L’influenza si era trasformata in un disgustoso raffreddore con tosse che tentai ossessivamente di curare con ogni farmaco da banco in commercio. Il primo giorno del semestre primaverile tossivo ancora, ma mi sentivo abbastanza bene per andare a lezione.
Prima di scendere le scale mi feci coraggio e andai alla porta di Cam. Dovevo ringraziarlo, faccia a faccia e non via SMS. Col cuore che mi batteva come se avessi corso una maratona, bussai alla sua porta.
Dopo alcuni passi pesanti la porta si aprì, rivelando Ollie in tutta la sua gloria scapigliata. Mi rivolse un sorriso assonnato. «Ehilà, è bello vederti di nuovo in piedi.»
«Grazie.» Mi sentii arrossire. «Cam è sveglio?»
«Sì, fammi controllare. Aspetta un secondo.» Lasciò la porta socchiusa e svanì nell’appartamento. Dopo qualche istante – istanti che sembrarono interminabili – tornò, un po’ meno arruffato. «In realtà, ehm, è già uscito per andare all’università.»
«Oh.» Sorrisi per celare la delusione. «Be’, allora... ci vediamo in giro.»
«Sì.» Annuì e si passò una mano tra i capelli lunghi fino alle spalle. «Ehi, Avery, spero che tu ti senta meglio.»
«Sì, sto meglio, grazie.»
Lo salutai con la mano, sistemai la tracolla della borsa nuova e tirai fuori i guanti mentre scendevo le scale e uscivo nel sole e nel gelo del mattino. Mi fermai poco prima della mia auto, col batticuore.
Il pick-up di Cam era parcheggiato al solito posto.
Non era uscito. Era in casa. La verità era gelida come l’aria. Ollie gli aveva detto che lo cercavo, e Cam non aveva voluto vedermi.
Lo incrociai spesso al campus nelle settimane successive. A quanto pareva seguivamo corsi che ci portavano su strade vicine, e ogni volta che lo vedevo era con Jase o, come il giorno prima, con Stephanie.
Quand’era con lei una strana sensazione mi stringeva lo stomaco. Non avevo il diritto di provare quella sensazione. Lo sapevo, ma questo non m’impediva di voler stendere Stephanie con una mossa di karate.
Tuttavia non era quella la parte peggiore. Quasi sempre lui mi vedeva, e se i nostri occhi s’incrociavano lui distoglieva lo sguardo. Era come se non fossimo amici da quasi cinque mesi, come se non avessimo condiviso momenti intimi. Era come se non ci fossimo mai conosciuti.
Mi ricordava com’erano diventate le cose coi miei amici al liceo dopo la festa di Halloween. Come se il tempo passato insieme fosse stato cancellato.
Quel venerdì si aprì un piccolo spiraglio. Cam era da solo, stava attraversando la strada principale diretto verso il Knutti, la testa china e le mani nelle tasche della felpa col cappuccio.
«Cam!» Gridai il suo nome così all’improvviso che mi venne un patetico attacco di tosse, residuo del raffreddore.
Lui si fermò e alzò la testa. Ciocche scure gli uscivano da sotto il berretto di lana.
Arrancai per il resto della salita, mi facevano male il petto e le gambe. Col respiro affannato mi fermai davanti a lui. «Scusa. Mi serve un secondo», gracidai, prendendo fiato.
Aggrottò la fronte. «Hai una voce orribile.»
«Sì, è come la peste bubbonica e non se ne vuole andare.» Mi schiarii la voce e mi costrinsi a guardarlo. Per un momento, mentre fissavo quegli occhi cristallini, dimenticai perché gli avessi chiesto di fermarsi.
Gli passò qualcosa sul volto e poi distolse lo sguardo, mentre un muscolo gli fremeva sul mento. «Devo andare a lezione, quindi...?»
Cam che aveva fretta di andare a lezione? L’apocalisse era vicina. A quel punto avrei preferito andarmene, perché era chiaro che lui non era interessato alla conversazione, invece restai là. Glielo dovevo.
«Volevo solo ringraziarti per aver aiutato Brittany quando stavo male.»
Strinse le labbra e fissò un punto imprecisato alle mie spalle. «Non ho fatto niente di che.»
«È stato importante per me», dissi a voce bassa, desiderando che incrociasse i miei occhi. «Quindi grazie.»
Annuì secco e poi fece un lungo respiro. Mi guardò, ma solo per un istante, poi le sue spalle si irrigidirono. «Prego.»
«Be’...» Non sapevo più cosa dire. Mi venivano in mente solo frasi idiote del tipo: mi dispiace di essere stata così stronza. Oppure: vorrei che tu non avessi visto la cicatrice.
«Devo andare», disse lui alla fine, indietreggiando verso l’ingresso laterale dell’edificio, dove vari studenti erano fermi a fumare. «Ci vediamo in giro.»
«Mi dispiace», sbottai, col cuore in gola.
Cam si voltò, socchiuse gli occhi e sembrò che aspettasse qualcosa, poi scosse la testa. «Anche a me.»
Non lo fermai.
Le lacrime mi bruciavano in gola e in qualche modo arrivai alla lezione del corso intermedio di letteratura inglese, che era nello stesso edificio in cui andava lui. La mattina trascorse in una specie di torpore, e quando raggiunsi Jacob e Brittany in mensa seguii a malapena la loro conversazione mentre sbocconcellavo un panino. Ormai si erano abituati a quel mio modo di fare, perché nessuno dei due me lo fece notare.
Mentre andavo con Brittany al Whitehall per la lezione di economia, le dissi che avevo incontrato Cam. «Non vuole più avere niente a che fare con me.»
«Non penso che sia così, Avery.»
«Oh, sì, invece. Aveva fretta di andarsene. Anzi ha detto che non poteva arrivare in ritardo a lezione, e lo sai che a Cam non importa mai di essere in ritardo.»
Brittany si coprì le orecchie col berretto e ci fermammo vicino al padiglione davanti all’edificio di Scienze sociali. «Posso essere sincera con te?»
«Sì.»
Giunse le mani coperte dai guanti. «Tu lo sai che ti voglio bene, vero? Quindi te lo dico chiaro e tondo. Eviti Cam dal giorno del Ringraziamento, e a me, a lui e a tutti quanti sembra che fosse quello che volevi. Che lui se ne andasse e basta.»
Aprii la bocca, ma cosa potevo dire? Era quello che volevo.
«E perciò lui se n’è andato. Non puoi fargliene una colpa. Anche la sua pazienza ha un limite, sai?» Strinse le labbra. «E, dopo averlo ignorato così a lungo, non avrà tutta questa voglia di parlare con te.»
«Lo so. È solo che...»
«Finalmente hai abbassato la cresta e hai paura che sia troppo tardi?»
Era così? Non ne ero sicura, ma speravo di no, perché almeno con la cresta alzata ero un po’ meno depressa.
«Dagli un po’ di tempo», mi suggerì Brittany, posandomi un braccio sulle spalle. «Se non cambia idea, allora vaffanculo.»
«Vaffanculo», ripetei, ma non lo pensavo davvero.
Lei mi abbracciò lo stesso. «Così mi piaci.»
Venerdì sera fissai il libro di economia, convinta che fosse scritto in arabo. Faticavo a concentrarmi, per vari motivi. Più volte mi ero trovata a fissare lo schermo del televisore senza vedere davvero la trasmissione. La mia testa vagava in direzioni diverse, e quasi tutte riconducevano a Cam.
Stavo iniziando a darmi sui nervi da sola.
Il telefono squillò all’improvviso sul fondo della borsa. Lo tirai fuori ed emisi un gemito quando lessi chi era. Mio cugino. Ero un po’ sorpresa che mi telefonasse dopo le decine di e-mail che avevo ignorato.
Ma proprio perché mi aveva telefonato decisi di rispondere.
«Pronto», dissi, con voce monocorde.
Ci fu un momento di silenzio, e poi: «Hai risposto al telefono?!»
«Perché non avrei dovuto?» Sì, sembrava ridicolo anche a me. «Che succede, David?»
«Hai letto le mie e-mail, almeno qualcuna?» Non c’era traccia del suo solito tono altezzoso.
Ero scioccata.
«Ah, ne ho lette una o due, ma ho avuto da fare, tra l’università e tutto il resto.» Mi alzai e spinsi la borsa sotto il tavolino. «Perciò...»
David fece un gran sospiro. «Non sai niente? I tuoi genitori hanno provato a contattarti?»
Sbuffai. «Be’, no. Si sono dimenticati il mio compleanno.»
«Mi dispiace», disse lui, e dalla voce mi sembrò che facesse una smorfia di disappunto. «Ho pensato che avessero provato a raccontarti quello che sta succedendo qui. Ha un po’ a che fare con te.»
Entrai in cucina e aggrottai la fronte mentre prendevo una bibita dal frigo. «Come fa qualcosa che succede laggiù a riguardare me?»
Ci fu una pausa e poi venne sganciata la madre di tutte le bombe. «Riguarda Blaine Fitzgerald. È stato arrestato».
La lattina mi scivolò dalle dita e rimbalzò rumorosamente sul pavimento. Rotolò sotto il tavolo. Io restai lì a fissare il frigo. «Cosa?»
«È stato arrestato, Avery. Per questo cercavo di contattarti. Pensavo... non lo so, pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo.»
Le gambe molli, mi voltai ad afferrare il bancone della cucina con la mano libera. La stanza cominciò a vorticare come se fossi malata di nuovo.
«Avery, sei ancora lì?»
Con la gola serrata, risposi: «Sì... Cos’è successo?»
«È successo all’inizio dell’estate, ma è rimasto un segreto fino a metà agosto, quando lo hanno arrestato. C’era una festa. A quanto ho sentito c’erano ragazzi più piccoli», spiegò, e io chiusi gli occhi. «Era una ragazza con cui andavi a scuola tu. Penso avesse un anno meno di te: Molly Simmons.»
Ricordavo di aver visto il suo nome in una delle e-mail di mio cugino, e di avere immaginato tutt’altro. «Cosa... cos’ha fatto lui?»
David non rispose subito. «È accusato di aggressione a sfondo sessuale e vari altri reati. Il processo si terrà a giugno, ma è fuori su cauzione. Non promette bene per lui, ci sono molte prove. L’unico motivo per cui so tutto questo è che suo padre ha chiesto al mio di rappresentarlo, e mio padre ha rifiutato. Voglio che tu lo sappia.»
Ero senza parole. Grazie per aver scelto di non essere l’avvocato di quello stronzo? Ero ammutolita. Ero esterrefatta. Mi ero sempre chiesta se Blaine avesse fatto a qualcun altro quello che aveva fatto a me, e se il mio silenzio gli avrebbe permesso di rifarlo. Avevo sperato di no, avevo pregato che non andasse così.
«La ragazza che ha... violentato si è messa in contatto con la tua famiglia.»
Non sapevo cosa mi stupisse di più: il fatto che quella ragazza avesse contattato i miei o che David avesse usato il verbo «violentare». «Cosa? Perché? Io non ho detto niente. Ho tenuto...»
«Lo so, Avery. So che tu non hai detto niente. Ma lei veniva nella tua stessa scuola. Ha sentito i pettegolezzi su Blaine e te, e... be’, ha fatto due più due. Si è rivolta prima ai tuoi genitori, e di certo immagini com’è andata.»
Dovevo sedermi.
«Loro si sono rifiutati di parlarle, e lei è venuta da me.» David fece una pausa. «Non le ho detto niente, Avery. Non spettava a me, ma penso che lei cerchi di contattarti. Non so come abbia ottenuto il tuo numero.»
«Non credo che lo abbia.» Mi lasciai cadere sul divano. D’altronde avevo cancellato quasi tutte le e-mail di cui non conoscevo il mittente. «La ragazza? Sta... bene? Insomma, ti è sembrato che stesse bene?»
Mio cugino si schiarì la gola. «Sinceramente? No.»
Mi massaggiai la fronte ed espirai lentamente. «No, certo che no. Era una domanda stupida.»
«Forse ti conviene... ehm... controllare l’e-mail. Ci teneva a parlare con te, e questo ad agosto.»
«Non posso dirle niente. Se le dico qualcosa e si viene a sapere, loro faranno causa a me e alla mia famiglia, chiedendo milioni di risarcimento.» La bile mi risalì nella gola. «È parte dell’accordo di riservatezza.»
«Lo so. Ma ho pensato che avresti voluto saperlo.»
Avevo la testa così piena di domande che faticai a sceglierne una. «E le accuse? Pensi che saranno confermate? Che finirà in prigione?»
«Da quel che ha potuto vedere mio padre, le accuse sono fondate. Andrà in prigione, Avery, almeno per qualche anno.»
Aprii gli occhi. Un’ondata di sollievo m’invase, così forte, così potente che mi sembrava mi avessero sollevato dal petto una tonnellata di mattoni. Mai avevo osato sperare tanto. Blaine non sarebbe andato in prigione per ciò che aveva fatto a me, ma giustizia era fatta. Finalmente. Mi dispiaceva solo che fosse successo a un’altra ragazza; una ragazza che probabilmente era stata molto criticata per essersi fatta avanti e che comunque aveva perseverato. Una parte del sollievo si trasformò in vergogna e senso di colpa. E se avessi detto di no ai miei genitori? Se avessi insistito? Forse a Molly non sarebbe successo. E Dio sa a quante altre ragazze poteva essere successo, e non lo avremmo mai saputo. A quel pensiero mi si rivoltò lo stomaco.
«Comunque...» David allungò le vocali. «Volevo solo che lo sapessi.»
Con sincerità, risposi: «Grazie. Mi dispiace di non averti risposto. Pensavo... Be’, non importa cosa pensavo».
«Lo so cosa pensavi. Non ti ho dato motivo di pensare diversamente.» Esitò un momento. «Senti, voglio dirti che mi dispiace.»
«Cosa?»
«Per tutti questi anni, be’, non ho mai saputo cos’era successo veramente, ma avrei dovuto fare qualcosa. Mi dispiace. Mi dispiace che tu abbia dovuto subire quello che hai subito.»
L’emozione mi serrò la gola. Era successo qualcosa di straordinario. Non solo David era uscito dalla mia lista dei nemici, ma quelle due parole, due paroline così semplici, erano come un faro luminoso in piena notte. Mi tremarono le dita sul telefono. Chiusi gli occhi e li strinsi forte, e una lacrima ne uscì. «Grazie... Grazie», sussurrai con la voce rotta.