamente a un disegno più grande facendolo proprio, e quindi realizzandolo con disinvoltura e leggerezza. «È possibile spiegare tutto questo con la sola natura umana, quella natura di cui ho profondamente veduto la corruzione?» fa chiedere Goethe, buon amico di Schiller, a un suo personaggio femminile in un lungo discorso denominato proprio Confessioni di un’anima bella, e l’anima bella risponde: «Per me è certo che no».6

58. La critica all’anima bella e al cosiddetto «buonismo»

Contro la figura dell’anima bella fu Hegel, nel nome di tutti i realisti, a sferrare l’attacco rimasto più celebre. Egli sosteneva che tale ideale fosse sostanzialmente inadeguato in quanto incapace di fare i conti con la realtà del mondo, il cui valore-guida, per Hegel, non è la giustizia individuale, ma quella realizzata come diritto statale e quindi come istituzione: una giustizia, quindi, che coincide in ultima istanza con la forza vittoriosa. Per questo, per Hegel, è inammissibile voler esistere come anima bella, facendo cioè dell’estetica e del sentimento individuale il criterio fondamentale cui ricondurre l’etica e subordinando a esso il diritto, la politica, l’economia, la religione e ovviamente ogni loro istituzione.

A proposito delle anime belle che sognano un mondo diverso da quello reale e non intendono praticare nessun compromesso per non sporcarsi le mani e la coscienza, Hegel afferma che a loro «manca la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l’essere», e questo perché in tali individui «la coscienza vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto con la realtà effettiva». Il risultato è il seguente: «In questa lucida purezza dei suoi momenti, una infelice anima bella, come la si suole chiamare, arde consumandosi in se stessa e dilegua quale vana caligine che si dissolve nell’aria».7 Il fallimento quindi è duplice: infelicità personale da un lato, irrilevanza economico-politica dall’altro.

Tutto ciò ai nostri giorni viene espresso dall’aggettivo «buonista», termine usato per designare chi, animato da buoni sentimenti ma ignaro della dura realtà, risulta poco capace di incidere sulla effettiva situazione delle cose. Spesso nello sport e in altri ambiti si usa l’aggettivo «cattivo» come sinonimo di «efficace», non facendo che esprimere il pensiero diffuso secondo cui chi è cattivo vince, chi è buono perde. Questo è oggi il pensiero dominante: una strana miscela tra il realismo di Hegel che celebra i vincitori, la selezione naturale di Darwin che premia i più adatti, la volontà di potenza di Nietzsche che va al di là del bene e del male. Chi aderisce a questa visione maggioritaria nega non tanto l’etica, quanto il suo primato: nega cioè che l’etica debba risultare più forte della politica e dell’economia; nega, in altri termini, che a contatto con il mondo reale ci si possa permettere di rimanere giusti e quindi di risultare belli.

59. A favore dell’anima bella e del primato del bene

Diversamente dal pensiero dominante, io ritengo che quando la tensione etica verso il bene e la giustizia diviene un movimento continuo, sereno, spontaneo, direi quasi una seconda natura esattamente come insegna la figura dell’anima bella, allora consegue una compiuta conciliazione interiore, qualcosa di molto vicino alla pienezza della vita. Sono convinto infatti che non vi sia nulla più importante della propria anima, o, se si preferisce un’altra terminologia, della propria coscienza, interiorità, cuore. È ciò che insegnano le grandi tradizioni spirituali. Si legge nel Vangelo:

A che giova a un uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima? (Marco 8,36-37, versione CEI 1974 decisamente migliore in questo caso della versione CEI 2008 attualmente in uso).

Circa tre secoli prima la medesima prospettiva era stata affermata in questi termini da Aristotele: «La bellezza morale è il bene maggiore».8 E nello stesso periodo, dall’altra parte del mondo, il filosofo confuciano Mencio sosteneva: «Il bene è il cuore dell’uomo, la giustizia la strada dell’uomo». Poi, quasi ammonendo i suoi contemporanei che vedeva poco inclini a credere al suo ottimismo antropologico, continuava:

Trascurare la propria strada e non percorrerla, smarrire il proprio cuore e non saperlo ricercare, che pietà! Quando si tratta di una gallina e di un cane che si smarriscono, l’uomo sa ricercarli, ma quando è il cuore che si smarrisce, non sa ricercarlo.9

Oggi come allora sappiamo cercare e ritrovare le galline e i cani della nostra esistenza (cioè i beni materiali e tutti gli accessori del divertissement), ma la nostra anima, ciò che abbiamo di più prezioso e che dovremmo proteggere con tutta la nostra attenzione, non sappiamo ritrovarla e forse neppure cercarla. Per questo abbiamo bisogno di maestri, di chi sa indirizzarci verso quel sapere pratico su noi stessi che la tradizione denomina direzione spirituale, al cui riguardo Mencio concludeva: «Lo scopo dell’apprendere non è altro che la ricerca del cuore che si è smarrito».10

Tendere a essere un’anima bella, che non si lasci abbruttire dalla pesantezza e talora dalla sporcizia del reale, è l’obiettivo principale della vita, a cui nulla va anteposto.

60. Qualcosa di più prezioso dell’ego che fa deporre l’ambizione

Se il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale, come dice Grossman, da dove viene tale bellezza spirituale? In che modo un’anima diventa bella? Quando è legittimo dire che un’anima è bella? Cosa fa sì che una persona abbia bellezza interiore, e un’altra, magari dotata di avvenenza fisica, ne sia totalmente sprovvista?

Io penso che la bellezza interiore sorga in alcuni a causa del fatto che nella loro interiorità vi giunge ad abitare qualcosa di più prezioso dell’ego. Questo qualcosa si può manifestare in modo diverso a seconda della formazione di chi lo ospita: come un’idea, nel caso di un intellettuale; come un ideale, nel caso di un attivista politico o di un operatore sociale; come una fede, nel caso di un credente; come un’aria o una forma, nel caso di un artista; come un agire quotidiano compiuto per amore, nel caso di una madre o di un padre di famiglia e in altri modi ancora. La sorgente della bellezza interiore consiste in uno spazio vuoto, simile a una radura che appare a un tratto in una foresta quando il fitto ordito degli alberi si interrompe e la luce può giungere a toccare l’erba del suolo in tutta la sua portata conferendole un’intensità particolare. Tale spazio vuoto è un luogo non-luogo in cui l’ego non c’è, intendendo per ego la volontà, sia essa appropriativa o difensiva o di altro tipo, ma sempre e comunque autoriferita. La bellezza interiore appare così consistere nel non voler avere alcuna bellezza, in un sereno distacco da sé, nell’assenza di ambizione, termine, quest’ultimo, da intendere anzitutto nel senso a cui rimanda il verbo ambire, formato dal prefisso amb-, «intorno, in giro», e dal verbo ire, «andare», e che quindi propriamente significa «andare intorno, girare», per cui l’ambizioso è colui che con la mente si aggira e va intorno e non sta mai fermo. Chi invece depone la sua ambizione, interrompe il suo girare, si ritrova arrivato a casa, e diviene, come dice il Salmo, «tranquillo e sereno come un bimbo in braccio a sua madre» (Libro dei Salmi 131,2).

La bellezza interiore appare nascere così da uno spazio concavo, vuoto, e per questo accogliente. Quanto più c’è vuoto interiore, cioè libertà da sé e dal proprio interesse, tanto più c’è capacità di inter-essere, di avere spazio per gli altri. È anzitutto una questione fisica. E in questo spazio vuoto all’interno si dà la possibilità della relazione autentica da cui si sprigionano calore e luce, e sono questo calore e questa luce a generare la bellezza interiore di un essere umano.

61. La bellezza interiore in azione

Pochi mesi fa ebbi un’intensa esperienza di bellezza spirituale sul treno regionale Prato-Bologna. Ero arrivato quasi all’ultimo momento quando il vagone si era già riempito e rimanevano solo pochi posti liberi, tra cui uno (strana particolarità di quel vagone) su un sedile sopraelevato in fondo alla carrozza accanto a una signora di colore, fazzoletto in testa, occhiali vistosi, corpo, come si usa dire, bene in carne. Al mio arrivo mi sorrise spostando gentilmente la valigia, io la ringraziai ricambiando il sorriso e mi immersi nel libro che avevo con me, non senza essermi messo le cuffie per starmene un po’ al riparo dai rumori e dalle chiacchiere. Il treno era partito da tempo quando all’improvviso, nonostante le cuffie, udii un forte grido a pochi passi da me. Il fatto di essere più in alto di due gradini rispetto agli altri passeggeri mi consentì di seguire bene la scena che si stava svolgendo. Ad aver gridato con l’aggressività di una belva, come appariva anche dallo sguardo spaventato e feroce, era stata una giapponese di mezza età, rivolta contro il giovane che le sedeva a fianco e che aveva la pelle dello stesso colore della signora con cui condividevo il sedile. È proprio vero che noi esseri umani siamo affini al mondo animale: immagino infatti che la giapponese avesse riscontrato un’indebita invasione del suo spazio e che avesse reagito a quel modo per difendersi. Ovviamente non ho idea di cosa fosse successo tra i due prima dell’urlo della donna, ma l’ipotesi più probabile è che il giovane l’avesse in qualche modo toccata con il gomito o con la gamba, non curandosi di rispettare i confini tra i sedili e anche dei segnali di fastidio da parte di lei. Aggravava la situazione il fatto che il giovane, lo sguardo mite e impaurito, cercava di scusarsi e facendolo si tendeva verso la signora, la quale diventava così ancora più indisposta e rabbiosa. Fu allora che intervenne la mia vicina. Senza minimamente scomporsi, senza neppure raddrizzare la schiena come viene spontaneo nelle situazioni un po’ tese, ma con voce calma, profonda e sicura, in un francese forse non proprio parigino ma fluente e di certo efficace, si rivolse al giovane ordinandogli di non insistere, di stare al suo posto tranquillo, di non continuare a scusarsi perché avrebbe solo peggiorato la situazione, di badare piuttosto a se stesso perché «non si può essere amici di tutti, ci sono persone che non ci vogliono, è inutile insistere, meglio tacere». E lo faceva chiamandolo figlio, anzi mon fils, «figlio mio». Il giovane si raccolse nel suo sedile e a quel punto la giapponese si placò, per quanto rimanesse raggomitolata su se stessa e girata con le gambe nel corridoio completamente dall’altra parte rispetto al giovane. A quel punto mi rivolsi alla mia vicina con un sorriso di ammirazione e le dissi che era stata davvero brava. Lei mi fissò, e in quello sguardo a metà tra gioia e dolore, tra orgoglio e umiliazione, tra vittoria e sconfitta, io potei intravedere la luce buona, e sempre un po’ malinconica, della saggezza e la sua commovente bellezza. Il treno procedeva veloce e ci fu solo il tempo di scambiare due chiacchiere, giusto per sapere che lei veniva dalla Costa d’Avorio ma che da molti anni era in Italia, che aveva a lungo vissuto a Brescia ma che ora abitava nei pressi di Modena, che era preoccupata del futuro ma che sua figlia insisteva con lei sulla necessità, per riprendere le sue parole, di «pensare positivo». Mi disse anche che avrebbe potuto essere mia madre, ma poi scoprii che aveva solo cinque anni più di me. Parlava un italiano molto bello, la pronuncia dolce e rotonda come le danze del suo continente e come immagino diventi il suo corpo mentre le esegue. Anche se non saprò mai il suo nome, non dimenticherò facilmente la bellezza della sua profonda personalità.

62. Come il lavoro di uno scultore

Ho scritto sopra che la bellezza interiore nasce da uno spazio concavo, vuoto e per questo accogliente e che quanto più c’è vuoto interiore, cioè libertà da sé e dal proprio interesse, tanto più c’è inter-essere, spazio per gli altri. Si può quindi dire che la bellezza interiore di un essere umano è il risultato della relazione che il suo io intesse con una realtà diversa percepita come più grande, più sorgiva, più importante di sé, a cui il singolo si dedica: ed è proprio questa dedizione a renderlo più luminoso. Tutto quindi nasce dal vuoto che siamo capaci di generare al nostro interno. È quanto il Vangelo afferma quando parla di rinnegare se stessi: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Marco 8,34). Non è la migliore delle espressioni, perché la terminologia poco felice può condurre a un malsano odio verso di sé, ma il contenuto è quanto mai prezioso perché rimanda alla disciplina dell’ego e della sua volontà.

Vi sono alcune parole di Plotino, sintesi della tradizione spirituale dell’antichità classica, che illustrano bene il lavoro necessario per conseguire la bellezza interiore, tanto più in questo contesto, perché esse, per descrivere il lavoro spirituale come cammino lungo la via della bellezza, utilizzano la metafora del lavoro artistico:

Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa’ come lo scultore di una statua che deve diventare bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine; così anche tu leva il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù […]. Se sei diventato ciò […] se tu sei diventato completamente una luce vera […] fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l’occhio che vede la grande Bellezza.11

In questa capacità di lavorare su di sé, l’io in un certo senso si duplica: da un lato l’io spirituale, dall’altro l’ego psichico, e in tale distanza di sé da sé si viene a creare al suo interno quella specie di spazio vuoto che genera spazio per gli altri e che conferisce la particolare luminosità che fa di una semplice anima un’anima bella, come nel caso di quella donna della Costa d’Avorio che guardava ai suoi simili come a suoi figli.

63. La perfezione e l’accettazione del limite

Fino a quando e fino a che punto occorre lavorare su di sé per incrementare la propria bellezza interiore? C’è un detto evangelico al riguardo che, preso così come suona, appare abbastanza inquietante: «Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo 5,48). Ci si potrebbe lecitamente domandare se Gesù, richiedendo ai suoi discepoli niente di meno della perfezione divina, fosse davvero consapevole del senso della sua affermazione. Posta così infatti si tratta di una richiesta di tale impossibile portata da condurre chiunque intenda attuarla o alla depressione o a quel rigore così duro ed esigente verso di sé da rendere la vita, propria e altrui, un inferno. Né del resto ai nostri giorni la pressione ossessiva dell’industria della bellezza ordina qualcosa di molto diverso agli esseri umani, soprattutto alle donne, giovani e meno giovani, perché, cambiando solo il termine di paragone, l’ingiunzione rimane la stessa: «Siate perfette, come è perfetta questa modella». Così ripetono ogni giorno costosissimi messaggi pubblicitari detti spot, mostrando bellissime signorine eleganti talora nelle pose più strane che non a caso si chiamano modelle, perché stabiliscono il modo o il modello a cui ognuno che voglia essere alla moda si deve strettamente attenere. E i risultati non sono diversi dal rigorismo etico-spirituale a cui conduce la frase evangelica presa alla lettera: ossessioni, durezza verso di sé e verso gli altri, risentimenti e infine, quando si fallisce anche solo di un po’, sensi di colpa e depressione.

Ma cosa intendeva realmente dire Gesù invitando alla perfezione? A nessuno è dato conoscere la sua mente, la ipsissima mens Jesu, tuttavia possiamo riflettere sulle parole attribuitegli dall’evangelista e chiederci cosa significhi «essere perfetti»: che cosa implica il concetto di perfezione?

Comunemente si equipara perfetto a impeccabile, infallibile, privo di errori, ma considerando l’etimologia latina si comprende che il significato profondo del termine non rimanda all’assenza di errori ma al lavoro compiuto, realizzato, finito. Perfectus deriva da perficio, verbo composto dalla preposizione per e dal verbo facio, e propriamente significa «compiuto», «eseguito», «portato a termine», «terminato». Perfetto è ciò che è stato finito in modo tale che non vi è da aggiungervi o togliervi nulla: esso ha raggiunto il suo fine, nel senso del limite dato dalla sua natura. Ed è proprio il concetto di fine a essere alla base del termine greco che il Vangelo mette sulla bocca di Gesù, téleios, visto che tale aggettivo rimanda a télos, che significa fine nel senso di scopo, ma anche compimento, termine, limite. Si potrebbe quindi dire che una cosa perfetta è tale da potersi definire come giunta alla fine perché ha raggiunto il suo fine.

A questo punto si può interpretare il detto evangelico che invita alla perfezione divina non come un invito a inseguire un’impossibile perfezione come assenza di errori e di cadute, ma come un invito a porsi un limite che delimita, o un fine che definisce, per cui «siate perfetti» viene a significare in realtà: «Abbiate un limite». Ancora meglio: «Abbiatelo e siatene soddisfatti», secondo quella piena soddisfazione di sé che si deve attribuire a Dio Padre.

Esiste un limite per ogni aspetto della nostra esistenza: un limite alla nostra intelligenza, alla nostra forza fisica, alla nostra abilità manuale, alla nostra generosità, al nostro senso per gli affari, a ogni altro nostro talento e, ovviamente, anche un limite alla nostra bellezza, sia esteriore sia interiore. Occorre inoltre considerare che vi sarà sempre qualcuno che per qualche aspetto, persino laddove riteniamo di eccellere, ci sarà superiore; magari non oggi, ma di certo domani, perché tutto cresce e decresce con il passare del tempo.

Essere perfetti perciò significa raggiungere la propria perfezione, nel senso del proprio peculiare compimento. Al contrario, desiderare di oltrepassare i propri limiti naturali per essere il più forte, il più intelligente, il più ricco, il più bello, o magari il più umile, il più povero, il più devoto, il più distaccato, significa consegnarsi a una vita di frustrazioni e artificialità. Accettare i propri limiti significa raggiungere la propria personale perfezione e così ottenere una pacificazione interiore che conferisce buonumore e autenticità. Significa raggiungere la soddisfazione di sé, la pienezza della nostra esistenza qui e ora. Occorre comprendere che avere un limite ed esserne consapevoli non ti rende limitato, ti rende perfetto, cioè pienamente compiuto, come una grande opera d’arte a cui non si deve togliere o aggiungere nulla.

Questo appare anche dal valore cognitivo del termine finis, visto che da esso deriva «definire» e «definizione». Ovvero: quando di una cosa si conoscono i suoi fini, nel senso dei suoi con-fini, la si comprende veramente e se ne può dare una de-finizione. Per questo Paul Tillich, uno dei più importanti teologi del Novecento, ha potuto scrivere: «Il confine è il luogo migliore per acquisire conoscenza».12

Il che ovviamente non significa non aspirare a migliorarsi, significa piuttosto lavorare fino a raggiungere il confine del territorio a noi assegnato, senza volerlo oltrepassare e così sconfinare; significa curare quello che si è e solo quello che si è, senza desiderare di diventare quello che non si è né mai si potrà essere. Essere lieti del nome che si porta, del corpo che si ha, dell’intelligenza ricevuta, dei talenti di cui ci ha dotati il destino o la provvidenza: accettare tutto ciò significa raggiungere la propria perfezione, la quale, in quanto compimento, è sempre strettamente individuale.