I sintetici

Mezzogiorno era vicino: si percepiva già nell’aria quel rumore confuso ma specifico, somma di cento parole ed atti impercettibili, che sembra generato dalle stesse pareti delle aule scolastiche, va gonfiandosi come un vento, e culmina col campanello del finis; tuttavia, Mario e Renato erano ancora affaccendati sulle ultime righe del foglio. Mario mise il punto e si mosse per consegnare; Renato, con evidente intenzione, gli disse:

– Adesso consegno anch’io. Mi manca l’ultima domanda, ma non la so. Meglio in bianco che sbagliata.

Mario rispose sottovoce: – Fa’ vedere… Non è mica difficile: su, scrivi. Confina a nord con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria; a est con la Romania e la Bulgaria; a sud…

In quel momento, come un segno del cielo, il campanello suonò: il rumorio si mutò di colpo in un fracasso lacerante, attraverso a cui si udiva a malapena la voce della professoressa che esortava tutti a consegnare il compito, fosse finito o no. In un andirivieni confuso e turbolento, i ragazzi furono risucchiati dal corridoio e poi dalle scale, e in breve si trovarono in strada. Renato e Mario si avviarono verso casa: dopo pochi passi, si accorsero che Giorgio li stava rincorrendo. Renato si volse, e disse:

– Corri, salsiccia: sbrigati, che noi abbiamo fame… beh, io ho fame: di questo qui, non si sa mai. Magari vive d’aria.

Mario non raccolse l’insinuazione, e rispose:

– No, oggi ho fame anch’io. Poi ho anche fretta.

Frattanto, Giorgio li aveva raggiunti, ed ansimava ancora un poco.

– Fretta perché? – chiese: – Non è mica tardi, e casa tua è qui vicino.

Mario rispose che non si trattava di fame né di ritardo, ma che nel pomeriggio aveva intenzione di andare per bruchi: a raccoglierli, perché quello era un giorno da bruchi, e quasi certamente sarebbero usciti. Giorgio chiese ridendo se i bruchi uscivano tutti i venerdí, e Mario rispose seriamente che ieri aveva piovuto e oggi c’era il sole, e per questo quei bruchi che interessavano a lui sarebbero venuti fuori. Renato, a differenza di Giorgio, ostentava indifferenza:

– Bruchi, pensa un po’! E quando li hai raccolti, cosa te ne fai? Li fai friggere?

Giorgio simulò un brivido di ribrezzo, e disse:

– Non mi ci far pensare, che è ora di pranzo.

Mario invece spiegò che intendeva allevarli: metterli in uno scatolino che aveva già preparato, e aspettare che si facessero il bozzolo. Giorgio era incuriosito:

– Tutti si fanno il bozzolo? Come fanno? Fanno presto? Quanto tempo ci mettono? E il bozzolo, è come quello dei bachi da seta? – Intanto, Renato fischiettava, e si guardava intorno come se non stesse a sentire.

– Non lo so, – rispose Mario: – appunto, voglio vedere come fanno: se è come sta scritto sui libri. Ho un libro sui bruchi.

– Me lo impresti?

– Sí sí: però poi me lo rendi.

– Ci puoi contare: sai bene che io i libri li rendo sempre… Senti: oggi potrei venire con te?

Mario fece un viso perplesso, o piuttosto il viso di uno che vuole apparire perplesso:

– Beh… non so ancora. Non so ancora da che parte andrò: dipende se mi lasciano prendere la bicicletta. Telefonami verso le tre.

Renato intervenne con acredine:

– Ma guarda che tipo. Hai tanta fretta e poi stai a casa fino alle tre: scommetto che magari fai già i compiti. Insomma, cosí ti sei fatto un discepolo, eh? Per raccogliere bruchi e metterli in uno scatolino: gran bel divertimento.

Giorgio accorse a difesa:

– Ebbene? A uno piace una cosa, e a un altro un’altra: non siamo mica tutti uguali. Anche a me interessano, per esempio.

Renato si fermò, rivolse agli altri due uno sguardo duro, poi scandí con calcolata lentezza:

– Volevo dire che è proprio un bel divertimento per uno come lui.

Mario non era un ragazzo dalle risposte pronte. Esitò un attimo, poi con voce smarrita domandò: – Come, per uno come me?

Renato fece un risolino, e Mario continuò:

– Io sono uno come gli altri: a te interessa la palla a volo, a Giorgio i francobolli, e a me i bruchi. E poi, mica solo i bruchi: lo sapete bene, anche fare fotografie, per esempio… – Ma Renato lo interruppe:

– Ma dài, non fare l’indiano! Tanto, tutta la classe se n’è già accorta.

– Accorta di che cosa?

– Si è accorta che… Insomma, che tu non sei fatto come gli altri.

Mario tacque, toccato sul vivo: era vero, quello era uno dei suoi pensieri dominanti, a cui sfuggiva solo considerando e ripetendosi che nessuno è fatto come gli altri. Ma lui si sentiva «piú diverso», magari migliore, e spesso ne soffriva. Si difese debolmente:

– Che storie! Non so che cosa ti faccia venire in mente delle idee come questa. Perché non devo essere come gli altri?

Renato si era ormai montato alla collera virtuosa di chi scopre che il suo vicino ha trasgredito:

– Perché? E perché adesso fai l’innocente? Non sei stato tu, a raccontarci che tuo papà e tua mamma non hanno voluto sposarsi in chiesa? E che malattia hai avuto, l’anno scorso, che sei stato assente un mese, e quando sei guarito non parlavi con nessuno, e tua mamma è venuta a riaccompagnarti, e parlava fitto fitto con la professoressa, e se qualcuno si avvicinava cambiava argomento? Sono cose chiare queste, cose normali?

– Sono fatti miei. L’anno scorso ho avuto una malattia, e mi hanno dato delle medicine che poi di notte non potevo dormire, e allora mia mamma mi ha portato a fare degli esami. Capita a tanti: non c’è proprio niente di speciale.

– Già! E a ginnastica? Non l’ho mica visto solo io, che fai sempre in modo di spogliarti voltato verso il muro. E sai perché? Tu, Giorgio, lo sai il perché? – Si fermò, poi aggiunse solennemente: – Perché Mario non ha l’ombelico, eccolo il perché! Non te n’eri accorto anche tu?

Giorgio, consapevole di essere arrossito violentemente, rispose che sí, in effetti aveva osservato che a Mario non piaceva essere guardato quando si spogliava, ma non aveva dato importanza alla cosa. Aveva l’impressione di stare tradendo Mario, ma si sentiva soggiogato dalla sicurezza di Renato. A Mario tremavano le ginocchia per ira, paura e senso d’impotenza:

– Sono tutte bugie, tutte invenzioni stupide. Io sono fatto preciso come voi altri, come tutti, solo che sono un po’ piú magro. E ve lo faccio vedere, se volete: anche subito!

– Bravo, qui in strada! Ma ti prendo in parola: martedí, a ginnastica, vedremo se hai coraggio. Vedremo chi dice la verità.

Mario era arrivato davanti al portone di casa: salutò brusco ed entrò. Gli altri due proseguirono: Giorgio taceva sopra pensiero. Era urtato, e insieme l’argomento lo affascinava:

– …Ho detto di sí tanto per darti ragione… e poi sí, è un fatto che a Mario non piace farsi vedere spogliato… ma quella storia dell’ombelico io non l’ho capita. Dicevi sul serio, o solo per farlo arrabbiare? Cioè: ce l’ha o non ce l’ha proprio? E se non ce l’ha che cosa vuol dire? Chi è d’altro che non ce l’ha?

Renato disse:

– Ma insomma, non hai dodici anni? E non li leggi, i giornali? Non lo sai che l’ombelico è la cicatrice della nascita, cioè di quando un bambino nasce da una donna? Hai mai guardato bene quei dipinti dove si vede la creazione di Adamo? Ebbene, appunto, Adamo non era nato da una donna, e la cicatrice non ce l’ha.

– Va bene, ma da allora in avanti tutti i bambini nascono da una donna. È sempre stato cosí.

– E adesso non è piú cosí. Si vede proprio che i giornali non te li lasciano ancora leggere. Hai mai sentito parlare della pillola, e della provetta, e della siringa? Bene, è cosí che è nato Mario, e diversi altri come lui. Non è nato in un ospedale, ma in un laboratorio: l’ho visto una volta alla televisione. È in America, ma fra poco ne faranno uno anche qui da noi: è una specie di incubatrice, come quelle per i pulcini, con dentro tante provette, e i bambini stanno nelle provette; a mano a mano che crescono le cambiano, ne prendono di quelle piú grosse. Poi ci sono delle lampade ultraviolette e di diversi colori, se no i bambini riescono ciechi, e…

– Ma la pillola che c’entra? Non serve per non avere bambini?

Renato vacillò per un istante, ma si rimise subito in arcione:

– La pillola… sí, è un’altra faccenda: mi ero confuso. Ma anche lí mettono delle pillole nelle provette: rosse per avere dei maschi, e blu per avere delle femmine. Le mettono fin dal principio, nella prima provetta, insieme coi gameti. Insieme coi cromosomi, voglio dire: sai bene. È venuto anche sul giornale, nelle Cronache della Scienza: e hanno una specie di codice, insomma come un menú, dove i genitori, ma non sono proprio i genitori, insomma l’uomo e la donna che vogliono avere il figlio, scelgono gli occhi, i capelli, il naso e tutti i dettagli, se deve essere magro o grasso, e cosí via.

Giorgio ascoltava intento, ma, da ragazzo di buon senso qual era, badava a non farsi mettere nel sacco e a non lasciarsi contrabbandare fronzoli in soprannumero:

– E la siringa? Perché prima parlavi anche di siringa?

– Perché è tutto un sistema a base di siringhe. Una per prelevare i gameti, un’altra per il brodo di cultura, e tante altre ancora per tutti gli ormoni, una per ciascuno, e guai a incrociarle; è cosí che delle volte nascono dei mostri. Capisci bene che è un procedimento delicato. Poi, quando sono arrivati all’ultimo stadio, si rompe la provetta e si consegna il bambino ai genitori, e loro lo allevano, lo allattano eccetera come se fosse naturale; e infatti, è proprio uguale agli altri, solo che, appunto, non ha l’ombelico.

– …come Mario. Ma sei proprio sicuro che non ce l’abbia?

Renato, avendo ormai persuaso se stesso, si sentiva padrone di una forza persuasiva illimitata:

– Fino a mezz’ora fa avevo solo dei sospetti, ma adesso sono sicuro. Non hai visto come è venuto rosso, quando gliel’ho detto cosí, in faccia? E che fretta ha avuto di andarsene? Per poco non piangeva.

– Si vede che in fondo se ne vergogna, – disse Giorgio in tono conciliante: – Poveretto, mi fa perfino un po’ compassione: anch’io sono venuto rosso, prima; appunto, per compassione. Lui non ha mica colpa: non è lui che ha scelto di nascere cosí. Caso mai, sono i suoi genitori.

– Anche a me fa compassione, però con loro bisogna stare attenti. Capisci, sono uguali agli altri solo dal di fuori: se fai attenzione te ne accorgi anche tu. Vedi Mario, per esempio: facci caso, e vedrai che ha delle lentiggini diverse da qualunque altro, le ha perfino sulle palpebre e sulle labbra; ha sempre le unghie piene di quelle macchioline bianche che sai bene cosa vogliono dire; pronuncia la «r» in un modo che bisogna abituarsi prima per capirlo e per non ridere, e in generale ha un accento che lo riconosceresti fra mille. E poi, mi sai spiegare perché non fa mai a pugni, neanche per scherzo, e non sa nuotare, e ha imparato ad andare in bicicletta solo quest’anno, quando tu gli hai insegnato? Si capisce che fa bene a scuola, e che ricorda tutto a memoria!

Giorgio, che invece non aveva una grande memoria, chiese allarmato:

– E questo che cosa vuol dire?

– Vuol dire che ha una memoria magnetica, come le calcolatrici: bel merito, se ricorda tutto! Non hai mai notato che, alla sera, gli luccicano gli occhi come ai gatti? Ecco, è la stessa luce degli orologi fosforescenti, che adesso appunto li hanno proibiti perché alla lunga fanno venire il cancro. Pensandoci bene, forse sarebbe meglio non stare in banco con lui.

– Allora tu perché ci stai?

– Perché non ci avevo ancora pensato. Poi io non ho certe paure, e Mario mi interessa. Mi interessa vedere quello che fa…

– …e copiare da lui!

– Anche copiare i suoi compiti, certo. Che ci trovi di male?

Giorgio tacque confuso. La faccenda, a cui credeva solo a mezzo, tuttavia lo intrigava. Perché non parlarne con Mario stesso, cautamente, senza fare domande aperte?

Passarono due settimane, e Mario era cambiato: chiunque se ne sarebbe accorto. La professoressa terminò di spiegare Carlo Magno, penosamente consapevole di stare usando le identiche parole di cui si era servita nella stessa occasione in quegli ultimi otto anni; tentò, con scarsa fede, l’esperimento di somministrare ai ragazzi la leggenda del sogno e della caverna, e subito desistette; annunciò infine che quegli ultimi dieci minuti sarebbero stati impiegati in un rapido interrogatorio di ripasso. Tese l’orecchio ed aguzzò lo sguardo: se la scuola e il mondo fossero stati quali lei li vagheggiava, i ragazzi avrebbero dovuto rispondere come ad una lieta sfida; invece non si percepí che un fruscío misto di sospiri, di libri furtivamente aperti sotto i banchi e di maniche sollevate a scoprire i quadranti degli orologi: l’atmosfera e l’umore dell’aula si fecero leggermente piú foschi.

Giuseppe rese noto che i Re Fannulloni erano i discendenti di Clodoveo. Rodolfo, a domanda, rispose che Liutprando era un re, senza aggiungere altri desiderabili particolari: alle sue spalle si era levata una nube, quasi visibile, da cui irradiava lo stereotipo «re dei Longobardi», ma Rodolfo, o per alterigia, o per fair play, o per sordità, o per paura di complicazioni, non lo raccolse. Sandro non mostrò alcun ritegno nei riguardi di Carlo il Calvo: ne parlò con scioltezza per quaranta secondi buoni, come se si fosse trattato di un suo prossimo parente, usando tuttavia correttamente il passato remoto come è prescritto. Mario invece, contro ogni aspettativa, si inceppò: eppure lei era certa che Mario non poteva ignorare la (sostanzialmente futile) nozione, chi avesse vinto gli Arabi a Poitiers. Mario invece si era alzato in piedi, e con fredda insolenza aveva detto: «Non lo so». Eppure, la sapeva la settimana avanti, e l’aveva perfino aggiunta, benché non richiesta, nel questionario scritto!

– Non lo so, – ripeté Mario, con lo sguardo fisso al pavimento: – L’ho dimenticato.

Ci sono certe regole di gioco, e lei aveva l’impressione che Mario stesse barando. Insistette:

– Su, pensaci: un ministro francese, anzi, un «maestro di palazzo»… che si ebbe, appunto per questa sua vittoria schiacciante, un curioso soprannome…

Sentí una voce, probabilmente quella di Renato, sibilare «Diglielo! Perché non lo dici?»; poi la voce di Mario, ostinata e gelida: «È inutile: l’ho dimenticato. Non lo so piú. Non l’ho mai saputo». Poi molte voci, fra cui quella di Renato, che fischiavano: «Diglielo, diglielo! Perché non glielo dici? Tanto lo sa già: vuoi che non se ne sia accorta? Se glielo dici, è meglio per te!», e riempivano l’aria della classe, e la rendevano acre e soffocante. Sentí infine la sua propria voce, malferma e sforzata, che diceva qualcosa come «…dimmi un po’, Mario, che cosa ti succede? Sei cambiato, da un po’ di tempo: sei distratto e svogliato. O solo un po’ fannullone, come quei re di Francia?»; da ultimo, sul minaccioso sfondo sonoro della classe eccitata e inquieta, udí la voce ferma di Mario, che era rimasto in piedi: «Non sono cambiato. Sono sempre stato cosí».

Sapeva che convocare Mario ad un colloquio a quattr’occhi era suo dovere, ed insieme la sola cosa giusta da fare; insieme, sentiva che qualcosa in lei temeva questo incontro, e cercava codardamente di rimandarlo. Quando quel giorno venne, si percepí curiosamente piú piccola rispetto al ragazzo: meno severa, meno seria, piú frivola, con meno peso addosso. Ma era una donna coscienziosa e recitò la sua parte meglio che poté:

– …proprio non capisco che cosa tu ti sia messo in mente. Non ti devi lasciar montare la testa, sei un ragazzo intelligente e capace, ti seguo ormai da due anni e so quanto vali. Non ti manca che un po’ di attenzione: forse sei stanco? O non stai bene? O hai qualcosa a casa che non va?

Silenzio, e poi, come attraverso le fenditure di una visiera:

– No, no. Va tutto bene. Non sono stanco.

– …o allora è qualcosa che ti hanno detto? Che ti hanno detto… qui? Ho visto che spesso Renato ti parla, e tu abbassi gli occhi. Forse ti umilia? o ti racconta delle fandonie? Ma saranno scherzi, sai pure, cose da ragazzi, senza importanza: non devi darci peso, facci su una risata e tutto torna come prima. Se la prendi cosí sul tragico, non fai che incoraggiarli a continuare.

Aveva sparato alla cieca, eppure aveva centrato il bersaglio: se ne accorse immediatamente. Mario era impallidito, ed aveva sollevato lo sguardo incontro al suo, col riconforto e la stanchezza di chi desiste da una lotta. Scollò le labbra con fatica e disse:

– Non sono fandonie. È vero. Io non sono come gli altri: è un pezzo che me ne sono accorto –. Rise timido: – Renato ha ragione.

– Non sei come gli altri perché? In cosa ti senti diverso? Se mai, sarai diverso in meglio: non vedo perché ti dovresti affliggere di questo. Se tu fossi l’ultimo della classe…

– Non è questo. Io sono diverso perché sono nato diverso. Nessuno ci può piú fare nulla.

– Sei nato… come?

– Sono sintetico.

Rimaneva il preside, per quello che un preside può soccorrere. Quello, nella fattispecie, era un galantuomo e un amico, ma un preside, anche il migliore, ha varcato una certa soglia e capisce solo certe cose. Le consigliò di aspettare e di stare a vedere: gran bel consiglio. E intanto Mario era lí fuori, nel corridoio, e a lei pareva di sentirne il cervello ronzare perduto, come un motorino in stallo: ronzare e battere e domandarsi e rispondere a vuoto. Chiese al preside il permesso di farlo entrare: il preside acconsentí con riluttanza, Mario entrò e si sedette come davanti al plotone d’esecuzione. Il preside si sentiva simile ad un attore di quart’ordine:

– Salute, Mario. Allora? Che cos’hai da raccontarci?

– Niente, – disse Mario.

– Niente… è troppo poco. Sul niente non si costruisce che il niente. Mi hanno riferito, vedi, di certe tue idee… di certe strane storie che ti devono avere raccontato… e mi stupisce, veramente mi stupisce che un ragazzo come te, un logico, un ragionatore, abbia potuto prestarvi orecchio. Che cosa mi sai dire, tu, su questo argomento?

– Niente, – disse Mario.

– Vedi, figliolo, io penso che tu (non solo tu, certo) ti sia riempita la testa. Che tu soffra per sovraccarico, insomma, come… una linea del telefono. Hai assorbito troppo dall’ambiente che ti circonda: dai libri, dai giornali, dalla televisione, dal cinema… e anche dalla scuola, sicuro. Sei d’accordo con me?

Mario taceva e guardava nel vuoto, come se neppure cercasse le parole di una risposta. Il preside continuò:

– Ma se non parli… se non mi aiuti ad aiutarti… non verremo a capo di nulla: ti avrò fatta un’altra lezione – rise nervoso – oltre a tutte le altre che già ti devi sorbire. … Diverso: cosí ti senti diverso. Ma siamo tutti diversi, perbacco, e guai se non lo fossimo: c’è chi è nato per diventare uno scienziato, come te, vero? e chi invece sarà un buon commerciante, e chi è meglio si limiti a… a qualche lavoro piú modesto. Ognuno di noi può e deve fare qualcosa per migliorarsi, per coltivarsi, ma il terreno, la sostanza umana, è diversa per ognuno: sarà ingiusto ma è cosí, l’abbiamo ereditata dai nostri genitori e progenitori all’atto della nascita, e…

Mario interruppe con voce contenuta: – Va bene. È vero. Io però adesso dovrei andare.

Nel cortile, due squadre improvvisate giocavano a pallacanestro, con scarsa correttezza e molte grida e richiami; un altro gruppo, quasi fra i loro piedi, si arrangiava a condurre avanti una gara di salto in lungo, benché la fossa di sabbia fosse quasi vuota. In un angolo, Mario stava parlando, di fronte ad un manipolo di ascoltatori occasionali, non della sua classe, e piú sbalorditi che attenti. Mario diceva:

– …adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno piú guerre. Sí, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i piú forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo piú differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno piú a niente, e con l’uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, cosí nessuno morrà piú di fame. Faremo nascere meno bambini, in modo che ci sia posto per tutti: e tutti quelli che nasceranno nasceranno come noi.

– Nasceranno come? – chiese una voce timida.

– Come me. O anche per telefono, o per radio: un uomo telefona a una donna, e poi nasce un bambino, ma non cosí a caso come succede adesso, nasce pianificato… Beh? avete poco da guardarmi cosí: io sono uno dei primi, e forse per me i conti non li hanno fatti tanto bene; ma adesso stanno provando un sistema nuovo, e i bambini li calcolano come si fa coi ponti, cellula per cellula, e si possono fare su misura, alti e forti e intelligenti quanto uno vuole, e anche buoni, coraggiosi e giusti. Si possono anche fare che respirino sott’acqua come i pesci, oppure capaci di volare. Cosí nel mondo ci sarà ordine e giustizia e tutti saranno felici. Ma non credete: non sono mica solo. Senza andare tanto lontano di qui… la Scotti Masera. Prima lo sospettavo soltanto, ma adesso ne sono sicuro. Mi sembrava, cosí dalla pronuncia e dal modo di muoversi, e poi anche perché non si arrabbia mai e non alza la voce. Non arrabbiarsi è importante, vuol dire che si è raggiunto il controllo, o lo si sta raggiungendo. Quando il controllo è completo uno può anche stare senza respirare, non sentire il dolore, può ordinare al suo cuore di fermarsi… bene, mi sono accorto che è una dei nostri l’altro giorno, quando mi ha chiamato da parte.

– Cosí vecchia? – chiese Giorgio, facendosi largo fra l’uditorio che si era molto ingrossato.

– Non è poi tanto vecchia: e cosa c’entra, vecchio o non vecchio?

– C’entra sí, – spiegò Giorgio con pazienza: – non hai detto che è solo poco tempo che si sanno fare queste cose?

Mario lo guardò come se si fosse appena svegliato, ma si riprese subito:

– Non so, forse è meno vecchia di quanto sembra: ma può anche darsi che sia nata cosí.

– Come! Nata vecchia… voglio dire, anziana?

– Ho detto «nata» cosí per dire, voi mi capite: è stata costruita cosí, perché abbiamo fretta, non si può piú aspettare. Non c’è piú tempo da perdere: nel 2000 saremo dieci miliardi, capite, dieci: e se non si provvede finirà che ci mangeremo gli uni con gli altri. Ma anche se non si arrivasse a questo punto, ci saranno l’acqua e l’aria contaminate, in tutto il mondo: l’aria sarà diventata smog, anche in cima all’Everest, e l’acqua sarà preziosa perché le sorgenti si seccheranno. Tutto questo non è un’invenzione, ma sta già succedendo: per questo è indispensabile far nascere subito degli uomini anziani, degli ingegneri e dei biologi: non si può aspettare che siano cresciuti i bambini che nascono oggi, e che abbiano finito l’università. Ci vorrebbero trent’anni prima che potessero mettersi al lavoro. Ecco: è per questo che bisogna… che abbiamo bisogno subito di anziani.

Gli si parò davanti Renato, con le braccia levate, come se volesse arrestare un toro che carica. Infatti voleva farlo tacere, ed era pieno d’ira, e insieme di un oscuro timore:

– Smettila, buffone! Non raccontare storie, la Scotti non è né un ingegnere né un biologo, è soltanto una vecchia strega!

Mario rispose con voce tanto alta che in tutto il cortile i ragazzi si fermarono e si volsero verso di lui:

– Non è una strega. È una di noi: l’ho incontrata in corridoio, proprio ieri, e mi ha fatto il segno.

– Quale segno? – chiese Renato.

Mario non rispose subito: guardò Renato, e parve che qualcosa in lui si spegnesse. Lasciò penzolare le braccia, abbassò il capo; poi, con voce mutata, appena udibile, disse:

– Vai via, Renato: non ti posso vedere. Ecco, mi hai fatto parlare, e io ho parlato, e adesso sono tornato come tutti: come te, come uno di voi. Andate via, andate via tutti, lasciatemi solo –. Indietreggiò fino al muro, e scivolò via lungo il muro fino alla porta: Giorgio lo trovò poco dopo in un angolo della palestra, seduto in terra, col capo fra le mani, che piangeva con grossi singhiozzi.