Quella che state per leggere è una ricostruzione dei fatti avvenuti nella Val Seriana tra il 23 febbraio e il 23 marzo. Un mese cruciale. Di mala gestione sanitaria, di responsabilità politiche venute meno, di pressioni da parte delle imprese. Trenta giorni che hanno contribuito a trasformare la Lombardia nel focolaio numero uno d’Italia. Da qui contagi e vittime si sono diffusi a macchia d’olio su tutto il territorio regionale, e hanno raggiunto anche l’estero.
Questa è la storia di un contagio che, con la sua propagazione, ha pesantemente contribuito a fermare l’Italia intera per oltre due mesi. Tutto ha inizio domenica 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo. Nel tardo pomeriggio il pronto soccorso chiude dopo che erano stati accertati due casi di Covid-19, per poi riaprire inspiegabilmente poche ore più tardi, senza però essere stato sanificato come prevede il protocollo sanitario. Parte un viavai di medici, infermieri, operatori sanitari, dipendenti e funzionari, parenti dei pazienti, visitatori esterni che tornano a casa dalle loro famiglie che, a loro volta, incontrano altre persone. Questa è la miccia che accende il focolaio di Bergamo e che trasforma la Val Seriana nel lazzaretto d’Italia.
Il contagio galoppa silenzioso. A Bergamo come a Brescia, a Lodi come a Crema, a Milano e provincia: prende forma così il “quadrilatero rosso” che ha messo in ginocchio la Lombardia.
Un precedente c’è già, Codogno, dove il governo decreta una zona rossa proprio in quelle stesse ore, nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 febbraio. Ad Alzano Lombardo invece no. Nessuno si accorge di nulla, nessuno parla. Nei due giorni successivi la situazione al pronto soccorso è fuori controllo. I pazienti Covid non vengono mai isolati e rimangono stipati nei corridoi anche per ore, in una situazione di pericolosa promiscuità.
Gli infermieri e i medici del presidio ospedaliero si rivoltano contro la direzione sanitaria: fanno a gara per ottenere un tampone per primi, ma soprattutto vogliono che si chiuda al più presto. Volano urla e telefonate, ma arrivano ordini dall’alto: l’ospedale deve rimanere aperto. Da quel momento succede più o meno di tutto. Si ammalano pazienti, infermieri e dirigenti. Fino a lunedì 2 marzo, quando l’Istituto superiore di sanità (ISS), vista l’incidenza di casi di Coronavirus, invia una nota tecnica al governo con cui raccomanda l’isolamento immediato e la chiusura dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, e di Orzinuovi, in provincia di Brescia, suggerendo la creazione di una zona rossa come quella disposta a Codogno otto giorni prima.
Quella nota, come poi confermato da Protezione civile, Regione Lombardia e governo, la ricevono tutti. Ma nessuno si muove. Il 5 marzo l’ISS reitera la richiesta integrando la prima nota con un secondo invito a chiudere l’area. Ma ancora una volta, nessuno fa nulla. L’unica decisione presa è di non decidere. Inizia la disciplina più classica di cui la politica si è resa campionessa negli anni: lo scaricabarile. Gallera scarica Conte, Conte scarica Fontana.
Sono giorni di fuoco ed è già un’altra Italia quella in cui iniziano a trapelare le bozze dei decreti per chiudere il Paese. Prima arriva la Lombardia con 11 province limitrofe. Poi la fuga di massa da Milano nella notte di sabato 7 marzo. Il governo è sotto pressione. Il giorno dopo Giuseppe Conte chiude l’Italia. Ma è troppo tardi. I buoi, almeno in Lombardia, erano già scappati dal recinto.
Rimane la domanda, ancora senza risposta: perché dunque Alzano e Nembro non sono mai state chiuse? La giornalista e documentarista Francesca Nava ha condotto una lunga inchiesta per conto di TPI.it in seguito alla quale la procura di Bergamo ha aperto un’indagine per epidemia colposa e che, ad oggi, ci ha permesso di sapere alcune cose:
- Che l’ospedale di Alzano doveva essere chiuso e che invece ordini superiori hanno impedito che accadesse, alimentando il contagio;
- Che la zona rossa poteva essere disposta il 2 marzo e nessuno – governo e Regione – ha deciso;
- Che le imprese hanno fatto pressioni nel tentativo di posticipare una eventuale chiusura dell’area, che avrebbe impattato pesantemente sulla loro attività produttiva.
La verità è che se oggi asportassimo la Lombardia dalla mappa dell’Italia, i numeri di questa strage sarebbero di ben più modeste dimensioni (la metà delle 32.000 vittime totali proviene da questa regione), ed è evidente che tutto ciò non può essere frutto del caso. Qualcosa è andato storto. E il compito di un giornale come il nostro è quello di fare domande e trovare le risposte, anche quando le verità possono risultare scomode, e anche nei momenti più delicati come quello che sta attraversando il Paese. Da parte di chi come noi fa domande, non c’è alcun tentativo di sciacallaggio politico nei confronti della Regione Lombardia, ma non possiamo voltarci dall’altra parte, questo no. Non è un attacco pretestuoso, magari motivato dal colore politico della giunta Fontana: tutt’altro, laddove il centrodestra ha gestito meglio l’emergenza (meglio, non bene!), come in Veneto, lo abbiamo scritto chiaramente. Ma i fallimenti che abbiamo evidenziato con la nostra inchiesta rivelano una serie di conseguenze devastanti per l’intero territorio.
I numeri certificati dall’ISTAT parlano chiaro e sono impressionanti. In Lombardia moltissime persone sono state abbandonate a se stesse. I tamponi non vengono eseguiti e il sistema sanitario – al 75 per cento in mano ai privati – ha mostrato le sue falle in una crisi necessariamente pubblica, che andava gestita in modo centralizzato dallo Stato (come argomenta Marco Revelli nella sua analisi). E perché mai, si chiede nel suo commento Selvaggia Lucarelli, una clinica privata dovrebbe mettere a disposizione la propria struttura a costo di perdere fior di ricavi? Come mai Regione Lombardia ha tagliato ogni ponte tra medici di base e pazienti?
In questa vicenda c’è di mezzo anche l’ingerenza delle imprese: 376 aziende, 4.000 dipendenti e un fatturato da 700 milioni di euro l’anno, che non hanno mai davvero chiuso fino al 23 marzo (e nemmeno dopo per la verità, continuando a operare in deroga).
«In Lombardia la produzione non si poteva fermare» ha ammesso il leader degli industriali lombardi Marco Bonometti. In un’area ad altissima densità di imprese (1,6 ogni 100 abitanti), tra salute e lavoro, ancora una volta ha avuto la meglio l’interesse economico.
La Lombardia è una fra le prime 10 regioni più colpite al mondo dalla pandemia. Con oltre 80.000 casi di Covid-19 ha superato le cifre ufficiali della Cina. E ancora oggi, a riaperture di fatto avvenute, ogni giorno ci sono nuovi contagi e nuove vittime.
Spiegateci perché si continua a morire, nonostante le misure di sicurezza così restrittive rimaste in vigore per settimane. A queste domande finora nessuno ha mai risposto.