Gettai sul letto il libro di storia, mi sdraiai a pancia in su e mi coprii gli occhi con le mani. Era solo giovedì pomeriggio e già non ce la facevo più.
Forse potevo pulire qualcosa.
Che noia.
Il cellulare trillò sul comodino e io mi rotolai per prenderlo. Guardai il display con un occhio solo, come se questo potesse aiutarmi qualora si fosse trattato del simpatico stronzo di mia conoscenza.
Ma non era lui.
Mi alzai a sedere e aprii il messaggio di Cam. Due parole e ridevo già come un’idiota. TI MANCO?
NO, scrissi.
La risposta fu immediata: SE TU FOSSI PINOCCHIO, IL TUO NASO VALICHEREBBE IL CONFINE DELLO STATO.
Incrociai le gambe e mi appoggiai alla testiera. PINOCCHIO? LA FASCIA DI ETÀ GIUSTA PER LE TUE LETTURE.
AH, MI HAI FERITO. PROFONDAMENTE.
PENSAVO CHE TU NON AVESSI SENTIMENTI.
MENTIVO. NE HO MOLTI, PER TE.
Prima che potessi rispondere arrivò un altro messaggio. QUANDO DICO BUGIE, A ME CRESCE QUALCOS’ALTRO.
Risi. GRAZIE PER L’INFORMAZIONE.
PREGO. TI TENEVO AGGIORNATA.
PUOI TENERTELO PER TE.
Mi morsi il labbro e scrissi: SEI ARRIVATO A CASA SANO E SALVO?
Passarono alcuni minuti, durante i quali continuai a fissare il telefono. SÌ. I PARENTI MI HANNO RIEMPITO D’AFFETTO. POTRESTI IMPARARE DA LORO.
PENSO CHE TU RICEVA GIÀ ABBASTANZA ATTENZIONI.
HO BISOGNO D’AMORE.
OH, SE LO SO.
Passarono altri minuti.
COSA FAI?
Ancora sdraiata sulla schiena, incrociai le caviglie. LEGGO.
SECCHIONA.
STRONZO.
SCOMMETTO CHE TI MANCO.
Il mio sorriso aveva raggiunto dimensioni imbarazzanti. SCOMMETTO CHE AL MOMENTO HAI DI MEGLIO DA FARE.
NO.
Pochi secondi dopo: CHI SEI???
Aggrottai la fronte e mi alzai a sedere, e poi: SCUSA, MIA SORELLA MI HA RUBATO IL TELEFONO.
Mi rilassai. SEMBRA UNA SORELLA SIMPATICA.
LO È. A VOLTE. MA HA PIÙ BISOGNO D’AFFETTO DI ME. DEVO SCAPPARE.
Risposi: CI SENTIAMO DOPO.
Il pomeriggio sembrò non finire mai, e alle nove meditai di prendere un sonnifero. Il telefono trillò di nuovo. Gettai lo spazzolino nel lavabo e corsi a perdifiato in salotto, rallentando mentre mi avvicinavo al cellulare.
ESCI CON ME.
Risi, dimenticando che avevo la bocca piena di dentifricio, e m’impiastricciai il mento e la camicia. «Dio, sono un’idiota.»
Mi pulii e poi risposi a Cam: CHIEDERMELO PER SMS NON È DIVERSO CHE DI PERSONA.
TENTAR NON NUOCE. COSA STAI FACENDO? IO STO BATTENDO MIO PADRE A POKER.
Lo immaginai con la famiglia e sorrisi. MI PREPARO PER ANDARE A LETTO.
VORREI ESSERE LÌ CON TE.
Strabuzzai gli occhi. Ma che...?
ASPETTA, SEI NUDA?
NO!!! PERVERTITO.
ACCIDENTI. PER FORTUNA SONO UN RAGAZZO DOTATO DI IMMAGINAZIONE.
E DI QUELLA DOVRAI ACCONTENTARTI.
LO VEDREMO.
NO, NON VEDRAI PROPRIO NIENTE.
SCELGO D’IGNORARLO. OK, DEVO SMETTERE, PAPÀ MI STA STRACCIANDO.
’NOTTE, CAM.
BUONANOTTE, AVERY.
Restai col telefono in mano per un lasso di tempo indecente, poi me lo portai in camera. Ultimamente avevo preso l’abitudine di togliere la suoneria di notte, perché non sapevo mai quando sarebbero arrivati i messaggi dal NUMERO SCONOSCIUTO. Ma quella sera la lasciai accesa.
Perché non si sa mai.
La domenica mattina sembrava incompleta senza Cam, la sua ossessione per le uova sode, quella maledetta padellina e tutti quei dolci appena sfornati. Mi svegliai presto, come se un orologio interiore si aspettasse di sentirlo bussare alla porta. Ovviamente non accadde, e per tutto il venerdì e il sabato non avevo ricevuto messaggi. Immaginai che fosse in giro coi parenti e con gli amici che vivevano ancora laggiù.
Cercai di non sentire la sua mancanza perché era soltanto un amico e, benché mi dispiacesse che Brittany e Jacob non fossero lì, non mi mancavano davvero. Non era la stessa cosa. O forse sì.
Tirai fuori una scatola di cereali e feci una smorfia di disgusto. Avevo voglia di muffin ai mirtilli. Mangiai i cereali, di malumore. Avevo appena finito di sciacquare la scodella quando squillò il telefono.
Corsi in salotto e mi immobilizzai davanti al nome sul display.
La mamma.
Ooooh, cazzo.
Il telefono continuò a squillare mentre cercavo di decidere se rispondere o gettarlo dalla finestra. Però dovevo rispondere. Mamma e papà non mi chiamavano mai. Quindi doveva essere importante.
«Pronto», dissi con una smorfia.
«Avery.»
Ah, ecco quella voce: la voce istruita, elegante, impersonale e fredda di Mrs Morgansten. Trattenni una sequela d’insulti che avrebbero arrostito le sue raffinate orecchie. «Ciao, mamma.»
Seguì un lungo silenzio. Inarcai le sopracciglia e mi chiesi se per caso mi avesse chiamata per sbaglio. Alla fine parlò. «Com’è il West Virginia?»
Disse «West Virginia» come se fosse una malattia venerea. Alzai gli occhi al cielo. A volte i miei genitori dimenticavano da dove venivano. «Si sta molto bene. Ti sei alzata presto.»
«È domenica. Theo ha insistito per un brunch con tuo padre al Club. Altrimenti starei ancora dormendo.»
Theo? Mi sedetti sul divano a bocca spalancata. Per l’amor del cielo, Theo era il padre di Blaine. I miei genitori erano... degli stronzi.
«Avery, sei ancora lì?» chiese in tono impaziente.
«Sì, sono qui.» Agguantai un cuscino e me lo posai in grembo. «Fate il brunch con Mr Fitzgerald?»
«Sì.»
E non disse altro. Sì. Come se non fosse niente di che. I Fitzgerald avevano corrotto i miei e io ero stata etichettata come una puttana bugiarda, ma tutto andava bene, perché si poteva ancora fare il brunch al Club.
«Come va l’università?» domandò in tono annoiato. Probabilmente stava navigando su Internet per informarsi sull’ennesimo intervento di chirurgia plastica. «Avery?»
Oh, che cazzo. «Va a meraviglia. Il West Virginia è perfetto. È tutto perfetto.»
«Non usare quel tono con me, signorinella. Dopo tutto quello che ci hai fatto passare...»
«Quello che vi ho fatto passare?» Vivevo in un universo parallelo.
Lei continuò imperterrita: «E che ci fai passare ancora. Te ne stai dall’altra parte del Paese in una piccola università del West Virginia, invece di...»
«Non c’è niente di male in questa università, mamma, e nemmeno nel West Virginia. Tu sei nata in Ohio, non è così diverso...»
«Cerco di dimenticarmene.» Sbuffò. «Il che mi conduce al motivo di questa telefonata.»
Grazie al cielo.
«Devi tornare a casa.»
«Cosa?» Mi strinsi il cuscino al petto.
Lei sospirò. «Devi smetterla di giocare e tornare a casa, Avery. Hai chiarito a sufficienza come la pensi, con questa scenata infantile.»
«Infantile? Mamma, non ce la facevo più a stare lì...»
«E di chi è la colpa, Avery?» La voce era meno gelida di prima.
Restai a bocca aperta. Non era la prima volta che diceva una cosa del genere, ma era comunque un pugno allo stomaco. Fissai la finestra e scossi lentamente la testa.
«Vogliamo solo il meglio per te», ricominciò, ritrovando la freddezza in quell’enorme cazzata. «Non abbiamo mai desiderato altro, e il meglio per te è tornare a casa.»
Mi venne da ridere, ma non ci riuscii. Tornare a casa era il meglio per me? Quella donna era pazza. Temevo che parlandoci mi contagiasse.
«Qui sono successe alcune cose», aggiunse, poi si schiarì la gola: «Dovresti tornare a casa».
Quante volte avevo fatto ciò che mi avevano chiesto? Troppe, e non avrei più ceduto. Tornare a casa equivaleva a infilare la testa in un tritacarne e poi domandarmi perché facesse male. Presi un respiro profondo e aprii gli occhi. «No.»
«Scusa?» Il tono di mia madre si fece acido.
«Ho detto di no. Non torno a casa.»
«Avery Samantha Morgan...»
«Devo andare, mi ha fatto piacere sentirti, mamma. A presto.» E poi riattaccai prima che potesse aggiungere altro. Posai il telefono sul tavolino e aspettai.
Passò un minuto, ne passarono due e poi cinque. Feci un sospiro di sollievo e mi abbandonai sul divano. Scossi la testa, incredula. Mia madre era pazza. Chiusi gli occhi e mi massaggiai le tempie. Che bel modo d’iniziare la domenica mattina.
Qualcuno bussò alla porta.
Saltai in piedi e corsi intorno al divano, chiedendomi chi potesse essere. Era troppo presto perché i miei amici fossero tornati a casa. Non erano neppure le nove, quindi probabilmente era troppo presto anche per un serial killer.
Mi alzai in punta di piedi e guardai dallo spioncino. «Non ci credo.» Il mio cuore fece una serie di capriole e spalancai la porta. «Cam?»
Si voltò sfoderando un sorriso sghembo. Teneva in mano un sacchetto del supermercato. «E, insomma, mi sono svegliato verso le quattro e ho pensato che mi andavano un po’ di uova. E le uova con te sono più buone che con mia sorella o mio padre. E poi mia madre ha fatto il pane alla zucca. So che ti piace.»
Senza parole, mi feci da parte e lo osservai portare la roba in cucina. Mi bruciava la gola, mi tremava il labbro. Un nodo si sciolse da qualche parte nel mio petto. Il cervello mi si spense. Non richiusi neppure la porta e non sentii l’aria fresca sulle caviglie. Scattai in cucina. Cam si voltò proprio mentre mi gettavo addosso a lui.
Mi prese al volo e arretrò barcollando, cingendomi per la vita. Gli nascosi la testa sul petto, chiusi gli occhi. Mi batteva forte il cuore. «Mi sei mancato.»