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A TU PER TU CON VESPIGNANI, L’EPIDEMIOLOGO DIVERSO: «PER SCONFIGGERE IL COVID SERVONO LE TRE T.

I VIROLOGI ITALIANI? HANNO CAPITO POCO».

di Luca Telese, 3 maggio 2020

Alessandro Vespignani, 55 anni. Figlio di Renzo Vespignani, uno dei più famosi pittori italiani del dopoguerra. Romano, fisico di formazione, una carriera internazionale a cavallo fra Europa e USA, costruita completamente – negli ultimi vent’anni – sulla caccia ai virus. Vespignani è atipico, nella sua formazione, e molto determinato nella sua analisi.

Professor Vespignani, lei è un epidemiologo, ma non un virologo.

I virologi – come le spiegherò – possono essere dei luminari, ma talvolta sono le persone meno indicate per capire come si sviluppa un’epidemia.

Addirittura. E lei?

Io non potrei dare nessun contributo per trovare un vaccino, ma sono in grado di dire come si muove il virus in una popolazione.

Lei è pro o contro il passaggio alla Fase 2 in Italia?

Non ho nulla in contrario, in linea di principio. Anzi, penso che sia necessario ritornare al lavoro. Ma per farlo, servono le condizioni di base per non ricadere nell’epidemia.

Che cosa serve, che cosa manca?

Prima di tutto un salto di mentalità. E poi le tre T. Se vuole le spiego perché.

Vespignani, come si sente a essere considerato “l’enfant prodige dell’epidemiologia” tra i due mondi, fra USA e Italia?

Prodige non saprei. Enfant mi pare troppo generoso, visto che ormai ho 55 anni.

Come è diventato epidemiologo?

Pensi, io di formazione primaria sono un fisico, che poi si è interessato all’informatica, e che poi da questa base è passato a studiare le reti sociali.

Non sembra un percorso convenzionale, a dire il vero.

(Ride). Ah, certo, assolutamente no: il fatto è che alla fine degli anni Novanta ho iniziato a occuparmi di virus informatici. E da lì sono passato ai virus biologici.

Ancora più singolare.

Capisco. Ma in realtà lo è molto meno di quanto non possa sembrare: il comportamento dei virus informatici, dal punto di vista schematico, e gli scambi infettivi tra le reti, allora seguivano dinamiche sovrapponibili a quelle biologiche.

Quindi oggi come si definisce, dal punto di vista professionale?

Bella domanda: direi che sono una persona che si occupa di epidemiologia computazionale.

Molti virologi dicono di lei, con un po’ di sospetto: «Un fisico che si occupa di epidemiologia è curioso».

Ah ah ah. Se volessi prendere cappello potrei rispondere così: “Non tutti sanno che un normale virologo – salvo eccezioni – sa poco di epidemiologia”.

Scherza?

Non c’è nulla di polemico. Si tratta della loro formazione: magari fanno un paio di esami, uno studio sull’epidemiologia. Ma il loro lavoro, giustamente, è un altro.

Mi faccia capire, con un esempio, la differenza tra virologi ed epidemiologi.

È come chiedere a un meccanico bravissimo con i pistoni e con le centraline delle auto di fare una previsione sul traffico in autostrada al casello di Abbiategrasso.

Lei invece è quell’uomo.

Esatto. Io non sono bravo a smontare il motore di un virus, a trovare un vaccino, ma lavoro con i dati per capire quanti contagiati ci saranno domani, e tra un mese, a Milano, a Bergamo, o a New York.

Servono molte equazioni, molta matematica, molte capacità di analisi.

Vede, dietro questo benedetto R0, ovvero il numero medio di infezioni secondarie causate da ciascun individuo infetto, c’è una tale complessità previsionale che il nostro mestiere, lo dico senza ironia, è molto più simile a quello di un meteorologo: più lontana è la previsione, maggiore e il grado di approssimazione.

Come un meteorologo? Scherza?

Sì, ma con due differenze importanti. La prima è che noi pronostichiamo quasi sempre catastrofi, non ci chiamano se c’è bel tempo. La seconda è che un meteorologo ha sempre una bella immagine di un vortice da fare vedere, e può dire: “Guardate, questo è il ciclone, e vi sta arrivando proprio sulla testa”. Noi, invece, non abbiamo nulla di così immaginifico da far vedere.

I morti.

Che però ancora non ci sono, io devo andare da un politico e gli devo dire: guarda, oggi ci sono solo sei contagiati. Fra un mese potranno essere 1 milione.

Perché all’inizio molti virologi dicevano: «Questo virus fa 100 morti mentre l’influenza ne fa 20.000»? Era giusto o sbagliato?

Era sbagliato. Ecco un altro esempio della differenza tra un meccanico di virus e un epidemiologo. Quella previsione non faceva i conti con la velocità di propagazione, la mancanza di farmaci, la popolazione vulnerabile rispetto a una normale influenza.

Che in Italia può colpire al massimo 10 milioni di persone perché gli altri sono immuni…

Mentre il Coronavirus è la prima volta per tutti.

Seconda grande domanda. I dati della Cina, alla luce di quello che lei ha riscontrato, sono falsi?

Secondo me sono assolutamente veri.

Davvero?

I dati di qualsiasi epidemia all’inizio sono sempre – mi passi il romanismo – “un casino”.

La Cina, però, ha aspettato sei giorni prima di avvisare il mondo.

Ma è ovvio! Prenda l’Italia: anche noi, in una sola settimana, abbiamo cambiato il nostro punto di vista. All’inizio ci sono stati errori, riponderazioni, buchi. Ecco perché io da mesi dico che anche i nostri dati non sono veri.

Qui è lo statistico che parla.

È matematica. I contagiati, in Italia, sono dieci volte di più di quelli ufficialmente infettati. Io direi: riconosciuti come infetti.

Il campione che abbiamo è falsato, quindi?

Esatto. Qualunque modello sensato e professionale ci dice che siamo già nell’ordine dei milioni, e non delle centinaia di migliaia.

È sicuro che ci sia uno scarto così ampio?

Sì, è come fare un sondaggio politico solo nella sezione di un partito. È ovvio che se sei in una sede della Lega ti sembra che Salvini abbia il 90 per cento, se sei a Reggio Emilia il più popolare è Bersani. Vuol dire che la nostra impressione ingannevole è data dal fatto che il grosso dei tamponi non sono fatti seguendo un modello statistico demoscopico, ma prendendo tutti quelli che gravitavano già sugli ospedali.

Mi faccia un altro esempio.

Andiamo lontano dall’Italia. Il lavoro che sto facendo sembrava diventato impossibile: ci sono volute due settimane solo per capire come contavano i morti a New York, capisce?

Intende a causa dell’annosa questione se si muore “con” Coronavirus o “per” Coronavirus?

Sì. Ma anche per una questione di flusso: un giorno ti arrivano 3.500 morti tutti insieme, e forse il dato riassume quello che è accaduto un mese prima.

In Europa sono stati più bravi?

Questo mi fa sorridere. Se lei si ricorda in Francia, in Germania o nel Regno Unito, dicevano: «Il caso italiano». Erano solo quindici giorni indietro a noi. Era insensato. Io questo l’ho detto a marzo, dal Tg1 al “Corriere della Sera”.

Quindi non siamo stati meno bravi, secondo lei.

Questo virus è una bestia maledetta che ha preso tutti, senza fare sconti a nessuno. E molti di coloro che sorridevano sulla nostra “impreparazione” si sono fatti trovare più impreparati di noi malgrado il preavviso!

Altra vexata quaestio: era giusto chiudere i voli diretti per la Cina o non è servito a nulla?

Dal mio punto di vista è stato giustissimo farlo. Chiudere un volo diretto non ferma il contagio, ma lo rallenta di sicuro. Si ricorda? Negli anni Duemila iniziai proprio con questo tipo di calcoli probabilistici.

Perché i tedeschi hanno l’indice di mortalità enormemente più basso del nostro?

Per due motivi. I tedeschi confermano molti più casi di noi, allargano il denominatore dei tamponati, quindi riducono il rapporto di mortalità.

E poi?

Il dato sui morti con patologie concorrenti: alcuni dei loro casi vengono computati con altre cause di decesso.

Qual è il fattore di rischio più alto del Coronavirus?

Il tema del contagio indotto dagli asintomatici e il periodo di incubazione.

Che tradotto sul suo modello cosa produce?

Per settimane l’epidemia galoppa nascosta, sottotraccia, invisibile. Un flagello.

È attendibile lo studio che in Italia ha ipotizzato il rischio di 150.000 terapie intensive se si sbaglia nella Fase 2?

Molto verosimile, proprio per tutto quello che abbiamo detto su contagi occulti e capacità di trasmissione uomo-uomo.

Anche negli USA sarà così?

La faccio sorridere, ma di amarezza. Noi stiamo lavorando con la Casa Bianca per quel tipo di proiezioni. Qui l’adozione di quel tipo di modello ci fa salire a una stima di 2 milioni di vittime.

Il governo americano usa uno dei vostri modelli?

Diciamo che è uno dei quattro usati dalla task force. Ma, per darle un’idea, gli altri non si differenziano dal nostro per essere più ottimistici.

Il suo come si chiama?

Global epidemic and mobility model.

Torniamo all’Italia: perché tutti gli epidemiologi pronosticavano una catastrofe dopo l’esodo di massa da Milano e invece non c’è stata?

In primo luogo perché c’è stata responsabilità collettiva e molti si sono isolati. In secondo luogo perché era già accaduto.

Dove?

In Cina. Lo sa che nella fuga da Wuhan si sono disperse per la Cina mezzo milione di persone?

E cosa sapevate voi?

Che non tutti erano infetti. Non tutti erano asintomatici. E che, aggiungendo quei casi agli altri che sicuramente già c’erano, non ci sarebbe stato il collasso. Noi questa dinamica la vedevamo.

Quando dice così mi fa paura. La vedevate?

Dalle equazioni: torni per un attimo alla similitudine delle previsioni del tempo…

Ci sono.

Noi sapevamo che il Sud era in una situazione completamente diversa dal Nord. Al Nord il virus è arrivato a fine dicembre. Circolava sottotraccia. Si è innervato in una rete di relazioni, viaggi e commerci enormemente sviluppata. Parlo di voli, di connessioni.

Spieghi meglio.

Ma lei davvero vuole paragonare le interazioni del Molise con la Cina a quelle con la Lombardia industrializzata? Sono due Paesi diversi. Due mondi.

Ma è stato giusto chiudere tutta l’Italia come ha fatto il governo due mesi fa?

Io non ho il minimo dubbio, e nessuno, dati alla mano, può averlo. Il blocco funziona. Il dramma sarebbe accaduto se all’epoca si fossero fatte chiusure differenziali.

Perché le regioni del Sud sarebbero state contagiate da quelle del Nord.

Malgrado i volumi di traffico enormemente diversi tra Bergamo e il Molise, se non si chiudeva, il virus sarebbe arrivato anche in Molise!

E gli ospedali?

Lodi e Codogno: lì sono stati sfortunati. Quegli ospedali sono diventati dei focolai, non era inevitabile. Ma il grande tema è: c’erano le protezioni e la preparazione? Perché se non le hai non puoi non sbagliare.

La scala di Bergamo proiettata su New York è peggiore o migliore?

Io credo che siamo lì. Quando improvvisamente ci siamo trovati quei 3.500 morti, hanno fatto sballare tutti i modelli.

E da voi?

L’altro giorno ho dovuto gestire un casino enorme. Quando qui c’erano 28 casi, noi abbiamo dovuto dire alle autorità che saremmo arrivati presto a 25.000. Però non sempre la precisione si certifica. Perché rispetto a chi fa le previsioni del tempo noi abbiamo una fortuna: possiamo cambiare il racconto dell’uragano, possiamo abbattere la forza dell’onda che vediamo sollevarsi.

Quanto ha contato nel caso italiano la condizione della sanità?

Molto. Non abbiamo avuto nessuna linea di difesa prima degli ospedali.

E questo ha aumentato anche i numeri dei contagi.

Per forza. Non solo non vedi il virus correre quando si muove in modo asintomatico. Ma non riesci a intervenire nemmeno quando lo vedi. Se ti metti in moto quando le terapie intensive sono intasate, per molti di quelli che arrivano è già troppo tardi.

E qui arriviamo al suo cavallo di battaglia. Le famose «tre T di Vespignani».

Non mi prenda in giro. Ne parlo da mesi perché è il mio chiodo: le tre T sono l’uovo di Colombo, testing, tracing and treating.

Testare, tracciare e trattare.

Esatto. Noi ormai siamo in una fase in cui non conta solo dove ti trovi – il livello dei contagi, per esempio – ma quello che fai.

Cominciamo con il testare.

Tamponi e test, purché omologati. Serve un esercito. Serve una determinazione ossessiva e spietata. In Italia oggi questo esercito io non lo vedo.

In Veneto, forse?

Il Veneto sta diventando un ottimo modello. Proprio perché sono partiti dalla prima T.

Passiamo alla seconda T.

Tracciare. Che poi significa poter isolare. Appena sei positivo c’è qualcuno che ti chiama e ti chiede: «Quante persone hai visto? E chi sono?». E poi si chiamano, si isolano e si seguono anche quelli.

Ma c’è qualcuno che ci si sta avvicinando?

In Cina, in Corea del Sud e a Hong Kong, in Germania. Bisogna risalire tracciando. E spiegare: «Anche se stai bene come un pupo, se hai avuto contatti con l’infetto te ne stai a casa due settimane, meno i giorni che sono passati dal tuo contatto».

Non sempre quindici, dunque? E perché?

Siccome non va dimenticato che tutto questo ha un costo sociale enorme, se il contatto è avvenuto dieci giorni fa e sei negativo devi essere isolato solo cinque giorni.

E poi?

Poi ti devo monitorare, misurare. E ti devo assistere. Al momento giusto, se sei negativo puoi uscire.

Molti si chiedono se si possa fare in Paesi come il nostro.

Eh no! Qui mi incazzo. Queste cose sono state fatte in Congo, quando abbiamo combattuto contro l’Ebola!

Lei ha monitorato anche quella epidemia?

Noi abbiamo costruito i modelli per il Congo e, le autorità congolesi li hanno implementati anche in zone di guerra! Si può fare in Congo e non si può fare a Milano?

Quali altri modelli avete costruito?

Abbiamo lavorato su Zika, in Sudamerica, e nelle zone del Sud degli Stati Uniti. Poi con la pandemia influenzale del 2009. Calibrato i modelli sulla SARS.

Sono esperienze parallele a questa pandemia?

Sì. È la terza volta che un Coronavirus fa un salto di specie. La Sars, come è noto, faceva più vittime, ma non aveva una trasmissione asintomatica.

Cos’altro emerge dai vostri modelli?

I bambini sembrano meno suscettibili. Meno sintomatici. Ma è da confermare.

Arriviamo dunque alla terza T.

Trattare. E qui io vorrei partire dall’isolamento, che non può essere familiare. Io non posso credere che in Italia ancora oggi si dica a un infetto: «Adesso chiuditi in casa tua».

Perché?

Ma prendete un albergo! Aprite una caserma. Fate quello che volete, ma non chiudete gli infetti nelle loro case a infettare i loro familiari.

E le sembra un problema di mentalità o economico?

Di mentalità. Perderemo un miliardo di euro al giorno, ma prendiamo tutte le stanze che servono, e facciamo trascorrere il miglior periodo di quarantena immaginabile.

Perché questo messaggio non passa?

Io non me ne capacito. Eppure, nei venti punti del ministero ci sono queste cose scritte. Il problema è che molti governatori non le applicano.

E in America a quante T siete?

Dipende. Serve un esercito di tracciatori. Negli Stati Uniti si pensa di assumerne almeno 100.000. Solo la California ne deve mettere in campo 10.000. E stiamo già facendo i bandi.

E la polemica sulla App?

Io non l’ho capita. Ma davvero pensiamo di sconfiggere Covid con una App?

Proprio lei è scettico?

Sì, e non perché da informatico non abbia fiducia nelle tecnologie, si figuri. Ma perché le persone vanno “seguite”. Lei se lo immagina uno che si alza la mattina e tutto tranquillo si auto-isola perché lo schermo del telefonino gli diventa rosso?

In teoria dovrebbe essere così.

Ma no, perché quell’infetto è un uomo che non può essere lasciato da solo. Magari sono un padre e ho una famiglia da far campare. Magari sono un precario e devo andare a lavorare. Magari non ho lo spazio domestico per tutelare i miei famigliari.

Esattamente quello che è accaduto in Italia.

Sono isolato a casa, in quarantena, non faccio il tampone, nessuno sa come sto, e poi magari chiamo la ASL che non mi risponde perché ha tante telefonate. Folle. Le App vanno benissimo, possono essere un grande supporto, ma serve un servizio umano. Serve una tutela a distanza che non si può realizzare solo con un algoritmo o con le faccine sul telefonino.

Ma serve un personale medico?

Nooo… Non devono essere necessariamente medici e infermieri. Devono andare a prendere la temperatura con lo scanner. Fare telefonate. Monitorare. E se ci sono problemi passare la palla ai medici. Bisognava partire il giorno Uno a metterlo in piedi. Stiamo parlando di due mesi fa.

Per ripartire quindi che domande bisogna porsi?

Hai l’ospedale Covid e l’albergo dedicato? Hai già l’esercito dei tracciatori? Hai test e tamponi? Hai regole chiare e intellegibili per chi torna al lavoro? Hai le terapie intensive pronte? Hai modo di avere dati costantemente aggiornati su casi e decessi? Se non sei preparato devi sapere che stai correndo un rischio grave.

Molti virologi sono scettici sulla possibilità di tornare alla normalità.

Io non sono d’accordo. In primo luogo perché bisogna tornare al lavoro. Il fatto di essere un epidemiologo non può esimermi dal sapere che si muore anche di recessione.

Secondo lei possono riaprire i ristoranti e i bar?

Se hanno spazi all’aperto è meno rischioso.

E il caldo ci aiuterà?

L’estate potrebbe portare un po’ tregua. Io penso che in queste condizioni stare all’aperto sia meglio che stare al chiuso.

Un pericolo da evitare?

Ho paura dei locali con l’aria condizionata. Mi preoccupano i luoghi di vacanza affollati al mare, soprattutto senza presidi medici, più che la gente che va al mare. Io vorrei che ci fossero ospedali Covid in tutte le regioni, soprattutto in Sardegna e Sicilia.

C’è davvero il rischio di una seconda ondata?

Se siamo bravi non ci sarà. Noi siamo in grado di cambiare la traiettoria dell’epidemia. Noi possiamo evitare che l’uragano arrivi.

Quando potremo dire: “Tutto torna come prima”?

Non c’è una data, ma un obiettivo. La risposta è: solo quando avremo più farmaci e il vaccino.

Alcuni dicono: «Non ci sono le risorse, non c’è il tempo».

È un altro ragionamento folle. Le posso fare l’ultimo esempio? Bisogna immaginare per un attimo che non si tratti di un virus.

E cosa cambia?

Se ci fossimo ritrovati in una guerra dove si sono già contati 20.000 morti, 100.000 feriti, migliaia di dispersi, non avremmo perso un secondo.

Dice?

Ma certo. Avremmo già intere fabbriche che costruiscono carri armati invece che automobili, avremmo corpi volontari arruolati e intruppati, avremmo linee di difesa multiple, migliaia di riservisti mobilitati!

Dovremmo, infatti.

(Sospiro). E allora perché non accade?