33

La mattina dopo, nella doccia, l’acqua calda sferzò muscoli piacevolmente doloranti. Mi spostai sotto il getto e lo lasciai ricadere sul viso. La notte prima, tutta la notte, un largo sorriso mi era rimasto stampato in faccia. Era stato fantastico. Non solo il sesso – e il sesso era stato incredibile – ma tutto ciò che era successo dopo. Eravamo più uniti, e non era stato l’atto in sé a unirci.

Era stata la fiducia completa che nutrivamo l’uno nell’altra.

La porta della doccia scorse silenziosamente, aprii gli occhi e mi voltai mentre Cam entrava dietro di me. Completamente nudo. Abbassai gli occhi. Era duro.

Arrossii e incrociai timidamente le braccia sopra il seno. Sì, eravamo più uniti, ma non per questo era meno imbarazzante mostrargli la mia nudità sotto la luce intensa del bagno.

«Sei bellissima.» Mi tirò via le braccia. «E vuoi coprirti?»

«Non tutti abbiamo la fortuna di avere la tua autostima.»

«Già.» Mi passò il pollice sul capezzolo e poi mi baciò sull’angolo della bocca mentre le sue mani mi risalivano lungo le braccia. L’acqua mi scivolò giù per la schiena. «Mi sentivo solo, così ho pensato di raggiungerti.»

«Ti sentivi solo?» Feci un passo verso di lui.

«Sì.» Lasciò cadere le mani sulla mia vita e avanzò annullando la distanza tra noi. Alcune parti del mio corpo ne furono molto felici. «Ho ordinato la colazione. Abbiamo una ventina di minuti.»

«Venti minuti per diventare freschi e puliti?»

«Per quello ne bastano un paio.»

«E il resto di quei minuti?»

Non mi disse come voleva trascorrerli. Me lo mostrò... nel dettaglio. Mi baciò sulle labbra e poi si gettò con la bocca sul mio seno. Una sfera di lava rovente mi si formò nella pancia mentre lui mi faceva girare di lato e l’acqua continuava a scorrerci addosso. Abbandonandomi alle sensazioni, gli passai una mano sui capelli bagnati, che mi passarono tra le dita come seta. M’infilò una mano tra le cosce e riprese a baciarmi. Sapeva esattamente come toccarmi, come portarmi sull’orlo dell’estasi.

«Aspetta», ordinò.

Gli gettai le braccia al collo e sospirai quando mi tirò su appoggiandomi con la schiena alle piastrelle bagnate e s’infilò tra le mie gambe con un movimento dolorosamente lento. I miei gemiti riecheggiarono nel bagno mentre le sue anche spingevano ritmicamente, il cuore mi rimbombava in petto e la vibrazione si propagava allo stomaco.

Non so come ma ci ritrovammo fuori dalla doccia, la mia schiena sul pavimento freddo e Cam sopra di me, a dondolarci all’unisono, mentre le mie cosce lo stringevano e la doccia scorreva ancora. Una mano era sul mio petto, l’altra affondava nei miei capelli bagnati. La sua bocca era calda e avida, mi consumava.

«Cam!» gridai, inarcando la schiena mentre l’orgasmo mi scuoteva. Lui mi abbracciò e mi tirò su facendomi sedere in grembo. Le ginocchia mi scivolarono sul pavimento bagnato. Un fulmine mi saettò nelle vene. Anche lui tremò e con un’ultima spinta venne, affondandomi dentro.

Per un po’ l’unico suono fu il nostro respiro ansimante. Rilassati nelle braccia l’uno dell’altra, la mia testa sulla sua spalla, la mia mano sopra il suo cuore che batteva forte.

«Tu...»

«Sto bene. Non mi rompo», lo rassicurai ridacchiando.

«Non lo so.» Mi scostò i capelli dal viso. «Tu...» Lo interruppe qualcuno che bussava alla porta. «Merda, è arrivata la colazione.»

Mi divincolai e lui si alzò, tra le pozzanghere che avevamo lasciato sul pavimento, rischiando di scivolare. Per fortuna arrivò tutto intero alla porta. «Cam?»

«Che c’è?» Ruotò la testa verso di me.

Risi e gli gettai un asciugamano. «Stavi per aprire la porta con tutta la mercanzia all’aria.»

«Ah, brava.» Si avvolse l’asciugamano sui fianchi e mi sorrise malizioso. «Anche se a tutti piacerebbe vederla, la mia mercanzia.»

Risi e tornai sotto il getto tiepido della doccia. La sua mercanzia non era niente male, in effetti.




La casa di Molly si trovava in un quartiere residenziale, non lussuoso ma ordinato e pulito. Ci fermammo davanti a un piccolo ranch a un solo piano e controllai sul telefonino che fosse l’indirizzo giusto.

«È questa.»

Cam parcheggiò lungo il marciapiede, con un’espressione perplessa. «Sei sicura di volerlo fare?»

«Sì, glielo devo.»

Spense il motore. «Non le devi niente.»

Lo guardai. «Sì, invece. Non è che mi senta in colpa per quello che le è successo, ma se non le parlo non capirà mai perché non ho detto niente. E ho bisogno che lo capisca.» Perché mi sarebbe davvero piaciuto passare una settimana intera senza ricevere un messaggio d’insulti da lei.

Cam prese fiato e tolse le mani dal volante. «E ovviamente vuoi che io ti aspetti qui fuori?»

Annuii.

Sospirò. «Non mi piace.»

Mi sporsi a baciarlo sulla guancia. «Ma ti piaccio io.»

«Ti amo.» Mi posò una mano sulla nuca e portò la bocca alla mia. «Non per questo sono contento di stare seduto qui fuori mentre tu entri in casa di una tizia sconosciuta e forse psicopatica.»

«Non è psicopatica.»

«Lo dici tu.»

«Lo dico io.»

Piegò un angolo della bocca. «Se non esci tra cinque minuti entro io, col fucile spianato.»

«Non hai un fucile.»

«Questo lei non lo sa.»

Risi sommessamente. «Mi serviranno più di cinque minuti.»

«Sei.»

«Di più.»

«Non devi farlo per forza, tesoro.» Non risposi e lui fece un gemito. «Sette.»

«Sei ridicolo, non mi succederà niente.»

Sospirò di nuovo. «Va bene. Ti prego, sta’ attenta.»

«Sì.»

Prima che riuscissi a staccarmi da lui mi strinse più forte e mi baciò, piano all’inizio, poi con più forza e con la lingua, muovendola in modi che mi ricordarono ciò che aveva fatto la sera prima e quella mattina. Mugolai, e quando lui si staccò ansimavo.

Una scintilla maliziosa gli riempiva gli occhi azzurri. «Prima torni da me, prima ricomincio a farti questo.»

«Sei perfido.» Mi liberai, sorridente.

«Ti amo.»

Non mi sarei mai stancata di sentirglielo dire. «Ti amo anch’io.»

Scendere da quella macchina fu quasi impossibile, ma ci riuscii. I miei sandali battevano sul marciapiede dissestato mentre raggiungevo il portone. Ero sotto il sole del mattino da pochi secondi e avevo già la fronte sudata.

Alzai la mano per bussare quando la porta interna si aprì di colpo, rivelando una ragazza bassa e magra coi capelli neri e con grandi occhi grigi dall’espressione diffidente, che si posarono su di me e poi saettarono dietro la mia spalla. Era una ragazza carina, ma sembrava esausta, spossata.

«Chi è?» volle sapere.

Riconobbi subito la sua voce. «È Cam, il mio ragazzo.»

Fece una smorfia, come se avesse sentito un cattivo odore. «Lui non può entrare.»

«Lo so», la rassicurai subito. «Per questo è rimasto in macchina.»

L’espressione di Molly si fece irritata, tuttavia si scostò per farmi passare. Aprì la porta interna e la seguii nel salotto buio.

«È casa dei tuoi genitori?» Osservai le tante foto alle pareti e i mobili consunti dall’uso.

«Sì.» Entrò in salotto, spense il televisore e gettò il telecomando sul divano. «Sono al lavoro.»

«È bella.»

Fece un sorrisetto. «Disse la ragazza che veniva da Red Hill.»

Il sarcasmo non passò inosservato. Mi sedetti su una poltrona e incrociai le caviglie. «Okay. Sono contenta che tu abbia accettato d’incontrarmi.»

Molly restò in piedi a pochi passi da me. «Davvero?»

«Sì.»

Rise senza allegria. «Ne dubito, a giudicare dalla nostra ultima conversazione e dal fatto che hai passato circa nove mesi a ignorarmi.»

Okay, non sarebbe stato facile. «Non mi piace leggere e-mail di persone che non conosco, dopo aver ricevuto tante mail d’insulti al liceo. E poi c’è il fatto che mi hai mandato un mucchio di SMS non esattamente gradevoli.»

Lei incrociò le braccia e alzò il mento. «Sai perché te li ho mandati.»

«Perché all’inizio non ti rispondevo e perché mi ritieni colpevole.» Non rispose e io mi piegai in avanti. «Non mentivo quando ho detto che non sapevo niente di te prima di parlare con mio cugino, a gennaio. Non avevo letto le tue prime e-mail. Questa è la verità.»

Strinse le labbra. «Quindi vuoi ancora convincermi di non essere una puttana bugiarda?»

Espirai dal naso e la fissai. La rabbia mi ribolliva sottopelle, ma riuscii a mantenere la calma, come con mia madre il giorno prima. «Come ti ho detto al telefono, non ho mentito alla polizia.»

«Allora perché hai ritirato le accuse?» volle sapere.

«È una storia lunga.»

Allargò le braccia. «Come vedi ho tempo. Racconta.»

Quel tono arrogante mi faceva venir voglia di ribattere a tono, eppure decisi di raccontarle tutto su quella sera di Halloween e sui giorni successivi. La sua espressione rimase impassibile e fredda come quella di un vecchio poliziotto che ne ha viste tante. Trasalì solo una volta, per un istante, quando le rivelai cosa mi aveva fatto Blaine. Non ebbi bisogno di chiederglielo per sapere che aveva fatto lo stesso a lei. Alla fine si girò dall’altra parte, le spalle chine ma la schiena dritta.

«Non ho il permesso di dirlo a nessuno, ma dovevo dirlo a te.»

«Lo hai detto al tuo ragazzo?»

«Sì.»

Continuò a darmi le spalle e restò in silenzio.

«Vorrei tanto che i miei genitori non avessero accettato l’accordo, e vorrei non averlo fatto neanch’io. Vorrei essere forte come te, e...»

«Tu non sai niente di me.» Si voltò di scatto. I suoi occhi erano del colore del granito e avevano la stessa inflessibilità.

Alzai le mani. «Ma so che sei forte... più forte di me. Hai fatto la cosa giusta e immagino che non sia stato facile.»

«Non lo è stato, infatti.»

«Lo so.» Sembrava che volesse polemizzare per il gusto di farlo.

Il suo mento affilato si tese in avanti. «Niente è stato facile. Parlare con la polizia... e poi con gli avvocati. Dover ripetere nel dettaglio ogni cosa disgustosa che mi aveva fatto. No, non è stato facile. E non avrei dovuto farlo, se tu avessi continuato a dire la verità!»

«Mi dispiace...»

Si mosse così in fretta, e io ero così impreparata, che non ebbi il tempo di reagire.

Molly mi schiaffeggiò, facendomi ruotare la testa. Lacrime di dolore e sorpresa mi salirono agli occhi.

Mi aveva dato uno schiaffo in faccia.

Quasi non riuscivo a crederci. La guancia mi bruciava, doleva. Accidenti, per essere così magra era forte.

L’ira ebbe la meglio sullo sconcerto e mi formicolarono le mani per la voglia di restituirle lo schiaffo. Ma capivo la sua rabbia. Il suo dolore era ancora così fresco, affilato come un rasoio. Ero stata nei suoi panni, ci tornavo ancora ogni tanto. La rabbia non se n’era mai andata del tutto. Forse non se ne sarebbe andata mai. Quindi capivo perché era così furiosa.

Era uno dei motivi per cui non le avevo ancora sferrato un pugno.

«Te lo meritavi», disse. Le tremava la voce.

Mi pizzicava ancora la guancia quando mi alzai. «Forse sì. Ma non meritavo ciò che Blaine mi ha fatto, e non merito tutto il tuo odio per una decisione che ho preso a quattordici anni e in cui ho avuto ben poca voce in capitolo.»

«I tuoi genitori non ti hanno puntato una pistola alla testa per farti firmare quei documenti, vero?»

Scossi la testa. «Cosa avresti fatto tu se, a quattordici anni, i tuoi avessero preteso che lo facessi?»

Aprì la bocca.

«Non rispondere, perché non importa. Mi dispiace, ma se mi picchi di nuovo reagirò. Mi dispiace che ti sia successa questa cosa. E mi dispiace che tu debba andare in tribunale e tutto il resto. E, credimi, la cosa che mi dispiace di più è aver firmato quei cazzo di documenti. Ma questo non posso cambiarlo. Posso solo lasciarmelo alle spalle.»

«Be’, divertiti a lasciartelo alle spalle.»

Restai lì a fissare la ragazza con cui avevo in comune una cosa terribile, e mi sentii... vuota. Non c’erano angeli a suonare la tromba, né luci dorate ad annunciare una rivelazione. Mi sentii come mi ero sentita uscendo da casa dei miei genitori. Non provavo niente. In un istante seppi che Cam aveva ragione. Non c’era bisogno di andare da Molly per lasciarmi il passato alle spalle. Non era neppure necessario che parlassi coi miei genitori. Ma ne avevo tratto una grande soddisfazione.

Avevo iniziato a guarire nel momento in cui avevo raccontato la verità a Cam.

Solo che non era successo da un giorno all’altro. Il processo era stato lento, e per accorgermene mi ci era voluto uno schiaffo in faccia.

Non ero tenuta a restare in quella casa.

Dovevo andare là fuori, con Cam, e tornare nel West Virginia, dai miei amici. Dovevo continuare a seppellire il passato.

Mi avviai verso la porta.

«Dove vai?» Le sue dita ossute mi affondarono nel braccio, fermandomi. «Avery?»

Me la scrollai di dosso e mantenni un tono di voce calmo. «Me ne vado, Molly. Torno là fuori da un uomo che mi ama nonostante il mio passato e le decisioni stupide che ho preso. Torno a casa mia, che non è la casa di Red Hill, e torno dai miei amici. Ecco dove vado.»

Molly cercò di dire qualcosa, ma non ci riuscì.

Alla porta mi fermai e mi voltai verso di lei. «Senti, se vuoi telefonarmi per parlare, hai già il mio numero. Chiama quando vuoi, ma ho imparato dai miei errori. Se mi mandi altri messaggi che mi fanno incazzare anche solo un po’, chiamo la polizia e ti denuncio.»

Lei chiuse la bocca di scatto e io feci un passo indietro.

«Ti auguro ogni bene, sinceramente. Addio, Molly.»

Non mi fermò e non mi seguì come aveva fatto mio padre. Salii in macchina, al fresco dell’aria condizionata, e sospirai.

«Come... Perché hai la guancia rossa?» Cam mi prese per il mento e mi girò lentamente verso di sé. «Ti ha dato uno schiaffo?»

«Sì.» Rabbrividii alla sua imprecazione violenta. «Ma penso che dopo essersi sfogata si sia sentita meglio.»

Socchiuse gli occhi. «Non per questo è accettabile, cazzo.»

«Lo so.» Gli strinsi la mano e me la premetti sulla guancia dolorante. «Comunque è finita. Ho detto quel che avevo da dire e non penso che la sentirò più.»

Cam aprì la mano e mi accarezzò la guancia. «Avery...»

«Avevi ragione. Non avevo davvero bisogno di farlo, ma sono contenta di averlo fatto. Sono in pace con me stessa.» Chiusi gli occhi e gli baciai la mano. «Portami a casa, Cam. È là che devo andare.»