Recuenco: la Nutrice

Sinda si era levato alla prima luce per portare le capre al pascolo. Intorno al villaggio, in un raggio di due ore di cammino, da molti anni non cresceva piú un filo d’erba: solo rovi e cactus, cosí aspri che perfino le capre li rifiutavano. Sinda non aveva che undici anni, ma nel villaggio lui solo ormai poteva andare in pastura; gli altri erano bambini, o troppo vecchi, o malati, o talmente indeboliti che riuscivano a stento a trascinarsi fino al ruscello. Prese con sé una zucca piena d’infuso di crescione e due fette di formaggio, che gli dovevano bastare fino a sera. Aveva già radunato le capre sulla piazza quando vide Diuka, sua sorella, che usciva dalla capanna stropicciandosi gli occhi: voleva venire al pascolo con lui. Pensò che il formaggio era poco, ma pensò anche che il giorno era lungo, il pascolo lontano, e il silenzio lassú troppo profondo: cosí la prese con sé.

Salivano da un’ora quando sorse il sole. Le capre non erano che ventotto, tutte quelle del villaggio. Sinda lo sapeva, e le sapeva anche contare: le teneva d’occhio, che non si smarrissero e non si azzoppassero giú per i dirupi. Diuka lo seguiva in silenzio; si fermavano ogni tanto a raccogliere more, e qualche chiocciola ridestata dalla rugiada della notte. Mangiare chiocciole non si deve, ma Sinda aveva già provato diverse volte e non gli era mai venuto mal di ventre; aveva insegnato a Diuka come si faceva a cavarle dal guscio, ed era sicuro che Diuka non lo avrebbe tradito.

In cielo non c’era una nuvola, ma ristagnava una foschia abbagliante: non c’era vento (non c’era mai vento), e l’aria era umida e calda come in un forno da pane. Proseguirono per il sentiero, superarono il costone che delimitava la valle, e videro il mare, velato di bruma, lucido fermo e lontano. Era un mare senza pesci, buono solo per il sale: la salina era abbandonata ormai da dieci anni, ma sale se ne poteva ancora cavare, benché misto a sabbia. Sinda c’era stato una volta, con suo padre, molti anni prima; poi suo padre era partito a caccia e non era piú ritornato. Il sale, adesso, lo portavano qualche volta i mercanti, ma poiché nel villaggio non c’era nulla con cui scambiarlo, venivano sempre piú di rado.

Sinda vide nel mare qualcosa che non aveva mai visto. Vide dapprima, proprio sulla linea dell’orizzonte, una piccola gobba luminosa, rotonda e bianca; come una minuscola luna, ma non poteva essere la luna: quella vera, quasi piena e coi margini netti, l’aveva vista tramontare solo un’ora prima. La mostrò a Diuka, ma senza molto interesse: nel mare ci sono tante cose, che entrambi avevano sentite descrivere attorno al fuoco; navi, balene, mostri, piante che crescono dal fondo, pesci feroci, anche anime di morti annegati. Cose che vengono e vanno e non ci riguardano, perché il mare è vanità e apparenza maligna: è un’immensa radura che sembra porti dappertutto e non porta in nessun luogo; sembra liscio e solido come una corazza d’acciaio, e invece non regge il piede, e se ti ci avventuri affondi. È acqua e non la puoi bere.

Proseguirono il cammino: ormai la salita era finita, e il pascolo era in vista, poco piú alto di loro, a un’ora di cammino. I due ragazzi e le capre avanzavano per un tratturo ben battuto, in mezzo a una nuvola di polvere gialla, di tafani e di odore ammoniacale. A intervalli, Sinda osservava il mare, alla sua sinistra, e si accorse che quella cosa stava cambiando aspetto. Adesso era tutta fuori dell’orizzonte, era piú vicina, e sembrava uno di quei funghi globosi che si incontrano ai margini dei sentieri, e a toccarli si squarciano e soffiano un fiato di polvere bruna; ma in realtà doveva essere molto grossa, e a guardarla bene si vedeva che i suoi contorni erano sfumati come quelli delle nuvole. Pareva anzi che ribollisse, che cambiasse continuamente forma, come la schiuma del latte quando sta per traboccare; e diventava sempre piú grossa e piú vicina. Poco prima che raggiungessero il pascolo, e quando già le capre si sbandavano per brucare certi cardi fioriti, Sinda si rese conto che la cosa viaggiava diretta verso di loro. Allora gli vennero in mente certi racconti che aveva sentiti dai vecchi, e creduti solo a mezzo come si credono le favole: raccomandò le capre a Diuka, le promise che, lui o altri, sarebbero venuti prima di sera a riprenderle, e si avviò di corsa verso il villaggio. Dal villaggio, infatti, il mare non si vedeva: ne era separato da una catena di balze scoscese, e Sinda correva perché sperava-temeva che la cosa fosse la Nutrice, che viene ogni cento anni e porta la sazietà e la strage; voleva dirlo a tutti, che si preparassero, e voleva anche essere stato il primo a portare l’annuncio.

C’era una scorciatoia, nota a lui solo, ma non la prese perché gli avrebbe tolto la vista del mare troppo presto. Poco prima che Sinda raggiungesse il costone, la cosa appariva enorme, da togliere il respiro: la cima era alta fino al cielo, e dalla cima pioveva acqua a torrenti verso la base, e altra acqua si avventava verso la cima. Si sentiva come un tuono continuo, un rombo-fischio-scroscio da gelare il sangue nelle vene. Sinda si arrestò un attimo, e provò il bisogno di gettarsi a terra e adorare; ma si fece forza, e si precipitò giú per la discesa, sgraffiandosi fra i rovi, inciampando nei sassi, cadendo e rialzandosi. Adesso non si vedeva piú niente, ma il rombo si sentiva, e quando Sinda giunse al villaggio tutti lo sentivano, ma non sapevano cos’era, e lui Sinda invece lo sapeva, e stette in mezzo alla piazza ebbro e insanguinato accennando con le braccia che tutti venissero e ascoltassero, perché la Nutrice stava arrivando.

Vennero prima pochi, poi tutti. Vennero i molti, troppi bambini, ma non era di loro che c’era bisogno. Vennero le vecchie, e le giovani che parevano vecchie, sulle soglie delle loro capanne. Vennero gli uomini dagli orti e dai campi, col passo lento e slombato di chi non conosce che la zappa e l’aratro; e venne infine anche Daiapi, quello che Sinda piú attendeva.

Ma Daiapi stesso, che pure era il piú vecchio del villaggio, non aveva che cinquant’anni, e perciò non poteva sapere per esperienza propria che cosa si deve fare quando la Nutrice viene. Non aveva che ricordi vaghi, ricavati dai ricordi appena meno vaghi trasmessi a lui da chissà quale altro Daiapi, e poi consolidati, cementati e distorti da innumerevoli ripetizioni accanto al fuoco. La Nutrice, di questo era certo, era già venuta altre volte al villaggio: due volte, o forse anche tre o piú, ma delle visite piú antiche, se pure ve n’erano state, ogni memoria si era perduta. Ma di certo Daiapi sapeva, e con lui tutti sapevano, che quando viene viene cosí, all’improvviso, dal mare, in mezzo a un turbine, e non si ferma che pochi istanti, e getta cibo dall’alto, e bisogna essere pronti in qualche modo perché il cibo non vada disperso. Sapeva ancora, o gli pareva di sapere, che essa varca i monti e i mari come un lampo, attratta verso là dove si ha fame. Per questo non si ferma mai: perché il mondo è sconfinato, e la fame è in molti luoghi fra loro lontani, e appena saziata rinasce come i germogli delle male piante.

Daiapi aveva poche forze e poca voce, ma anche se avesse avuto la voce del monsone non avrebbe potuto farla sentire per entro il fracasso che veniva dal mare, e che ormai aveva riempito la valle, tanto che ad ognuno pareva di essere sordo. Con l’esempio e coi gesti, fece sí che tutti portassero all’aperto tutti i recipienti di cui disponevano, piccoli e grandi; poi, mentre già il cielo si oscurava, e la pianura era spazzata da un vento mai visto, prese un piccone e una pala e cominciò a scavare febbrilmente, subito imitato da molti. Scavarono con tutte le loro forze, con gli occhi pieni di sudore e gli orecchi pieni di tuono: ma erano riusciti a malapena a scavare sulla piazza una fossa grande come una tomba, quando la Nutrice superò le colline come una nuvola di ferro e di fragore, e rimase librata a picco sopra le loro teste. Era piú grande dell’intero villaggio, e lo coprí con la sua ombra. Sei trombe d’acciaio, rivolte verso il basso, vomitavano sei uragani sui quali la macchina si sosteneva, quasi immobile; ma l’aria scaraventata a terra travolgeva la polvere, i sassi, le foglie, gli steccati, i tetti delle capanne, e li disperdeva in alto e lontano. I bambini fuggirono, o furono soffiati via come la pula; gli uomini resistettero, avvinghiati agli alberi ed ai muri.

Videro la macchina scendere lentamente; in mezzo ai turbini di polvere giallastra, qualcuno sostenne di aver intravvisto figure umane sporgersi dall’alto a guardare: chi disse due, chi tre. Una donna affermò di aver udito voci, ma non umane: erano metalliche e nasali, e cosí forti che superavano lo strepito.

Quando le sei trombe furono a pochi metri dai culmini delle capanne, dal ventre della macchina uscirono sei tubi bianchi, che rimasero penzoloni nel vuoto: ed ecco, a un tratto dai tubi scaturí in bianchi getti l’alimento, il latte celeste. I due tubi centrali gettavano entro la fossa, ma intanto un diluvio di alimento cadeva a casaccio su tutto il villaggio, ed anche al di fuori, trascinato e polverizzato dal vento delle trombe. Sinda, in mezzo al trambusto, aveva trovato un truogolo, che aveva servito un tempo come abbeveratoio per le bestie: lo trascinò sotto uno dei tubi, ma fu pieno in un attimo, e il liquido traboccò a terra imbrattandogli i piedi. Sinda lo assaggiò: sembrava latte, anzi crema, ma non era. Era denso e insipido, e saziava in un momento: Sinda vide che tutti lo ingoiavano avidamente, raccogliendolo da terra con le mani, con le pale, con foglie di palma.

Risuonò dal cielo un rumore, forse un suono di corno, o forse un ordine pronunciato da quella fredda voce meccanica, ed il flusso cessò di colpo. Subito dopo, il rombo e il vento si gonfiarono oltre misura, e Sinda fu soffiato via a rotoloni in mezzo alle pozze vischiose; la macchina si sollevò, dapprima a perpendicolo, poi obliquamente, e in pochi minuti si nascose dietro le montagne.

Sinda si rimise in piedi e si guardò intorno: il villaggio non sembrava piú il suo villaggio. Non solo la fossa traboccava, ma il latte colava denso per tutti i vicoli in pendio, e grondava dai pochi tetti che avevano resistito. La parte bassa del villaggio era allagata: due donne erano affogate, e cosí pure molti conigli e cani, e tutti i polli. A galla sul liquido furono trovati centinaia di fogli di carta stampata, tutti uguali: portavano in alto a sinistra un segno rotondo, che forse rappresentava il mondo, e poi seguiva un testo diviso in articoli, e ripetuto in diversi caratteri e in diverse lingue, ma nessuno del villaggio sapeva leggere. Sul rovescio del foglio era una ridicola serie di disegni: un uomo nudo e magro, accanto un bicchiere, ancora accanto l’uomo che beveva il bicchiere, e infine lo stesso uomo, ma non piú magro; piú sotto, un altro uomo magro, accanto un secchio, poi l’uomo che beveva dal secchio, e infine lo stesso uomo coricato a terra, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il ventre esploso.

Daiapi comprese subito il significato dei disegni, e convocò gli uomini sulla piazza, ma era troppo tardi: nei due giorni successivi otto uomini e due donne morirono, lividi e gonfi. Fu fatto un inventario, e si vide che, senza contare il latte che era andato perduto o si era mescolato con la terra o col letame, ne rimaneva ancora abbastanza per nutrire l’intero villaggio per un anno. Daiapi dispose che al piú presto si cuocessero giare e si cucissero otri di pelle di capra, perché temeva che il latte della fossa si corrompesse a contatto con il terreno.

Solo quando fu notte, Sinda, stordito da tutte le cose viste e fatte, e intorpidito dal latte bevuto, si ricordò di Diuka rimasta all’alpeggio con le capre. Partí all’alba dell’indomani, portando con sé una zucca colma di cibo, ma trovò le capre disperse, e quattro ne mancavano, e anche Diuka mancava. La ritrovò poco dopo, ferita e spaventata, ai piedi di un dirupo, insieme con le quattro bestie morte: le aveva soffiate giú il vento della Nutrice, quando aveva sorvolato il pascolo.

Qualche giorno dopo, una vecchia, ripulendo il suo cortile dalle croste di latte seccato dal sole, rinvenne un oggetto mai visto prima. Era lucido come l’argento, piú duro della selce, lungo un piede, stretto ed appiattito; ad una estremità era arrotondato a formare un disco con un grosso intacco esagonale; l’altra estremità costituiva come un anello, il cui foro, largo due dita, aveva la forma di una stella a dodici punte ottuse. Daiapi ordinò che si costruisse un tabernacolo di pietra sul masso erratico che stava presso il villaggio, e che l’oggetto vi fosse conservato per sempre, a ricordo del giorno della visita della Nutrice.