Non sapevo proprio come avessi fatto a lasciarmi convincere da Cam ad andare con lui invece di prendere due macchine, ma sabato sera, la sera dell’esercizio di astronomia, appena prima del tramonto mi ritrovai a salire sull’enorme pick-up argento. Avevo lo stomaco attorcigliato fin da venerdì sera, quando Jacob aveva iniziato ad assillarmi per la festa cui doveva andare con Brittany. Anche se ci volevo andare, non ero riuscita a decidermi. Non avevo idea di dove fosse la casa, era tardi quando lui mi aveva invitata via SMS, e nel frattempo era scoppiato un altro temporale.
E in quel momento ero nervosa come un topo in una stanza piena di gatti famelici. È imbarazzante ammetterlo, ma non ero mai stata in macchina con un ragazzo. Dio, com’ero patetica! Mi sarei portata quel segreto nella tomba.
Cam infilò le chiavi nel quadro e mi guardò. Si era rimesso il cappellino da baseball girato all’indietro, gli occhi azzurri scintillavano sotto le ciglia folte. «Pronta?»
Annuii, stringendomi nel cardigan leggero. Quando lo avevo visto a lezione di astronomia la mattina precedente, era quello di sempre: scherzava, faceva il galante e offriva biscotti. Speravo che si fosse chiarito con Ollie. «Sei sicuro che non possiamo restare qui nei paraggi?»
«Ho in mente il posto perfetto. Non ti condurrò mai sulla cattiva strada, tesoro.»
«Va bene», mormorai, stringendo forte le mani. Guardai sfilare il campus dal finestrino e poi attraversammo il ponte ed entrammo nel Maryland.
Un quarto d’ora dopo, Cam imboccò la strada che portava al centro visitatori del campo di battaglia di Antietam. L’appassionata di storia che è in me non stava nella pelle dalla contentezza, ma ero troppo nervosa al pensiero di trovarmi là con Cam dopo il tramonto. Non sembrava il tipo che ci prova, ma di una cosa ero certa: in quelle situazioni non importa che tipo sembri. Ero un fascio di nervi.
«Sei sicuro che si possa venire qui di notte?» chiesi, guardandomi intorno.
«No.» Parcheggiò. C’erano pochissime altre auto.
Lo fissai. «Cosa?»
Rise mentre spegneva il motore. «Scherzo. Dobbiamo solo dire a uno dei ranger che siamo dell’università. Non ci faranno storie.»
Lo speravo. Essere cacciata da un monumento storico non rientrava nella mia lista di cose da fare prima di morire.
Tuttavia, dopo aver scoccato una rapida occhiata a Cam, intuii che per lui non sarebbe stato un problema.
«Ci sei?»
Recuperai la borsa dal pianale del pick-up e aprii la portiera. «Sì, togliamoci il pensiero.»
Cam sogghignò e prese una torcia dal cassetto del cruscotto. «Mi raccomando, non emozionarti troppo.»
Sfoderai un sorriso. «Non temere.»
«Non dire bugie.» Girò intorno al cofano e mi raggiunse, indicando una torre in muratura col tetto rosso. «È lì che dobbiamo andare.»
«La torre del Bloody Lane, il ’viottolo insanguinato’?»
Mi guardò. «Sei già stata qui?»
«No.»
«Allora come fai a sapere cos’è il Bloody Lane?»
Accennai un sorriso e mi rigirai tra le dita una ciocca di capelli. «Voglio laurearmi in storia, perciò questi posti mi piacciono. Ho letto qualcosa. La battaglia più cruenta della guerra si è svolta su quella stradina sterrata.»
«Già, così dicono. Aspetta un attimo.» Si voltò verso un ranger che stava attraversando il campo. «Torno subito.»
Lo osservai mentre raggiungeva il ranger, che si era fermato ad aspettarlo. Si scambiarono qualche parola e poi Cam gli mostrò il suo quaderno. L’uomo rise e si strinsero la mano. Alzando la testa notai le prime stelle nel cielo blu scuro. Ancora pochi minuti e sarebbe scesa la notte.
Presi un profondo respiro ed espirai lentamente.
Cam tornò da me a lunghi passi. «Possiamo andare. E non siamo soli: dall’altra parte della torre ci sono altri studenti.»
«Bene.» Camminai al suo fianco, ma a debita distanza. «Perché vengono tutti qui a guardare le stelle? Ci saranno altri posti più vicini al campus.»
«Non come questo. Guardati intorno.» S’infilò la torcia elettrica nella tasca posteriore. «A parte le case dall’altra parte della strada, non ci sono lampioni né palazzi. C’è soltanto il cielo.»
«E i campi di granturco», aggiunsi.
Lui annuì. «Molti campi di granturco.»
Arrivammo sulla strada lastricata e ci avviammo verso la torre. «Quanto pensi ci vorrà?» chiesi.
«Perché, devi uscire con qualcuno stasera?»
Scoppiai a ridere. «Ehm, no.»
Lui inarcò un sopracciglio. «Lo dici come se fosse assurdo. Come se nessuno uscisse per un appuntamento di sabato sera.»
Lasciai ricadere la ciocca di capelli con cui giocherellavo e scrollai le spalle ostentando disinvoltura. «Non mi vedo con nessuno.»
«Allora che fretta hai?»
Ammettere che mi sentivo molto a disagio in quel posto sarebbe stato imbarazzante e maleducato, quindi rimasi in silenzio.
«Temi che ti abbia portata qui per i miei loschi intenti?»
Mi fermai di colpo, con lo stomaco sottosopra. «Cosa?»
Cam si girò verso di me. Il suo sorriso iniziò a spegnersi. «Ehi, Avery, sto scherzando. Giuro.»
Le guance mi s’infiammarono e il nodo allo stomaco si sciolse, rimpiazzato da un forte senso d’inadeguatezza. «Lo so. È solo che sono...»
«Nervosa?»
«Ecco, sì.»
Mi scrutò per un altro momento, poi riprese a camminare. «Vieni, tra poco farà buio.»
Seguendolo, m’immaginai mentre correvo dritta verso le vecchie staccionate di legno e m’impalavo su uno spunzone appuntito. Dovevo darmi una calmata. Non tutti i ragazzi erano come Blaine. Lo sapevo. Lo capivo. Non ero stata irreparabilmente traumatizzata.
Dall’altra parte della torre, vicino alle targhe commemorative, due studenti del nostro corso di astronomia sedevano su una panchina coi quaderni in grembo. Ci salutammo con la mano, poi Cam proseguì per un altro tratto dell’ampio parcheggio e deviò verso il colle erboso che affacciava sul viottolo insanguinato.
Scelse il punto migliore e tirò fuori la torcia prima di sedersi. Io restai qualche passo indietro, ad ascoltare il frinire dei grilli. Il terreno si era asciugato dopo la pioggia del giorno prima, ma anche se fosse stato bagnato mi sarei seduta lo stesso. Ero troppo agitata.
«Mi raggiungi?» Cam piegò la testa di lato e batté la mano a terra accanto a sé. «Per favore! Mi sento solo, quaggiù.»
Mi morsi il labbro e mi sedetti a un metro e mezzo da lui, poi mi tenni occupata cercando il quaderno di astronomia. Mentre lo estraevo i nostri occhi s’incontrarono. Non riuscii più a distogliere lo sguardo. «Intenso» fu la prima parola che mi venne in mente. Il suo sguardo era intenso, come se riuscisse a scrutarmi dentro.
Mi schiarii la gola e mi concentrai sul quaderno. Alla fine fu Cam a parlare. «Quale costellazione dobbiamo mappare?»
Reggeva la torcia mentre io consultavo gli appunti. «Mmm, qua c’è scritto Corona Borealis.»
«Ah, la Corona Boreale.»
Gli lanciai un’occhiata sorpresa. «La conosci?»
Rise. «Non prendo appunti, però sto attento a lezione.»
Ero sicurissima che non avesse ascoltato nulla durante la lezione di mercoledì. Tirai fuori il diagramma preparato per noi dal professor Drage e poi la mappa del cielo, e trovai la Corona Boreale. «Non capisco proprio come faccia la gente a vedere disegni nelle stelle.»
«Davvero?» Si avvicinò a guardare da dietro la mia spalla. «I contorni sono ben definiti.»
«Non per me. Insomma, è solo un mucchio di stelle in cielo. Probabilmente puoi vederci quello che vuoi.»
«Osserva meglio la Boreale.» Picchiettò un dito sulla mappa. «È chiaramente una corona.»
Risi. «Non somiglia a una corona. È un semicerchio irregolare.»
Scosse la testa. «Ora si vede bene. È una corona, dai, guarda le sette stelle!»
Gettai indietro la testa e tirai fuori una penna dalla borsa. «Vedo le sette stelle, ma ne vedo anche un altro centinaio. Vedo pure il mostro di Lochness.»
Cam scoppiò a ridere. Era un suono piacevole, squillante. «Sei ridicola.»
Sorrisi e restai con la penna a mezz’aria sul diagramma. Non sapevo bene da quale latitudine partire. Alzai lo sguardo sulla Boreale e tracciai una riga unendo due puntini, in quella che avrebbe dovuto corrispondere alla posizione delle stelle in cielo.
«Sai da dove viene il nome?» Vedendo che scuotevo la testa mi strappò la penna. Le sue dita sfiorarono le mie e io ritrassi la mano, posandola sull’erba folta. «Rappresenta la corona donata dal dio Dioniso ad Arianna. Quando si sposarono, Dioniso tramutò in costellazione il diadema di nozze.»
Lo fissai. «Il professor Drage non ce l’ha detto, questo.»
«Lo so.»
Mi appoggiai all’indietro e lo osservai. «Allora come fai a saperlo?»
«Perché, tu non lo sapevi?»
Lo guardai incredula.
«Va bene. Forse sono in pochi a saperlo.» Fece ruotare la mia penna tra le dita. «In realtà quando ero matricola ho seguito una parte di questo corso, ma poi ho dovuto abbandonarlo.»
«Davvero?»
Annuì, non aggiungendo altro.
«Sei al terzo anno, giusto?»
«Sì. Ho preso un anno di pausa e sono rimasto indietro.»
Sebbene morissi dalla voglia di chiedergli il motivo, decisi che non erano affari miei. «Perché hai ricominciato a frequentare il corso?» Mi sembrava un argomento inoffensivo. «Vuoi laurearti in astronomia?»
«No, è solo che mi piace la materia e mi sta simpatico il professor Drage.» Fece una pausa e spense la torcia. «Mi laureerò in educazione fisica. Vorrei lavorare nella riabilitazione sportiva.»
«Oh, avevi...» M’interruppi perché la ragazza dietro di noi era scoppiata a ridere. Mi guardai alle spalle e rimasi sbigottita.
I nostri due compagni di corso erano decisamente una coppia, o stavano per diventarlo. I loro quaderni giacevano dimenticati sulla panchina. Lei gli sedeva in grembo, i loro volti erano a pochi millimetri di distanza e la mano di lui le s’insinuava sotto la gonna.
«Questo sì che è un modo interessante di guardare le stelle», commentò Cam.
Ero grata che fosse buio, perché iniziai ad arrossire. Sapevo che avrei dovuto voltarmi, perché fissavo quei due come una squilibrata, ma non ci riuscivo. Neppure quando la mano della ragazza s’infilò tra i capelli del ragazzo, lo tirò a sé e iniziarono a baciarsi. La mano di lui era sotto la gonna fino all’avambraccio.
Wow.
Cam mi picchiettò la punta della penna sul braccio per attirare la mia attenzione. Sembrava... incuriosito. «Che c’è?» chiesi.
«Niente, è solo che...» Scelse attentamente le parole. «Li guardi come se... non avessi mai visto una coppia comportarsi così.»
«Davvero?»
Fece cenno di sì con la testa. «E, a meno che tu non sia cresciuta in un convento, immagino che ti sia seduta sulle ginocchia di qualcuno in vita tua, no?»
«No!» risposi, e mi raggelai perché avevo quasi urlato. «Insomma, no, non sono mai stata sulle ginocchia di un uomo.»
«E di una ragazza?»
«Cosa? No!»
Un sorriso si fece strada lentamente sul suo volto. «Scherzavo, Avery.»
Digrignai i denti. «Lo so, è solo che...»
«Cosa?» Mi pungolò ancora con la penna. «È solo che... cosa?»
La mia bocca si aprì e vomitò parole orribili: «Non ho mai avuto una relazione», e subito dopo mi venne voglia di prendermi a calci. Chi spiattella una cosa del genere a un ragazzo che conosce appena? Strinsi i bordi del quaderno e alzai gli occhi su Cam. Mi fissava come se avessi appena ammesso di essere la Vergine Maria. Mi bruciavano le guance. «Che c’è? Non è poi così grave.»
Batté le palpebre e scrollò leggermente la testa prima di tornare a guardare il cielo. «Non hai mai avuto una relazione?»
«No.» Ero tremendamente a disagio, come se gli avessi rivelato i segreti più profondi della mia anima.
«Nemmeno una?»
«Ho detto di no, quindi no.»
La bocca di Cam si aprì e si richiuse. «Quanti anni hai?»
«Diciannove», sbottai contrariata.
«E non sei mai stata con nessuno?»
«No.» L’angolo del quaderno iniziava ad accartocciarsi sotto le mie dita. «I miei genitori... erano severi.» Era una bugia, ma plausibile. «Molto severi.»
«È evidente.» Tamburellò la mia penna sul suo quaderno. «Sei mai uscita a cena con un ragazzo, o roba del genere?»
Sospirai e guardai il diagramma. «Pensavo che fossimo qui per mappare le stelle.»
«È così.»
«Non è vero. Io ho scarabocchiato una sola riga e tu neppure quella.»
«Quello scarabocchio è tra la Delta e la Gamma.» Si chinò a unire due puntini. «Qui c’è la Theta e questa è l’Alpha, la stella più luminosa della costellazione. Vedi, siamo già a metà del lavoro.»
Strizzai gli occhi per vedere meglio le stelle. Accidenti, aveva ragione lui. Poi la sua spalla sfiorò la mia mentre la sua mano tracciava una linea retta che andava verso un altro puntino sulla mappa. Mi morsi il labbro. Ero consapevole del calore del suo braccio anche attraverso due strati di vestiti. Il tepore di quel contatto mi s’irradiava nella spalla e sul petto, accelerando i battiti del cuore.
Girò la testa verso di me. «Abbiamo finito.»
Boccheggiai. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza, davvero troppo vicini. Lui stava facendo quel suo mezzo sorriso e la fossetta iniziava a formarsi sulla guancia sinistra. Le sue labbra si mossero, ma non udii nulla. Volevo allontanarmi e allo stesso tempo non lo volevo. Ero confusa. Mi sforzavo di non arretrare né di avvicinarmi. Era come trovarsi tra due calamite.
Forse dovevo smettere di fissargli le labbra.
Sì, buona idea, perché fissare le labbra di un uomo è un po’ da pervertita. Mi obbligai allora a distogliere lo sguardo. Oh, accidenti, grave errore: avevo incrociato quegli occhi «strappamutande», così li aveva definiti Jacob in un SMS di poco prima. E il mio amico aveva ragione. Avrei scommesso che Cam si lasciasse dietro una scia di mutandine abbandonate ovunque andava. Dovrebbe essere illegale avere ciglia così folte. Anche al buio i suoi occhi erano del colore dei jeans. Mi si scaldò il sangue nelle vene.
Non ricordavo l’ultima volta in cui mi ero sentita in quel modo. Di certo non dopo quella sera della festa di Halloween. Forse prima. Sì, sicuramente prima. C’era qualcosa in Cam che mi faceva dimenticare tutto tranne il momento presente. Una sensazione che mi sembrava piacevolmente normale.
«Mi ascolti?»
Battei lentamente le palpebre. «Eh? Sì! Sì, certo!»
Fece un sorrisetto impertinente e a me venne voglia di nascondermi sotto un cespuglio. «Quindi, dicevo... non sei mai uscita con nessuno?»
«Cosa?»
Ridacchiò. «Allora è vero che non mi ascoltavi. Eri troppo impegnata a fissarmi.»
«Non è vero!» Quella bugia mi fece arrossire e mi voltai a guardare la coppia sulla panchina. Non c’erano più.
Cam mi pungolò con un dito sulla spalla. «È vero.»
Gli feci una smorfia. «Hai superato di molto il livello accettabile di arroganza.»
«Arroganza? Dico solo la verità.» Gettò il quaderno a terra e si appoggiò all’indietro sui gomiti, scrutandomi da sotto le palpebre a mezz’asta. «Non c’è niente di male se mi fissi. Mi piace.»
Restai senza parole. «Non ti stavo fissando. Non proprio. Mi ero... distratta. Ecco quant’è entusiasmante parlare con te.»
«Ogni cosa che mi riguarda è entusiasmante.»
«Quasi come stare a osservare la tua tartaruga che attraversa la strada.»
«Già, già. Continua a ripetertelo, tesoro.»
«E tu continua a chiamarmi ’tesoro’ e presto zoppicherai.»
Sgranò gli occhi. «Oh, ma sentitela.»
«Fa’ come ti pare.»
«Dovremmo farlo.»
La mia mente andò dritta dove non doveva, e avvertii un formicolio sulla pelle. «Fare cosa? Andare a casa? Per me va benissimo, anche subito.»
«Uscire insieme.»
Evidentemente mi ero persa un tassello cruciale di quella conversazione. Richiusi il quaderno e presi la borsa. «Non sono sicura di seguirti.»
«Non è molto complicato.» Lo guardai storto e lui rise. «Dovremmo uscire insieme, io e te.»
Mi si annodò lo stomaco. Sembrava così sereno, sdraiato sull’erba. Stava scherzando? Era drogato? Infilai quaderno e penna nella borsa. «Non capisco.»
Cam si sdraiò e allungò le braccia sopra la testa; la maglietta risalì scoprendo un riquadro di pelle abbronzata e due fossette sui fianchi... Santo cielo. Distolsi lo sguardo e inspirai profondamente.
«In genere due persone escono per passare la serata insieme. Può succedere anche di giorno: in realtà, si può fare a qualsiasi ora. Di solito l’uscita comprende la cena, un film o una passeggiata nel parco. Ma io non passeggio nei parchi. In spiaggia mi piacerebbe, ma dal momento che qui non ce ne sono...»
«So cosa vuol dire uscire insieme», sbottai, alzandomi.
Lui rimase a terra e non diede cenno di volersi muovere. Avevo sbagliato a non prendere la mia macchina. «Hai detto che non capivi, quindi te lo sto spiegando», precisò in tono scherzoso.
Irritata, e al tempo stesso divertita, incrociai le braccia. «Non è quella la parte che non capisco, e lo sai.»
«Volevo assicurarmi che stessimo parlando della stessa cosa.»
«Non è così.»
Abbassò le braccia, ma rimase comunque scoperto un pezzo di pelle nuda sotto la maglietta. Portava biancheria intima? Vedevo solo una cintura di pelle e un paio di jeans. Va bene, non era il caso di indugiare oltre. «Allora, adesso che sappiamo entrambi cosa comporta uscire insieme, dovremmo farlo», disse.
«Ehm...»
Rise e si mise seduto con un unico movimento fluido. «Non è proprio una risposta, Avery.»
«Io...» Uscire insieme? Con Cameron Hamilton? Due sentimenti si fecero strada in me contemporaneamente: disagio e interesse. Feci un passo indietro, interponendo una distanza tra me e lui e tutto il resto. «Non hai la ragazza?»
Sul volto gli si dipinse la sorpresa, poi scoppiò a ridere. «La ragazza? No.»
«Allora chi era quella bruna che è uscita barcollando dal tuo appartamento mercoledì sera?» chiesi.
Cam sfoderò un gran sorriso. «Mi spii, Avery?»
«No. No! Cosa? Non ti stavo spiando. Ce l’ho anch’io, una vita.»
Inarcò un sopracciglio. «Allora come fai a sapere di Stephanie?»
«Si chiama così?»
«Be’, sì, ha un nome e, no, non è la mia ragazza.» Piegò la testa di lato e mi fissò. «E non stava barcollando. Forse ondeggiava.»
Lo fulminai con lo sguardo.
«Allora come hai fatto a vederla, se non mi stavi spiando?» insistette, incrociando le caviglie. «E non mi secca l’idea di essere spiato da te. Come ti ho già detto, mi piace.»
Presi un profondo respiro prima di avvicinarmi e sferrargli un calcio sulla gamba. «Non ti stavo spiando. Non riuscivo a dormire e stavo affacciata alla finestra del salotto, e mi è capitato di vederla andare verso la sua macchina.»
«Be’, così è plausibile. Ma non altrettanto divertente che immaginarti affacciata alla finestra nella speranza di avvistare me.»
Riuscii solo a fissarlo.
Mi fece l’occhiolino, e accidenti quant’era bello quando faceva l’occhiolino. «Stephanie non è la mia ragazza. Non c’è niente tra noi.»
Il che significava, con tutta probabilità, che erano amanti occasionali; e non c’era niente di male in quello. E forse era ciò che voleva anche da me, con quella storia dell’uscire insieme. Jacob sarebbe stato felicissimo di saperlo. Nota mentale: non raccontarglielo. «Io non sono così.»
«’Così’ come?»
Voleva proprio che lo dicessi chiaro e tondo. Naturalmente. Perché no? «Non sono come lei.»
«La conosci?»
Socchiusi gli occhi. «Non faccio sesso coi ragazzi per divertimento, okay? Non c’è niente di male, non giudico nessuno, ma io non lo faccio. Quindi non sono interessata. Scusami.»
«Aspetta un secondo. Sono confuso. Non la stai giudicando, eppure hai dato per scontato che faccia sesso occasionale con me? Non hai tratto delle conclusione un po’ affrettate?»
Accidenti, non aveva tutti i torti. «Hai ragione. Non so se è questo che fate. Magari siete amici d’infanzia...»
«Non lo siamo.» Il sorriso impertinente era tornato. «Ci vediamo una volta ogni tanto.»
Lo guardai a bocca aperta. «Quindi avevo ragione! Allora perché mi hai accusato di giudicarla?»
«Volevo solo fartelo notare», rispose lui, gli occhi brillanti più di quelle maledette stelle nel cielo. «E, per la cronaca, mercoledì sera non abbiamo fatto sesso. Non perché lei non ci abbia provato, ma perché a me non andava.»
Ricordai l’aspetto della ragazza e mi chiesi quale uomo l’avrebbe mai rifiutata. «Lascia stare, questa conversazione è stupida.»
«A me piace, questa conversazione.»
Scossi la testa e feci per prendere il mio zaino, ma Cam scattò in piedi e lo agguantò prima di me. Sospirai e allungai la mano. «Dammelo.»
«Ci sto provando.»
Lo guardai disgustata.
Lui ridacchiò e mi posò lo zaino in spalla. Le sue dita mi sfiorarono il collo, e a quel tocco fui percorsa da un brivido. Lui indietreggiò e raccolse la torcia. «Vedi? Facevo solo il gentiluomo.»
«Non mi sembri proprio un gentiluomo», borbottai, stringendo la tracolla. «Ma grazie.»
Raccolse il quaderno da terra e tornammo verso il pick-up, passando davanti alla panchina ormai vuota. Quando arrivammo nel campo Cam accese la torcia per illuminare il sentiero. Forse per smentirmi, mi aprì la portiera dell’auto. «Milady.»
«Grazie», dissi, con un po’ più di convinzione.
Invece di richiudere la portiera, Cam si appoggiò alla fiancata e posò una mano sullo sportello aperto. «Allora, che ne dici?»
«Che ne dico di cosa?»
Mi scrutò con lo stesso interesse di prima. «Di uscire con me.»
M’irrigidii. «Perché?»
«Perché no?»
«Non è una risposta.» Mi finsi indaffarata ad allacciare la cintura di sicurezza, ma mi tremavano le mani.
«E che razza di domanda è la tua? Come faccio a... Ehi, è solo una cintura di sicurezza, non è così difficile.» Si piegò ad aiutarmi. Le sue mani sfiorarono le mie, e io mi appoggiai allo schienale. Lui si soffermò a guardarmi, con gli angoli della bocca piegati verso il basso.
Qualcosa gli passò negli occhi. Non so bene cosa, durò un solo istante, poi mi sistemò la cintura di sicurezza, e rimase là. «Perché non dovremmo uscire insieme?»
Strinsi i pugni. Non ero a disagio perché lui era così vicino, ero a disagio perché facevo caso a ogni sfioramento e a ogni sguardo. «Perché... perché non ci conosciamo.»
Sorrise di nuovo. Decisi che preferivo quell’espressione a quella imbronciata. «È a questo che serve uscire insieme. A conoscersi.» Mi fissò la bocca. «Esci con me.»
«Non c’è niente da sapere su di me», dissi in un sussurro affannato.
Lui inclinò la testa di lato. «Sono sicuro che c’è un mucchio di roba da sapere su di te.»
«Non è vero.»
«Allora posso parlare solo io.»
«Sembra divertente.»
«Oh, sarà più divertente che stare a osservare Raffaello che attraversa la strada.»
«Molto divertente.»
Sorrise. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto.»
Qualcosa mi vibrò nella borsa. Un SMS? Probabilmente di Jacob. Volevo prendere il telefono, ma avrei finito per dare una testata a Cam. E non ci tenevo a ripetere quell’esperienza. «Possiamo andare?»
«A cena insieme, dici?»
«Santo cielo, non ti arrendi mai?»
«No.»
Risi, perché non seppi trattenermi, e il suo sorriso si allargò. «Ci saranno tante ragazze che vogliono uscire con te.»
«È vero.»
«Wow. Sei modesto, eh?»
«Perché dovrei esserlo? Ma voglio uscire con te, non con loro.»
«Non capisco perché.»
Le sue sopracciglia scure si alzarono. «Mi vengono in mente varie ragioni. Sei diversa dalla maggior parte delle ragazze che conosco. Questo lo trovo interessante. Sei adorabilmente... impacciata. Sei intelligente. Vuoi che continui?»
«No, neanche per sogno.» Dovevo stroncare sul nascere quella faccenda. A parte la sua reputazione, non sarei riuscita a gestirlo. Si sarebbe aspettato da me cose che non potevo dargli. A volte era già difficile conversare con lui. «Non voglio uscire con te.»
Non sembrò sorpreso dalla risposta, ma un po’ deluso. «Sapevo che l’avresti detto.»
«Allora perché me l’hai chiesto?»
Finalmente, grazie a Dio, si ritrasse e strinse la maniglia interna della portiera. «Perché lo volevo.»
«Oh. Capisco. Okay. Sono contenta che tu ti sia sfogato.»
Inarcò le sopracciglia. «Non mi sono sfogato.»
Oh, no. «Ah, no?»
«No.» Sfoderò un sorriso irresistibile. «Domani è un altro giorno.»
«Che succede domani?»
«Te lo chiederò di nuovo.»
Scossi la testa. «La risposta sarà la stessa.»
«Forse sì. O forse no.» Allungò una mano e con un polpastrello mi picchiettò la punta del naso. «E forse dirai di sì. Sono paziente... e poi, ehi, come hai detto tu, non mi arrendo facilmente.»
«Fantastico», borbottai, ma... oh, santo cielo, nel mio petto c’era una vibrazione sconosciuta.
«Sapevo che l’avresti vista così.» Mi strizzò la punta del naso e io gli scacciai la mano. «Non preoccuparti, conosco la verità.»
«La verità su cosa?»
Arretrò. «Non sei pronta, eppure vorresti dirmi di sì.»
Restai a bocca aperta.
«Va bene.» Il suo sorriso si fece arrogante. «Non è facile stare con me, ma ti posso assicurare che ti divertirai.»
E poi, prima che potessi rispondere a tono, mi diede un ultimo buffetto sul naso e mi chiuse la portiera in faccia.
Tornata nel mio appartamento, posai la borsa sul divano e mi ci lasciai cadere. Uscire con Cameron? Era pazzo? Di sicuro stava scherzando, o forse stava solo flirtando. Durante il viaggio di ritorno non ne aveva più fatto cenno, preferendo tartassarmi sugli orari dei miei corsi. Quando arrivammo a casa ero esausta.
Appoggiai la testa sul cuscino del divano e chiusi gli occhi. Il mio cuore aveva un battito accelerato, per essere seduta. Davvero Cam non aveva fatto sesso con Stephanie mercoledì? Mi sembrava strano, se lei non aspettava altro.
Francamente, non importava.
Non potevo tollerare una relazione di nessun tipo. Magari un giorno, in futuro. Ci speravo, perché non volevo andare avanti così per il resto della vita. Prima o poi volevo diventare una di quelle ragazze che si emozionano quando i ragazzi chiedono loro di uscire, invece di essere quella che torna a casa e si butta sul divano.
Aprii gli occhi ed emisi un gemito. «Sono Señor Coglione. O Señorita, per meglio dire.»
Mi alzai e mi avviai in camera, ma poi ricordai la borsa vibrante. «Merda.»
Corsi di nuovo al divano ed estrassi il cellulare dalla tasca laterale della tracolla. Toccai lo schermo aspettandomi di trovare un messaggio di Jacob o di Brittany. Invece trovai una chiamata persa e un messaggio in segreteria.
«Ma che diavolo...?»
Mi accorsi di aver azzerato il volume del cellulare per sbaglio. Sbloccai lo schermo e lessi che la chiamata proveniva da un NUMERO SCONOSCIUTO.
Il cuore mi balzò in gola.
Niente di grave. Probabilmente qualcuno aveva sbagliato numero oppure l’operatore di un call center voleva vendermi qualcosa. Andai alla pagina della segreteria e il mio dito esitò sopra il pulsante di cancellazione. Il passato tornava a tormentarmi. Quante volte avevo ricevuto scherzi telefonici da persone che nascondevano il loro numero? Troppe per contarle, ma adesso avevo cambiato numero e indirizzo e-mail...
Imprecai di nuovo.
Tirai un lungo respiro, toccai il tasto per ascoltare il messaggio e mi portai il telefono all’orecchio. Ci fu una pausa e poi una voce roca, sconosciuta, disse: «Lo sai cosa succede alle bugiarde e alle puttane? Si beccano un gran bel...»
Lanciai un urlo e premetti il pulsante di cancellazione prima che la frase finisse. Fui tentata di scagliare il telefono contro il muro, poi lo lasciai cadere sul divano e arretrai come se fosse un serpente velenoso.
Qualsiasi mezzo di comunicazione poteva diventare tossico. Non lo sapevo già per esperienza personale? Mi sfuggì una risata strozzata. Davvero, non avevano niente di meglio da fare? Erano passati cinque anni. Cinque! Non riuscivano a lasciarsi il passato alle spalle.
E, in fondo in fondo, neppure io.