«Il tuo appartamento è molto carino», disse Brittany, seduta sul mio divano. Teneva sulle ginocchia un libro di storia aperto, ma non leggeva. «Mi piacerebbe non dover vivere in dormitorio. La mia compagna di stanza russa come una motosega.»
Indugiai impacciata tra il tavolino e il televisore, senza capire bene in che modo Brittany e Jacob fossero finiti a casa mia dopo le lezioni. A pranzo avevamo deciso di vederci per confrontare gli appunti di storia e, non so come, si era scelta casa mia per l’appuntamento. Credo che l’idea fosse stata di Jacob, e tutti e tre insieme non stavamo studiando affatto.
Un’energia ansiosa mi vibrava in petto come un colibrì. Era tanto tempo che non invitavo qualcuno a casa. Giù in Texas venivano solo i parenti, e soltanto la donna delle pulizie poteva entrare in camera mia. Ero un’emarginata in città, a scuola, e anche a casa mia. Fino al giorno di quella festa di Halloween venivano tutti a trovarmi, soprattutto le compagne del corso di danza. All’epoca tutti mi rivolgevano la parola, e io ballavo ancora. Prima di quella festa le cose erano normali.
Giocherellai col bracciale, nervosa. Ero contenta che Jacob e Brittany fossero lì, perché mi ricordava la vita di prima. Era ciò che facevano i ragazzi del college, ma era così... strano per me.
Jacob uscì dalla cucina con le patatine. «Lascia stare l’appartamento. Non mi fraintendere, è un bell’appartamento, ma voglio saperne di più sui biscotti di Cam.»
Presi una patatina dal sacchetto. «Non avrei mai dovuto raccontartelo.»
«Ormai lo hai fatto», rispose lui con la bocca piena.
Brittany sghignazzò. «Muoio dalla voglia di sapere cosa significano i biscotti.»
«Probabilmente il suo cazzo.» Jacob si lasciò cadere sul bracciolo del divano.
«Oddio», esclamai prendendo una manciata di patatine. Mi serviva l’energia delle calorie per proseguire quella conversazione.
Brittany annuì. «Allora torna tutto. Insomma, il fatto che non voglia dividere i biscotti con le ragazze brutte.»
«Non penso che volesse dire quello», insistetti, mangiando un’altra patatina. «Allora, tornando agli appunti di storia...»
Jacob subito m’interruppe: «’Fanculo la storia, torniamo al cazzo di Cam. Perché sai, se effettivamente intendeva dire quello, significa che il suo cazzo è stato nella tua bocca».
Mi strozzai con la patatina, divenni paonazza e mi tuffai sulla lattina di Coca.
«Teoricamente parlando, insomma», aggiunse Jacob con un sorrisetto malizioso. Scattò in piedi. «Non so come ci riesci, Avery. Se io gli vivessi di fronte, starei appiccicato alla sua porta da mattina a sera. E ai suoi biscotti. Mmm.»
«Puoi tenerteli, i suoi biscotti», dissi, liquidando la faccenda con un gesto della mano.
«Oh, dolcezza, se lui giocasse nella mia squadra gli sarei già saltato addosso.»
Brittany alzò gli occhi al cielo. «Sai che sorpresa!»
«Quel che non capisco è come mai non ti sei ancora tuffata sui suoi biscotti.»
Aprii la bocca, ma Brittany scosse la testa e disse: «Non penso che i biscotti significhino il cazzo. Forse sono le palle, essendo al plurale».
Jacob scoppiò a ridere. «In tal caso, sempre teoricamente parlando, significa che le sue palle sono state nella tua bocca! Accidenti, che sporcacciona.»
Li fissai entrambi. La gente normale faceva conversazioni del genere? «Sentite, per cortesia, possiamo smettere di parlare del suo cazzo e delle sue palle? Altrimenti non riuscirò più a mangiare un biscotto in vita mia.»
«No, dico sul serio. Come mai non gli sei ancora saltata addosso?» Jacob si arrampicò sullo schienale del divano come un gatto gigante. «È chiaro che ci sta provando con te.»
«Okay», ribattei, sperando di riuscire a mangiare un’altra patatina senza strozzarmi.
Jacob restò a bocca aperta. «Okay?»
Brittany richiuse il libro di storia e lo lasciò cadere a terra con un tonfo. Addio serata di studio, mi dissi. «Jacob è come una trentacinquenne in astinenza da sesso, quindi non può capire perché non vuoi farti un giro col latin lover dell’ateneo.»
Guardai Jacob, che fece spallucce e disse: «Vero».
Brittany riprese: «Anch’io faccio fatica a capirti. Cameron è davvero bello. E non ho mai sentito altre ragazze parlar male di lui, quindi deve trattarle bene».
Non sapendo cosa rispondere, affondai sulla poltroncina nera accanto al televisore. Non potevo certo rivelare il vero motivo. «Non lo so, semplicemente non m’interessa.»
«Hai delle ovaie?» chiese Jacob.
Gli scoccai un’occhiataccia. «Sì.»
Lui si lasciò scivolare giù dallo schienale e si sedette sul divano accanto a Brittany. «Allora perché non t’interessa?»
Infilai in bocca le ultime patatine e cercai di rispondere senza fare la figura della bigotta frigida. Ma io ero una bigotta frigida, no? O una ragazza traumatizzata, dipende dai punti di vista. In ogni caso, benché l’idea degli organi sessuali maschili non mi lasciasse indifferente, il pensiero di entrarci in contatto diretto mi dava i sudori freddi.
E in quel momento stavo sudando. Le patatine mi davano già l’acidità di stomaco. Avrei dovuto prendere un Alka-Seltzer. La mia mente andò dritta all’e-mail della sera prima.
Bugiarda.
Mi asciugai le mani sui jeans e scossi la testa. «È solo che non sono interessata a una relazione.»
Jacob rise. «Non stiamo dicendo questo, sai? Non c’è bisogno di avere una relazione per fare un po’ di sano ’zum zum’.»
Brittany si voltò lentamente verso di lui. «Lo hai detto davvero?»
«L’ho detto e lo ribadisco. Mi ci farò stampare una maglietta.» Jacob sorrise. «Comunque, sto solo dicendo che Cam è un’occasione da non lasciarsi sfuggire.»
«Ma di cosa stiamo parlando? Frequentiamo insieme solo un corso e lui abita davanti...»
A questo punto intervenne Brittany: «E siete in coppia per il resto del semestre. È una cosa romantica, uscire insieme di notte a guardare le stelle».
Mi si strinse lo stomaco. «Non è romantico. Niente è romantico.»
Lei inarcò le sopracciglia e si passò una mano tra i corti capelli biondi. «Ciao, Avery l’Avvilita.»
La guardai con sufficienza. «Dico solo che non lo conosco, e lui non conosce me. E sta soltanto flirtando. L’hai detto tu stessa che va con tutte. Probabilmente è fatto così, è un ragazzo gentile ed estroverso, tutto qui. Possiamo cambiare argomento, per favore?»
«Sì, che voi due mi annoiate da morire», disse Jacob, e Brittany gli fece la linguaccia. Le osservai il piercing sulla lingua e immaginai che doveva essere stato molto doloroso. «E ho bisogno di un po’ di salsa con queste patatine.»
«Nel pensile in basso», gridai, ma lui era già in cucina ad aprire sportelli a caso.
Con mio grande sollievo smettemmo di parlare di me e del mio inesistente rapporto con Cam. Col passare delle ore iniziai a sentirmi più a mio agio all’idea di averli in casa mia, e per qualche istante sfogliammo persino i libri di storia. Erano quasi le nove quando i due radunarono le loro cose e si diressero alla porta.
Brittany si fermò e mi colse alla sprovvista con un rapido abbraccio e un bacio sulla guancia. Restai inebetita. Lei mi sorrise. «Venerdì sera c’è una grande festa in una delle confraternite. Dovresti venire.»
Ricordai che Cam aveva detto di avere impegni per venerdì e, siccome era evidente che gli piacevano le feste, probabilmente sarebbe andato là. Scossi la testa. «Non lo so.»
«Non fare l’asociale. Siamo gente figa con cui uscire», disse Jacob, aprendo la porta.
Risi. «Lo so. Ci farò un pensierino.»
«Va bene.» Brittany salutò con la mano. «Ci vediamo domani.»
Sul pianerottolo, Jacob iniziò ad ancheggiare indicando la porta di Cam. Mi morsi il labbro per smettere di ridere. Andò avanti così finché Brittany non lo agguantò per il colletto della polo trascinandolo giù per le scale.
Sorridendo, richiusi a chiave la porta. Non ci misi molto a rimettere in ordine l’appartamento e a prepararmi per andare a letto. Però non avevo sonno e, poiché evitavo il computer per non leggere le e-mail, finii per guardare le repliche di Cacciatori di fantasmi finché non mi convinsi che c’era un poltergeist nel mio bagno. Spensi la tivù, mi alzai dal letto e mi misi a fare una cosa che odiavo.
Camminare su e giù per l’appartamento, come facevo nella mia vecchia camera. Con la televisione spenta e la casa immersa nel silenzio, sentivo anche il minimo rumore degli appartamenti vicini. Cercai di liberare la mente dai brutti pensieri, perché avevo passato una bella serata e non volevo rovinarla. Gli ultimi due giorni erano stati splendidi, a parte quando ero andata a sbattere contro Cam. Le cose si mettevano bene.
Mi fermai dietro il divano, e solo allora mi resi conto di cosa stavo facendo.
Abbassai gli occhi: la manica della camicia era tirata su e le mie dita erano avvolte intorno al polso sinistro. Lentamente, con gesti meticolosi, sollevai le dita l’una dopo l’altra. C’erano leggeri solchi rosati nei punti in cui il bracciale premeva sulla pelle. Da cinque anni lo toglievo solo per dormire e per fare la doccia. Quei solchi probabilmente non sarebbero più andati via.
Proprio come la cicatrice dai contorni irregolari che il bracciale nascondeva.
Tolsi la mano. I cinque centimetri della cicatrice scorrevano al centro del polso, sopra la vena. Era un taglio profondo, fatto con una scheggia di vetro del portaritratti che avevo rotto dopo che la prima foto era circolata a scuola.
Mi ero fatta quel taglio nel momento più brutto della mia vita, e facevo sul serio. Avrei avuto una cicatrice identica sul polso destro, se la donna delle pulizie non mi avesse sentito infrangere il vetro.
La foto ritraeva me e la mia migliore amica, la stessa migliore amica che era stata tra i primi a voltarmi le spalle e a sussurrare parole come «puttana» e «bugiarda».
Quel giorno volevo farla finita. Volevo andarmene e basta, perché in quel momento per me non esisteva niente di peggio di quel che mi era successo, quello che i miei genitori avevano accettato, e le relative conseguenze. Nel giro di pochi mesi la mia vita si era spaccata in due tronconi dai bordi frastagliati: il prima e il dopo. Non riuscivo a immaginare un dopo, dato che l’intera scuola si era schierata con Blaine.
E ora? Il dopo sembrava interminabile ma, mentre guardavo la cicatrice, la vergogna mi ardeva nel ventre come il fuoco sotto le ceneri. Il suicidio non è mai la risposta, e anzi avrebbe significato dargliela vinta, a tutti quanti. Avevo imparato la lezione, e da sola: perché di terapia non si era mai parlato. I miei genitori avrebbero preferito amputarsi le gambe piuttosto che patire l’imbarazzo di una figlia che aveva tentato il suicidio e aveva bisogno di uno psicologo. Altri soldi erano passati di mano per tenere sotto silenzio le mie visite pomeridiane in ospedale.
A quanto pareva, per i miei genitori era meno grave avere una figlia etichettata come puttana e bugiarda.
Detestavo vedere la riprova fisica della mia debolezza, e mi sarei sentita profondamente umiliata se qualcuno l’avesse vista.
Un improvviso scoppio di risa provenne dal pianerottolo: era la risata di Cam. Girai la testa verso la cucina. L’orologio sopra il forno segnava quasi l’una del mattino.
Tirai giù la manica.
«Non puoi disdire per venerdì sera?» chiese una voce femminile, smorzata dalla parete.
Seguì una pausa e poi Cam disse: «Lo sai che non posso, tesoro. Magari la prossima volta».
Tesoro?! I loro passi si mossero verso la ringhiera delle scale.
Girai di corsa intorno al divano, raggiunsi la finestra. Siccome il mio appartamento era all’angolo del palazzo e affacciava sul parcheggio, non mi rimaneva che aspettare. Ed eccoli lì, Cam a petto nudo e una ragazza.
Una bruna molto alta, con le gambe lunghe, fasciata in una bella gonna di jeans. Dalla finestra non riuscivo a vedere altro. La ragazza inciampò ma ritrovò l’equilibrio prima che Cam potesse intervenire. Si fermarono dietro una berlina scura. Mi sentivo una ficcanaso, ma non potevo fare a meno di sbirciare.
Cam disse qualcosa e rise quando la ragazza lo spintonò scherzosamente. Un istante dopo si abbracciarono, poi lui fece un passo indietro e la salutò con la mano prima di rientrare nel palazzo. A metà strada alzò lo sguardo al nostro piano e io mi tirai indietro di scatto come un’idiota. Non poteva vedermi, le luci nel mio appartamento erano spente.
Risi di me stessa e poi tacqui quando la porta sbatté sul pianerottolo.
Il sollievo m’invase, rilassando ogni muscolo. Vederlo con un’altra ragazza... mi aveva fatto bene. Mi aveva confermato che Cam era un ragazzo affascinante ma innocuo, che amava regalare biscotti alle belle ragazze e aveva una tartaruga di nome Raffaello. Così andava bene. Era gestibile. Potevo cavarmela, perché invece quel che suggerivano Brittany e Jacob mi metteva a disagio.
Forse io e Cam saremmo diventati amici. E ne sarei stata felice, perché era bello avere più amici di prima.
Ma, mentre giacevo sveglia nel letto a fissare il soffitto, per un istante, un istante brevissimo, mi chiesi cosa sarebbe successo se Cam fosse stato interessato a me in quel senso. Come mi sarei sentita di fronte a una cosa del genere? Mi sarebbe girata la testa ogni volta che lui mi avesse guardato o quando le nostre mani si fossero sfiorate per caso? Mi domandai cosa avrei provato se fossi stata interessata a lui o a qualsiasi altro ragazzo. Gli appuntamenti, i primi baci e tutto quello che veniva dopo. Sarebbe stato bello, mi risposi. Sarebbe stato come prima.
Prima che Blaine Fitzgerald mi portasse via tutto quanto.
Giovedì mattina le nuvole erano cariche di pioggia. Per fortuna avevo solo due lezioni, quindi prima di uscire m’infilai una felpa col cappuccio sopra la maglietta. Pensai di cambiarmi anche i pantaloncini e le infradito di gomma, ma decisi che ero troppo pigra.
Scrissi un SMS a Jacob per chiedergli se aveva voglia di un caffè prima della lezione di arte, chiusi l’appartamento e arrivai in cima alle scale quando dalla porta di Cam uscì un ragazzo che si stava infilando una maglietta. Quando dal colletto spuntò una testa dai capelli biondi e spettinati, lunghi fino alle spalle, lo riconobbi: era lo stesso che avevo visto con la tartaruga di Cam, il suo coinquilino.
Quando i nostri sguardi s’incontrarono, sul suo viso abbronzato si schiuse un sorriso bianchissimo. «Ehi, ma io ti ho già vista!»
Lanciai uno sguardo oltre le sue spalle. Aveva lasciato la porta spalancata. «Ehi, tu sei... Mr Tartaruga.»
Sembrò confuso. I suoi sandali battevano rumorosamente sul pavimento. «Mr Tartaruga? Ah, sì.» Rise, e gli si formarono rughette intorno agli occhi castani. «Mi hai visto con Raffaello, giusto?»
Annuii. «E mi pare che ti chiamassi Señor Coglione.»
Con un’altra grassa risata mi raggiunse sulle scale. «Quello è il mio nome di quando bevo. Per il resto del tempo sono noto come Ollie.»
«Suona meglio di Señor Coglione.» Sorrisi. Eravamo al pianerottolo del quarto piano. «Io sono...»
«Avery.» Vedendomi sgranare gli occhi sorrise. «Me lo ha detto Cam.»
«Oh. Allora, ehm... stai andando a...»
«Ehi, cretino, hai lasciato la porta aperta!» La voce di Cam risuonò per le scale e un attimo dopo comparve sul pianerottolo sopra di noi, con in testa un berretto da baseball nero. Quando ci vide sfoderò il suo sorriso sghembo e corse giù per raggiungerci. «Ehi, che ci fai con la mia ragazza?»
La mia ragazza? Cosa? Rischiai d’inciampare.
«Le stavo spiegando che ho due nomi.»
«Ah, sì?» Cam mi posò un braccio sulle spalle, e una delle mie infradito s’incastrò nell’altra. Lui mi cinse col braccio tirandomi a sé. «Ehi, tesoro, ti avevo quasi persa.»
«Ma guardati!» Ollie saltellò giù per le scale. «Fai inciampare le ragazze.»
Cam sghignazzò e si girò il cappellino con la visiera sulla nuca. «Non posso farci niente, è il mio fascino magnetico.»
«O magari è perché puzzi. Mi pare di non aver sentito scorrere la doccia stamattina», ribatté Ollie.
Cam si finse scandalizzato. «Puzzo, Avery?»
«Hai un buon odore», mormorai, sentendomi arrossire. Era la verità, però. Profumava: una miscela di lenzuola pulite, colonia leggera e qualcos’altro, probabilmente il suo odore naturale. «Insomma, non puzzi.»
Lui mi guardò un po’ troppo a lungo. «Vai a lezione?»
Stavamo scendendo le scale, e lui mi teneva ancora il braccio sulla spalla e tutto quel lato del mio corpo mi formicolava, come intorpidito. Era così... disinvolto, come se quel gesto non significasse niente per lui, e probabilmente era così: ricordai come aveva abbracciato la ragazza la sera prima. Ma per me era...
Non trovavo le parole.
«Avery?» Cam abbassò la voce.
Mi divincolai e il sorriso di Ollie si allargò. Scesi di qualche gradino: avevo bisogno di allontanarmi. «Sì, sto andando ad arte. E voi?»
Cam mi raggiunse subito al terzo piano. «Andiamo a fare colazione. Dovresti venire con noi, invece di andare a lezione.»
«Credo di aver saltato abbastanza lezioni per questa settimana.»
«Io la salto, invece Cam non ha lezioni fino al pomeriggio, quindi è un bravo ragazzo», precisò Ollie.
«E tu sei un ragazzo cattivo?» gli chiesi.
Il sorriso di Ollie era contagioso. «Oh, pessimo.»
Cam gli scoccò un’occhiata. «Sì, pessimo in ortografia, matematica, inglese, pulizie domestiche, rapporti interpersonali... e potrei continuare.»
«Ma sono bravo nelle cose che contano.»
«E quali sarebbero?» chiese Cam mentre uscivamo dal palazzo. Fuori, l’aria aveva un leggero odore di umidità e le nuvole sembravano rigonfie d’acqua.
Ollie ci oltrepassò correndo e si voltò a guardarci camminando all’indietro, ignorando il pick-up rosso che cercava di fare retromarcia. Alzò una mano abbronzata e iniziò a contare con le dita. «Bere, socializzare, andare sullo snowboard, giocare a calcio... Ricordi quello sport, Cam? Il calcio?»
Il sorriso svanì dal volto di Cam. «Sì che me lo ricordo, stronzo.»
Ollie rise e si voltò dirigendosi verso il pick-up argento. Osservai Cam, incuriosita. Guardava dritto davanti a sé, la mandibola serrata e gli occhi di ghiaccio. Infilò le mani nelle tasche dei jeans e disse: «Ci vediamo in giro, Avery».
Raggiunse Ollie al pick-up. Avrei giurato che la temperatura fosse calata in contemporanea all’improvvisa freddezza di Cam. Non c’era bisogno di essere dei geni per capire che Ollie aveva toccato un tasto dolente e che Cam non era dell’umore giusto per spiegare.
Rabbrividendo, corsi alla mia macchina e salii appena in tempo, perché dopo un istante sul parabrezza cadde un’enorme goccia. Mentre facevo retromarcia lanciai un’occhiata al pick-up. I due ragazzi erano accanto al cassone sul retro, Ollie sorrideva e Cam parlava con la stessa espressione scostante. Qualsiasi cosa stesse dicendo all’amico, non era di buonumore.