7

Mi alzai a sedere sul letto, confusa e disorientata. Mi ero addormentata intorno alle quattro del mattino, e non sapevo proprio cosa mi avesse destato così all’improvviso. Mi girai verso la sveglia e gemetti constatando che erano solo le otto.

Di domenica mattina.

Tornai a sdraiarmi e fissai il soffitto. Non c’era speranza di riaddormentarmi...

Tum. Tum. Tum.

Mi sedetti di scatto, perplessa. Qualcuno bussava alla mia porta. Che diavolo...? Spinsi via le coperte e tirai giù le gambe dal letto. Mi s’impigliò un piede nel lenzuolo e per un pelo non finii con la faccia sulla moquette.

«Porca miseria.»

Snocciolando imprecazioni, attraversai di corsa l’appartamento prima che il campanello svegliasse l’intero palazzo. Mi alzai in punta di piedi per guardare dallo spioncino. Dall’altra parte c’era solo una massa di capelli scuri e ondulati. Cam?

Doveva essere successo qualcosa di brutto, forse il palazzo stava andando a fuoco. Non mi venivano in mente altri motivi per cui potesse bussare alla mia porta di domenica mattina.

«Tutto a posto?» chiesi. Avevo una voce orribile, roca e assonnata.

Cam si voltò. Un sorriso sghembo rendeva ancor più sexy il suo viso già bellissimo, e lo faceva sembrare più giovane. «No, ma lo sarà tra un quarto d’ora.»

«C-c-cosa?» Mi feci da parte, o per meglio dire fui spinta da parte, e lui entrò nell’appartamento portando un involto rivestito di carta stagnola, una confezione di uova – eh? – e una piccola padella. «Cam, cosa stai facendo? Sono le otto del mattino.»

«Grazie per l’aggiornamento.» Puntò dritto alla cucina. «Non ho mai capito come si fa a scoprire che ore sono.»

Lo seguii aggrottando la fronte. «Che ci fai qui?»

«Preparo la colazione.»

«Non puoi farlo nella tua cucina?» chiesi, stropicciandomi gli occhi. Dopo l’esercizio di astronomia e quella telefonata, era l’ultima persona che volessi vedere a quell’ora del mattino.

«La mia cucina non è entusiasmante come la tua.» Sistemò quello che aveva portato sul bancone e si voltò a guardarmi. Aveva i capelli umidi e più ricci del normale. Come faceva a essere così bello appena uscito dal letto e dalla doccia? Non c’era ombra di barba sulle sue guance lisce. E faceva sembrare il top dell’eleganza i pantaloni della tuta e una vecchia maglietta. «E poi Ollie dorme sul pavimento del salotto.»

«Sul pavimento?»

«Sì, a faccia in giù. Russa, e sbava anche un po’. L’atmosfera non è per niente invitante.»

«Be’, non lo è neppure il mio appartamento.» Doveva andarsene. Non aveva il diritto di stare in casa mia.

Si appoggiò al bancone a braccia conserte. «Oh, non saprei...» Mi squadrò, dalla testa spettinata giù fino ai piedi nudi. Percepii il suo sguardo come una sensazione fisica, come se i suoi occhi mi toccassero, e mi si mozzò il respiro. «La tua cucina, in questo istante, è molto attraente.»

Arrossii. «Non voglio uscire con te, Cam.»

«Non te l’ho chiesto, stavolta, giusto?» Piegò verso l’alto un angolo della bocca. «Ma prima o poi dirai di sì.»

Lo guardai socchiudendo gli occhi. «Sei un illuso.»

«Sono determinato.»

«Rompiscatole.»

«Molti direbbero fantastico.»

Alzai gli occhi al cielo. «Nella tua testa, forse.»

«In molte teste, vorrai dire», ribatté voltandosi verso il fornello. «Ho portato anche del pane alla banana e noci, cotto nel mio forno.»

Scossi la testa e gli fissai la schiena. «Sono allergica alle banane.»

Si voltò di scatto con un’espressione incredula. «Mi prendi in giro?»

«No. Sono allergica alle banane.»

«Accidenti, che peccato. Non hai idea di cosa ti perdi. Le banane rendono il mondo un posto migliore.»

«Non posso saperlo.»

Inclinò la testa di lato. «Sei allergica ad altro?»

«A parte la penicillina e gli uomini che si autoinvitano nel mio appartamento? No.»

«Spiritosa.» Si chinò ad aprire i pensili. «Quanti ragazzi più deboli e insicuri di me hai massacrato con quella lingua affilata?»

«Non a sufficienza, a quanto pare», borbottai. Allungai la mano per sistemarmi il bracciale e mi accorsi che non c’era. Mi raggelai. «Torno subito.»

Cam annuì, canticchiando sottovoce. Tornai di corsa in camera, presi il bracciale dal comodino e lo infilai. Fui invasa dal sollievo. Mentre stavo per uscire dalla stanza abbassai lo sguardo e imprecai di nuovo.

Non avevo il reggiseno.

Il tessuto sottile della maglietta aderiva al petto e i capezzoli facevano ciao. «Oh, santo cielo.»

Mi sfilai di corsa la maglietta e presi dal comò un reggiseno sportivo.

«Ehi, ti sei nascosta?» gridò Cam. «Perché vengo lì e ti trascino fuori.»

Restai immobile, col reggiseno incastrato sulla testa e con le tette che ondeggiavano qua e là. Tirai giù il reggiseno e mi schiacciai il seno sinistro. Ahia! «Non azzardarti a entrare.»

«Allora sbrigati. Le mie uova non aspettano nessuno.»

«Oddio», mormorai, rimettendomi la maglietta. Arrivai in corridoio prima di ricordare che non mi ero lavata i denti. Cam e le sue uova avrebbero dovuto aspettare.

Quando tornai in cucina c’erano varie uova a bollire in una pentola e un perfetto occhio di bue nella padella che si era portato dietro. Aveva trovato il formaggio grattugiato in frigo e lo stava spolverando sulle uova.

Vederlo nella mia cucina, ai miei fornelli, m’innervosiva. Mi si attorcigliò lo stomaco quando mi accorsi che trovava i piatti e le posate senza chiedermi dove fossero. Avevo i nervi a fior di pelle. «Cam, cosa ci fai qui?»

«Te l’ho già detto.» Rovesciò le uova su un piatto e poi raggiunse il tavolino con due sedie appoggiato alla parete. «Vuoi un po’ di pane tostato? Ehi, aspetta, hai del pane in casa? Se no, posso...»

«No, non mi serve il pane tostato.» Aveva assunto il controllo totale della mia cucina! «Non hai nessun altro da tormentare?»

«C’è un mucchio di gente che potrei premiare con la mia presenza, ma ho scelto te.»

Era la mattina più bizzarra della mia vita. Lo guardai per un altro momento. Mi rassegnai a non poterlo cacciare da casa mia e mi sedetti con le ginocchia al petto. Presi una forchetta. «Grazie.»

«Ho scelto di credere che lo pensi davvero.»

«Lo penso!»

Sorrise. «Chissà perché, ma ne dubito.»

Ora mi sentivo una stronza. «Ti sono grata per le uova. Sono solo sorpresa di vederti qui... alle otto del mattino.»

«Be’, a essere sincero, volevo sedurti col mio pane alla banana, ma purtroppo non si può. Quindi mi restano solo le mie deliziose uova.»

Mangiai una forchettata di quella meraviglia al formaggio. «È davvero buono, ma non mi stai seducendo.»

«Ti seduco eccome.» Aprì il frigo e prese una bottiglia di succo d’arancia. Riempì due bicchieri e ne posò uno davanti a me. «Ma lo sto facendo con tale discrezione che non te ne sei ancora accorta.»

Non potevo vincere in quella conversazione, perciò cambiai argomento: «Tu non mangi?»

«Eccome, ma le uova mi piacciono sode.» Indicò i fornelli e si sedette davanti a me. Si posò il mento sul pugno chiuso e io mi concentrai sul mio piatto. Accidenti a lui, era davvero adorabile. «Allora, Avery Morgansten, sono tutto tuo.»

Quasi mi strozzai con l’uovo. «Non ti voglio.»

«Peccato», sorrise lui. «Parlami di te.»

Neanche morta. Non avevo intenzione di farmi conoscere meglio. «Lo fai spesso? Dico, entrare in casa di ragazze a caso e cucinare uova?»

«Be’, tu non sei una ragazza a caso, quindi tecnicamente no.» Si alzò e controllò la cottura delle uova. «Ogni tanto mi capita di stupire qualche signora fortunata.»

«Sul serio? Insomma, lo fai regolarmente?»

Si voltò per guardarmi. «Con gli amici sì, e noi siamo amici, vero, Avery?»

Non sapevo cosa rispondere. Eravamo amici? Supponevo di sì, ma... Era una cosa normale? Oppure Cam aveva semplicemente un’autostima più alta della media? Faceva cose del genere perché sapeva di potersele permettere, sapeva che nessuno l’avrebbe cacciato via. La maggior parte della gente, probabilmente, non voleva che se ne andasse da casa loro. E, se l’avessi voluto davvero, avrei potuto cacciarlo: era la verità. Cam era il tipo di ragazzo abituato a ottenere ciò che voleva.

Proprio come Blaine.

Quel pensiero m’inacidì le uova nello stomaco, e posai la forchetta. «Sì, siamo amici.»

«Olè!» gridò lui, facendomi trasalire. «Hai finalmente ammesso che siamo amici. Ci è voluta solo una settimana.»

«Ci conosciamo da una settimana.»

«C’è comunque voluta una settimana», ribatté lui, smuovendo le uova nell’acqua.

Giocherellai con gli avanzi nel piatto. «Normalmente ci metti solo un’ora per convincere qualcuno a dichiararsi il tuo migliore amico?»

«No.» Tirò fuori le uova e le posò in una scodella. Tornò a sedersi a tavola. Mi fissava, ed era difficile sostenere il suo sguardo, gli occhi di un azzurro incredibile, limpido e intenso. Il genere di occhi in cui ci si può smarrire. «Di solito ci metto circa cinque minuti a passare allo status di migliore amico.»

Non riuscii a trattenere un sorriso. «Allora credo di essere l’eccezione.»

«Forse.» Abbassò gli occhi sull’uovo che stava pelando.

Bevvi un sorso di succo d’arancia. «Immagino che per te sia diverso.»

«Mmm?»

«Scommetto che le ragazze ti si appiccicano addosso. Chissà quante ucciderebbero per essere al mio posto, e invece eccomi qua, allergica al tuo pane.»

Alzò lo sguardo. «Perché? Per la mia divina perfezione?»

Scoppiai a ridere. «Non mi spingerei a tanto.»

Sghignazzò e scrollò le spalle. «Non lo so. Non ci penso.»

«Non ci pensi mai?»

«No.» S’infilò in bocca un uovo intero. A parte quello, le sue maniere a tavola erano impeccabili. Si puliva le mani sul tovagliolo e non parlava con la bocca piena. «Ci penso solo quand’è importante.»

I nostri sguardi s’incrociarono e arrossii. Passai un dito sul bordo del bicchiere. «Quindi sei un ex playboy?»

Si fermò con un uovo a mezz’aria. «Cosa te lo fa credere?»

«Ho sentito dire che al liceo eri un dongiovanni.»

«Davvero? Chi te lo ha detto?»

«Non sono affari tuoi.»

Inarcò un sopracciglio. «Con quella boccaccia, non devi avere tanti amici, eh?»

Rabbrividii, perché quella era un’osservazione acuta. «No. Non avevo molti amici al liceo», mi sentii dire.

Cam posò l’uovo sul piatto e si appoggiò allo schienale. «Merda. Mi dispiace. Sono uno stronzo.»

Liquidai la cosa con un cenno della mano, ma mi aveva fatto male.

Mi guardò da sotto le ciglia folte. «È difficile da credere. Sai essere divertente e gentile quando non m’insulti, e sei una ragazza carina. Anzi sei proprio bella.»

«Ah... grazie», mormorai, imbarazzata.

«Dico sul serio. Mi hai detto che i tuoi genitori erano severi. Non ti lasciavano uscire con gli amici, al liceo?» Annuii, e lui finì di mangiare l’uovo. «Però non riesco a immaginare che tu non piacessi a tutti. Non ti manca niente: sei intelligente, simpatica e bella.»

«Eppure era così. Okay?» Posai il bicchiere e tirai un filo che penzolava dall’orlo dei pantaloncini. «Ero l’esatto opposto di una ragazza che piace a tutti.»

Cam iniziò a sbucciare un altro uovo. Ma quanti ne mangiava? «Mi dispiace, Avery. È... molto triste. Il liceo è sempre un periodaccio.»

«Sì.» Mi inumidii le labbra, nervosa. «Tu avevi molti amici?»

Annuì.

«Li senti ancora?»

«Alcuni. Io e Ollie andavamo al liceo insieme, ma lui ha fatto i primi due anni alla West Virginia University e poi si è trasferito qui; e ne vedo alcuni in giro per il campus e giù a casa.»

Mi abbracciai le ginocchia e ci posai il mento per obbligarmi a stare ferma. «Hai fratelli o sorelle?»

«Una sorella», rispose prendendo l’ultimo uovo, il quarto. Fece un sorriso sincero. «È più piccola di me, ha appena compiuto diciott’anni. Si diploma quest’anno.»

«Siete molto uniti?» Chissà com’era avere un fratello come Cam.

«Sì, siamo uniti.» Un’ombra gli attraversò il viso e subito sparì, ma mi spinse a chiedermi se dicesse la verità. «Ci tengo molto a lei. E tu? Hai un fratello maggiore che potrebbe venire a picchiarmi?»

«No, sono figlia unica. Ho un cugino più grande, ma dubito che farebbe una cosa del genere.»

«Ah, bene.» Divorò l’uovo, poi si appoggiò allo schienale battendosi le mani sulla pancia. «Da dove vieni?»

Serrai le labbra cercando di decidere se mentire o no.

«Okay.» Tirò giù il braccio dallo schienale della sedia di metallo. «Evidentemente sai già da dove vengo io, visto che sai delle mie attività extrascolastiche al liceo, ma te lo confermo. Vengo dalla zona di Fort Hill. L’hai mai sentita nominare? Non la conosce quasi nessuno. È vicino a Morgantown. Perché non sono andato alla West Virginia University? Tutti vogliono saperlo.» Fece spallucce. «Volevo andarmene, ma allo stesso tempo non allontanarmi troppo dalla mia famiglia. E, sì, al liceo ero... molto indaffarato.»

«Non lo sei più?» chiesi, senza aspettarmi una risposta, perché non erano affari miei, ma, ehi, se continuava a parlare lui non avrei dovuto dire niente su di me.

E poi... m’interessava saperne di più, perché Cam era affascinante, a modo suo. Era uno di quei ragazzi sexy che al liceo sono amici di tutti, ma non era arrogante. Solo quello lo rendeva meritevole di uno studio scientifico. Inoltre era sempre meglio che starmene da sola a rimuginare su telefonate e e-mail minatorie.

«Dipende a chi lo chiedi.» Rise. «Mah, non lo so. Quando ero matricola... in quei primi due o tre mesi, con tutte quelle ragazze intorno... Probabilmente mi sono impegnato più con loro che nello studio.»

Sorrisi: era facile crederci. «E ora non più?»

Scosse la testa. «E tu da dove vieni?»

Okay. Evidentemente non gli andava di parlare del motivo per cui non era più un playboy. Mi passarono per la testa visioni di gravidanze indesiderate. «Sono del Texas.»

«Texas?» Si sporse in avanti. «Davvero? Non hai l’accento.»

«Non sono nata lì, la mia famiglia è originaria dell’Ohio. Ci siamo trasferiti in Texas quando avevo undici anni, e non ho mai preso l’accento.»

«Dal Texas al West Virginia? Un bel cambiamento.»

Tirai giù le gambe, mi alzai e presi il mio piatto e la sua scodella. «Be’, vivevo nella parte peggiore del Texas, la più provinciale; ma, a parte quello, non è tanto diverso da qui.»

«Sparecchio io, ho fatto io tutto questo casino.»

«No. Hai cucinato tu, pulisco io», ribattei indietreggiando con la sua scodella.

Si arrese e aprì il pane avvolto nella stagnola. Aveva un profumo buonissimo. «Perché hai scelto di venire proprio qui?»

Lavai i piatti e la padellina prima di rispondere a quella domanda così difficile. «Anch’io volevo andarmene, come te.»

«Dev’essere dura.»

«No.» Presi il pentolino in cui aveva bollito le uova. «È stata una decisione facilissima.»

Sembrò rifletterci mentre spezzava il pane. «Tu sei un enigma, Avery Morgansten.»

Mi appoggiai al bancone e, sbalordita, lo guardai mangiare mezza pagnotta in un sol boccone. «Non direi proprio, semmai lo sei tu.»

«In che senso?»

Lo additai. «Hai appena finito quattro uova sode, stai mangiando mezza pagnotta e hai degli addominali che sembrano usciti dalla pubblicità di una palestra.»

Sembrò felicissimo di quel complimento. «Mi hai squadrato ben bene, eh, tra un insulto cocente e l’altro? Mi sento un uomo-oggetto.»

Risi. «Ma sta’ zitto!»

«Sono un ragazzo che cresce, devo nutrirmi.»

Lo guardai con sufficienza e lui rise. Mangiucchiando il pane, mi parlò un po’ dei suoi genitori. Tornai a sedermi a tavola, sinceramente interessata. Suo padre era titolare di uno studio legale e sua madre era medico. Quindi Cam era ricco di famiglia, non quanto i miei ma abbastanza da pagarsi l’affitto. Era molto legato ai suoi genitori, e questo glielo invidiavo. Da ragazza volevo solo che i miei genitori desiderassero starmi accanto, ma, tra le serate di beneficenza, il jet set e tutte quelle cene fuori, non erano mai a casa. E, dopo tutto quel che era successo, le rare volte che eravamo insieme non riuscivano neppure a guardarmi.

«Quindi torni in Texas per le vacanze d’autunno o per il Ringraziamento?» mi chiese.

Sbuffai. «Probabilmente no.»

«Hai altri progetti?»

Scrollai le spalle.

Cam cambiò argomento, ed era quasi mezzogiorno quando se ne andò. Si fermò sulla soglia del mio appartamento e si voltò a guardarmi, rigirandosi la piccola padella in una mano, e nell’altra quel che restava del pane. «Allora, Avery...»

Mi appoggiai con un fianco allo schienale del divano. «Allora, Cam...»

«Cosa fai martedì sera?»

«Non lo so.» Aggrottai la fronte. «Perché?»

«Che ne dici di uscire con me?»

«Cam», sospirai.

Si appoggiò allo stipite. «Questo non è un no.»

«No.»

«Be’, questo sì che è un no.»

«Sì, lo è.» Mi spinsi via dal divano e afferrai la maniglia. «Grazie per le uova.»

Arretrò di un passo, sempre col suo sorriso sghembo. «Mercoledì sera, allora?»

«Ci vediamo, Cam.» Chiusi la porta sorridendo. Era davvero insopportabile, eppure, come la sera prima, stare con lui mi faceva un effetto miracoloso. Forse erano i duelli verbali... Be’, qualsiasi cosa fosse, con lui tendevo a comportarmi... normalmente. Come un tempo.

Uff.

Dopo aver fatto una doccia mi aggirai per l’appartamento meditando di scrivere un SMS a Jacob o a Brittany per sentire che programmi avevano. Alla fine gettai il cellulare sul divano e tirai fuori il computer portatile. Non potevo evitare le e-mail in eterno.

Nella casella dello spam c’erano alcune e-mail dall’aria sospetta. Due col mio nome come oggetto. Dopo quell’ultimo messaggio avevo imparato la lezione: cliccai CANCELLA con una certa soddisfazione.

Era strano, però, ricevere quelle e-mail proprio adesso. Quando ero al liceo, era un conto: li vedevo ogni giorno. Ma ora che eravamo tutti al college? Qualcosa non tornava. Davvero non avevano niente di meglio da fare? Dubitavo che potesse essere Blaine: perché, per quanto fosse un bastardo, si teneva alla larga da me. E la telefonata? Mi rifiutavo di cambiare numero. Nel periodo peggiore, quando ricevevo tre o quattro telefonate al giorno, avevo cambiato numero varie volte e loro lo avevano sempre scoperto.

Scossi la testa, cliccai sulla cartella della posta in arrivo e trovai un’altra mail di mio cugino. Insomma! Ero quasi tentata di non aprirla, ma alla fine cliccai.



Avery,

dobbiamo parlare il prima possibile. Chiamami appena puoi. È molto importante. Chiamami.

David



Il mio dito restò sospeso sul trackpad.

CANCELLA.