Siamo alla vigilia della Fase 2 e la Lombardia ha proposto di far ripartire le attività produttive dal 4 maggio. Qui, dove i numeri di decessi per Covid-19 sono stati più alti che in qualsiasi altra parte del mondo, le fabbriche non si sono mai fermate del tutto. Ci si è aggrappati a qualunque cavillo che lasciasse spazio a una riapertura ante tempus, grazie alla meravigliosa narrazione per cui “l’essenziale per l’essenziale” potesse trasformare quasi ogni attività produttiva in necessaria e quindi titolata a svolgersi anche durante una pandemia globale. E proprio in Lombardia, oggi, si vuole solo guardare avanti, senza ancora avere analizzato, e compreso, le ragioni di questo triste primato.
Ecco perché, a titolo esemplificativo, vorremmo ricostruire quello che è successo e sta accadendo in queste settimane all’interno di una grande fabbrica bergamasca, simbolo dell’operosità tipica di questa terra, un’azienda strategica con oltre un secolo di storia alle spalle, una società siderurgica che produce tubi in acciaio per l’industria petrolifera e dove lavorano 1.300 persone suddivise in cinque reparti più gli uffici: “la Dalmine”, come la chiamano tutti a Bergamo. Ma andiamo con ordine.
Il 23 febbraio vengono accertati i primi casi di Covid-19 ad Alzano Lombardo. Quella stessa sera Bergamo ha la sua prima vittima di Coronavirus. Il giorno dopo viene sospesa ogni attività formativa alla Dalmine, ma la produzione va avanti. All’entrata della fabbrica c’è un cartello che dice: «Se avverti sintomi di infezione respiratoria e/o febbre non entrare nello stabilimento, ma torna immediatamente a casa e contatta il tuo medico curante».
Nella settimana dal 9 al 13 marzo molti lavoratori si assentano per malattia. La paura è tanta. Il reparto dell’acciaieria deve chiudere per mancanza di personale (si produce al 50 per cento delle possibilità) e anche per pressioni sindacali. Il 16 marzo si ammala di Covid-19 un primo lavoratore nel reparto FTM (Fabbrica Treno Medio). Finirà in terapia intensiva. Il giorno dopo si tiene una riunione in teleconferenza con i vertici aziendali, la RSU e i segretari provinciali di Fim, Fiom e Uilm per parlare delle misure di sicurezza, ma tra i lavoratori serpeggia molta preoccupazione. Le perplessità sono tante, per esempio – si legge nel comunicato sindacale – «sull’efficacia dell’utilizzo delle mascherine, sul problema degli assembramenti negli spogliatoi e sulla sanificazione delle varie aree».
Massimo Seghezzi lavora alla Dalmine come operaio da quasi vent’anni: «In acciaieria, che è il reparto più sindacalizzato,» ci racconta «la paura si sente, anche per questo ci hanno lasciato una settimana in più rispetto agli altri reparti prima di riprendere, perché la gente è più arrabbiata. Molti si chiedono: e se andando al lavoro poi porto a casa il virus?».
Chi lavora in fabbrica a Dalmine nei giorni del lockdown nazionale scrive su WhatsApp ai colleghi messaggi come questo: «Le misure di sicurezza messe in atto dall’azienda nelle scorse settimane per salvaguardare i lavoratori sono, a mio avviso, insufficienti: un cubo di sapone di Marsiglia posato su un lavandino lurido, una diluizione di alcol e acqua per disinfettare. Diluita da loro, in quale percentuale non si sa. Attenzione a riprendere ancora in queste condizioni».
Già dal 17 marzo inizia il pressing dell’azienda sui lavoratori per riaprire. Il 20 marzo l’acciaieria è attiva grazie ai lavoratori volontari. Quel reparto non è indispensabile per la produzione di bombole. Il 24 marzo continua la campagna social della Dalmine che dice: «Noi ci siamo». Vorrebbe che ci fossero anche i lavoratori? La Tenaris Dalmine estende la volontarietà verso reparti considerati non essenziali.
Il 25 marzo muore il primo operaio, si chiamava Salvatore Occhineri. Lavorava al magazzino tubi e per questo doveva girare nei reparti e venire a contatto con altre persone. Infatti, alcuni giorni dopo, due suoi colleghi finiscono in terapia intensiva: nessuno li aveva avvertiti. Si convoca una riunione dietro l’altra e i “volontari” vengono richiesti dall’azienda ben oltre le attività essenziali. Inutile dire che sono spesso quelli più ricattabili: neoassunti, giovani con contratti a scadenza, persone che non possono permettersi la riduzione dello stipendio.
In questa fase la Dalmine (siamo all’1 aprile) consiglia ai dipendenti, tramite una brochure, di praticare esercizi di attività motoria a casa, in modo da mantenere il corpo tonico e in salute per la ripresa. Sempre a inizio aprile l’azienda comunica di voler ripartire, seppur parzialmente, il giorno 6, sostenendo che le attività di Tenaris Dalmine legate al ramo energetico siano strategiche ed essenziali. I lavoratori, appoggiati dal sindacato, sostengono invece che in questa fase l’essenzialità sia riconducibile solo alla produzione di bombole medicali, confermando la contrarietà a estendere la ripresa delle attività a produzioni non essenziali. In verità i decreti del governo lasciano troppo margine alle aziende, che possono andare in deroga e continuare quindi a lavorare, rischiando di far ammalare i propri dipendenti. È sufficiente chiedere una proroga al prefetto e la produzione può ripartire anche senza essere legati alla filiera delle attività essenziali. Ed è così che in Lombardia molte fabbriche sono ripartite presto, magari laddove i lavoratori sono più silenziosi. Laddove sono più sindacalizzati, invece, si rimanda di una settimana. Gli operai della Dalmine lo chiamano “il contentino”.
Il 4 aprile muore Sergio Bertino. Lavorava a Sabbio, il famoso comparto delle bombole d’ossigeno della Tenaris Dalmine. Quel comparto che il capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti, dieci giorni prima, rivendicava di aver tenuto aperto, spiegando che «le bombole per l’ossigeno sono una filiera che va dall’acciaio alla calandratura, dalla saldatura alla meccanica. Per fortuna certe attività sono rimaste aperte!». Peccato che, a parte il reparto che produce le bombole d’ossigeno, gli altri non siano essenziali, perché, come ci racconta Massimo Seghezzi, attivista del sindacato di base Flmu-Cub, «con un paio di giorni di lavoro dell’acciaieria si producono migliaia di tonnellate di acciaio, con cui si possono fabbricare bombole per mesi interi».
In pratica a Sabbio sarebbero autosufficienti. L’azienda, invece, vuole ripartire il prima possibile e, come riportato in un comunicato sindacale, comunica che nell’ultimo mese, a causa dell’emergenza Covid-19, «sono state perse circa 20.000 tonnellate di produzione pari a circa 40-45 milioni di fatturato, in un contesto di crisi generale del settore oil & gas, con le aziende concorrenti in Giappone, Usa e in Europa che stanno comunque producendo».
Per la Fase 2 il tema centrale, oltre all’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e alla sanificazione delle aree comuni, è quello di evitare gli assembramenti in azienda, il che si traduce in una riduzione dei turni. La Dalmine non è e non sarà l’unica grande fabbrica italiana (e probabilmente del mondo) a dover ripensare e riprogrammare il regime dei turni e il contingentamento dei propri lavoratori, perché la loro tutela passa anche dai numeri e dalle presenze in fabbrica. La pressione dei lavoratori dell’acciaieria ha permesso di ottenere lo spostamento della ripartenza del reparto al 20 aprile. Nel frattempo il sindacato di base ha rilanciato uno sciopero a oltranza (nel settore metalmeccanico, industria e artigianato) come strumento dei lavoratori per salvaguardare la propria incolumità e quella delle proprie famiglie.
I dati della diffusione del Coronavirus in Lombardia continuano a essere allarmanti e la proroga al 3 maggio sul fermo della produzione ha lasciato ancora la possibilità di proseguire le attività anche a settori non effettivamente essenziali, attraverso l’autocertificazione alle prefetture. Ma gli operai si interrogano: chi deve fare tamponi per i lavoratori che rientrano? Seghezzi non nasconde la sua preoccupazione: «Nei reparti sarà molto difficile rispettare tutte le misure di sicurezza, perché siamo stressati, in particolare in acciaieria si lavora in un ambiente con temperature molto elevate e non ci sono le condizioni per tutelare i lavoratori. Negli spogliatoi siamo a mezzo metro di distanza gli uni dagli altri e quando torneremo a pieno regime, come faremo a stare in cinque dentro a una cabina da tre metri per sei?».
Venerdì 17 aprile, alla Dalmine sono aperti quattro reparti su cinque, dal lunedì successivo riapriranno tutti. Con la magistratura che indaga, l’opposizione sul piede di guerra e una curva dei contagi ancora imprevedibile, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, avrebbe voluto riaprire tutto il 4 maggio. A dire il vero oltre 110.000 fabbriche al Nord l’hanno già fatto in autonomia, con l’autocertificazione consentita dal decreto Chiudi Italia del 22 marzo scorso.
Eppure la fondazione indipendente GIMBE – che da mesi analizza a fondo i dati ufficiali e pubblica modelli predittivi sull’andamento dell’epidemia da Coronavirus – ci ricorda che «il contagio non è sotto controllo». Il motivo è che, per quanto riguarda le misure di distanziamento, «siamo partiti in ritardo, il lockdown non è stato affatto totale e l’aderenza della popolazione è stata buona, ma non eccellente».
Esiste infine un altro tema ancora confuso: chi si occuperà dei test sierologici da fare ai lavoratori? Lo Stato? Le aziende? Siamo davvero pronti alla Fase 2? È davvero possibile vigilare sul rispetto delle regole e garantire la tutela dei cittadini, o tra qualche settimana saremo di nuovo punto e a capo?