La goccia nera.
Qualcosa che quando c’è lei non ci sei più tu.
È come la perdita dei superpoteri per un supereroe.
Un senso assoluto di fallimento.
I pensieri che ti si sciolgono di dosso.
Sono lo schizzo di sperma di un’eiaculazione notturna.
Il legno marcio di un vecchio galeone affondato.
La cacca quando non viene.
Una bolletta scaduta.
Sono uno zero.
Nemmeno degno della rotondità di uno zero.
Sono zero virgola due.
Dopo quasi un mese passato insieme ininterrottamente, ero partita un paio di giorni per Milano, da dove ogni tanto conducevo una diretta con la presenza del pubblico in studio.
Capitava sempre qualcosa di inaspettato in quelle occasioni e al mio ritorno non vedevo l’ora di raccontare tutto a Lorenzo.
Ero arrivata nel suo monolocale direttamente dalla stazione, senza nemmeno passare da casa mia.
E lo avevo trovato al buio, nudo, a mangiare un barattolo di pesto come fosse una coppa di gelato, rannicchiato sul divano, lo sguardo fisso nel vuoto, tutt’attorno mozziconi di sigarette, carte di merendine, un tanfo insostenibile di chiuso misto a una specie di piscio misto a plastica bruciata.
– Ciao amore.
– Ciao.
– Che cosa succede?
– La goccia nera.
Non era colpa sua, non era per niente colpa sua, diceva.
Forse io, per prima, avrei potuto capire. Tutte le persone della sua vita alla fine l’avevano abbandonato per questo male, che esattamente male non era, male non faceva, non faceva niente, questo era il problema, niente, niente, questo il problema, il niente.
Le parole gli s’impiastricciavano di moccio, mentre mi stringeva forte i polsi e mi chiedeva scusa e aiuto, e ancora scusa, ancora aiuto.
E io sentivo forte che quello era il mio posto. E gli dicevo che non avevo paura. Che non doveva avere paura nemmeno lui. Che per colpa di qualcosa del genere anch’io avevo perso tutte le persone che amavo e che ad abbandonarle fossi stata io era semplicemente un dettaglio. Comunque le avevo perse, comunque avevo perso.
Ci ho messo un po’ per capire che quello che dicevo a Lorenzo quando lo trovavo in quelle condizioni cadeva nello stesso pozzo senza fondo in cui precipitava lui, dove non c’era possibilità di risonanza, di comprensione, d’ascolto.
A quel tempo ero ancora così arrogante e presuntuosa da credere che esistessero parole talmente giuste da raggiungerlo proprio dove si era perso. Da entrargli dentro, e portarmi con loro. Da farlo alzare da quel divano, fargli fare una doccia, farlo vestire, uscire. Fare una cosa qualsiasi. Per esempio accorgersi che c’ero.
Ma quelle parole non esistevano, non esistono. Rimane la possibilità di qualche gesto.
Come comprare del detersivo e lavare tutte le stoviglie nel lavello. Aprire le persiane. Farlo sentire importante. Pregarlo di leggermi una poesia di Marian Moore. Farmi spiegare la differenza fra analogico e digitale.
Prenderglielo in bocca piano, dolcemente, e poi sempre un po’ più forte, finché non gli venisse duro, finché non venisse.
Allora si sentiva un po’ meglio, come si sta quando si vomita o si va al bagno dopo un’indigestione.
Il sesso in certi casi, anche quando si fa, non c’entra niente.
Quella crisi di Lorenzo era stata solo la prima di tante, la prima di tutte.
Presto avevo cominciato ad aspettarmelo. Ogni volta che ci separavamo per qualche giorno, quando a notte fonda, finita la diretta, tornavo nel monolocale, lo trovavo in preda a quella disperazione impermeabile.
Anche il risveglio poteva essere un momento terribile. Verso mezzogiorno sbucava fuori dal letto, strisciava fino alla macchinetta del caffè e diceva oggi proprio non ce la faccio, non ce la farò.
– Perché non ti fai aiutare?
– Che vuoi dire? Andare da uno psicologo?
– Per esempio. O almeno da qualcuno che ti prescriva qualche farmaco. Giusto per superare questo momento.
– Nemmeno morto, Lidia, mi dispiace. Quella è roba da signorine di provincia per bene.
– Ma l’ho fatto anch’io.
– Ecco, appunto.
Gli psicofarmaci sono merda, diceva. Meglio una striscia di coca. Una botta di eroina. Quantomeno la sua sofferenza non sarebbe andata a vantaggio di qualche multinazionale farmaceutica del cazzo.
A quel punto ho cominciato a cercare prove per stanarla io, allora, l’origine di tutto quel male. Mentre Lorenzo dormiva, spiavo il suo cellulare, la sua agenda, un diario che aggiornava quotidianamente con poche frasi di cronaca, più che altro sul tempo o su quello che stava leggendo in quel momento.
<Ciao Lollo che fai? Passi dal Bar degli Specchi stasera? C’è pure Vento>
<Letto il tuo pezzo di oggi su Ellis: grande!>
<Ciao bambolotto, mi manchi. Yours Gabri>
h. 17:00 – Dentista
Oggi c’è la tipica luce dei primi giorni di primavera. Fa ancora freddo però. Finito il libro di T., molto buono il primo racconto (n.b. “lo sguardo acido della maestra”), gli altri così così. Comprato una lampada nuova e due magliette.
Cena con Gabri e Maia, hanno fatto l’ecografia, saranno due femmine. Maia dice che le vogliono chiamare Alice e Gea. Mi sembrano nomi fichi.
Forse domani tolgo il piumone dal letto, Lidia dice che ormai fa caldo e non serve più.
Cominciato La ripetizione di K., non ci capisco un cazzo.
Messaggi innocenti, appunti che non rivelavano un granché. Ma il loro rumore di fondo è stato subito assordante, come per me lo era da sempre quello che la gente dice e pensa e fa di noi mentre non ci siamo, quello che succede quando non ce ne accorgiamo e che però un giorno all’improvviso potrà assalirci alle spalle, e trovarci impreparati.
Che quanto può farmi soffrire me lo dichiari subito, pensavo, così lo farà un po’ di meno. Fin da bambina avevo preso il vizio di frugare nelle borse di mia madre, fra i documenti di mio padre, facevo moltissime domande a tutti, non mi accontentavo mai di nessuna risposta, volevo sapere, ficcarmi in qualunque intenzione, stare in guardia, anticipare. Sapevo stringere solo amicizie profondamente complici, simbiotiche.
Di ogni cosa che mi succedeva, di ogni persona che incontravo, volevo la lastra.
Se si fosse trattato di uno stato continuo di ricerca, si sarebbe limitata a una caratteristica. Ma appena s’imbatteva in qualcosa di bugiardo, di provvisorio, d’inconfessabile, si trasformava in perversione. Potevo arrivare a spiare nei bagni della scuola le conversazioni fra le mie compagne di classe, alzavo la cornetta del telefono della mia stanza per origliare che cosa avevano ancora da dirsi i miei genitori dopo essersi separati. Avevo sviluppato un intuito che poteva anche fare a meno di cercare conferme e si nutriva di mezze frasi, cenni, reticenze. Andavo stupidamente fiera che non sbagliasse quasi mai, come se lo scopo della vita fosse svelarne i trucchi invece che credere il più possibile a quelli che ci piacciono.
Crescendo, non ero affatto migliorata. Anzi. I miei problemi col cibo mi avevano messo in testa di poter combattere e dominare anche l’istinto, uno stimolo naturale com’è quello di mangiare.
A quel punto il gioco si fa piuttosto pesante. Si diventa l’unica propria divinità riconosciuta. Compassionevole o terribile ma il più delle volte terribile e basta, come tutte le divinità. Sta di fatto che non si deve rispondere a nessun altro.
Così la mia ansia di controllo negli ultimi anni aveva raggiunto un livello pericoloso. Da qualche parte ero certa che mettersi al riparo da quello che fa male fosse possibile. O almeno lo era a me.
Bastava tenere gli occhi aperti.
Non distrarsi.
Vigilare.
Capire tutto perché non potesse sfuggire niente, nessuna possibilità di dolore, nessuna brutta sorpresa. L’avevo sempre fatto per proteggere me, adesso l’avrei fatto anche per Lorenzo. L’avrei difeso da se stesso e avrei difeso tutti e due dal resto del mondo, mi dicevo. Ma per la prima volta il mio intuito strideva con il bisogno che avevo di non dargli retta. Fino a quel momento da ascoltare c’era stata sempre e solo l’urgenza delle mie paure. Adesso invece c’era Lorenzo. E io non volevo perderlo. Ma non potevo lasciarmi sfuggire nemmeno quello che percepivo in lontananza, ai margini della vita che condividevo con lui.
E che puntualmente parlava di qualcosa che con la nostra, di vita, non aveva molto a che fare. Qualcosa di più o qualcosa di meno, comunque qualcos’altro. Qualcosa da cui ero esclusa. E dove sarei riuscita a entrare, prima o poi. È in quello che non sappiamo la chiave di tutto, mi dicevo. I segreti sono pieni di soluzioni. E anche se non tutte mi piaceranno, solo così troverò quella dei risvegli impossibili di Lorenzo. Della sua incapacità a vivere tutto. A vivere noi.
Me.
Perché quando piangeva e si soffiava il naso col lenzuolo diceva: – Io non esisto. – Ma in realtà stava da tutte le parti. Ero io a non esistere.
– Non ho più niente e nessuno al mondo.
– Non è vero. Pensaci bene.
– Sì, lo so, ho i miei genitori, ho mio fratello e mia sorella, ho un nipotino meraviglioso. Ho degli amici importanti. Ho Gabrielle e Maia, che sono la mia famiglia.
– Hai molto di più.
– Non mi viene in mente niente.
– Sforzati.
– …
– …
– Ho una certa fama letteraria, sì.
In breve, come tutte le storie, anche la nostra aveva preso a vivere di certe abitudini.
Principalmente di una: quella che fossi io ad andare e venire da casa di Lorenzo.
E che fosse lui a decidere quando dovessi farlo.
A volte nel cuore della notte mi chiedeva di andarmene, perché la mattina dopo avrebbe dovuto scrivere e preferiva non dover interferire con nessuno prima di cominciare a farlo. Non mi accompagnava perché lo deprimeva il quartiere residenziale, dalle parti dell’Eur, dove avevo preso casa in affitto una volta finita l’università. Era possibile che dopo poche ore mi telefonasse e mi chiedesse torna.
Io acconsentivo, com’è nella mia natura: non tanto per sottomissione, ma sempre per quel mio solito vizio, perché non esistessero scarti fra il desiderio e l’azione delle persone con cui avevo a che fare.
L’importante, insomma, era che quando mi vedevo con Lorenzo lui volesse davvero farlo.
Oltre quella condizione pensavo cominciasse irrimediabilmente il male, il compromesso familiare, le feste organizzate da McDonald’s, la spesa del venerdì pomeriggio, il sorriso del padre quando a cena i suoi bambini gli fanno l’imitazione e lui pensa ho fatto proprio bene oggi a dire a quella certa ragazza di non farsi strane idee, perché uno mica può mollare tutto per due belle scopate, lo sa anche lei, e sa anche che comunque se vuole domani la aspetto allo stesso posto alla stessa ora.
La voglia d’altro di tutti i mariti, il rancore di tutte le mogli, i brufoli dei figli.
Con Lorenzo ce l’avrei fatta a evitare tutto questo.
Nel rumore irreparabile che fa la gente mentre esiste, noi avremmo accordato un flauto.
Riuscirci avrebbe avuto il suo prezzo, ma ero disposta a pagarlo.
Ne ero fermamente convinta.
Ho cominciato a vacillare un giorno, quando avevamo appuntamento dopo la mia diretta, ma nel monolocale ad aspettarmi non avevo trovato nessuno.
Ho provato a chiamarlo sul cellulare.
Squillava a vuoto.
Ho provato ancora.
E ancora.
Ancora.
Finché la voce della signorina TIM mi ha informato che l’utente da me desiderato non era al momento raggiungibile.
L’ho aspettato sveglia per tutta la notte, sfogliando ossessivamente il suo diario, in cerca di qualcosa che potesse aiutarmi a capire dove fosse finito.
R. D. mi ha spedito il suo libro in bozze, mi sembra buono ma non potente come il primo, non so se dirglielo o no, forse è meglio di no. Pioggia ininterrotta da stamattina. Umore nero.
Incontrato Pat per caso a Campo de’ Fiori. Molto bella, mi ha chiesto di andare a casa sua. Rimango il vecchio predatore di sempre, grrrrrrr.
Emicrania e vomito, presi tre Optalidon. Poi tutto il giorno a casa di Tr. **** Sono un tossico. Però geniale.
Tempo incerto. Piove col sole, luce irreale nel tardo pomeriggio. Fatto sesso forte con Lidia. Cena con V. Ge. per parlare del mio nuovo libro, l’idea gli è piaciuta molto.
Sono un uomo perso. Abbi il coraggio di dirtelo, Lorenzo. Sei finito schiacciato sotto il peso del tuo cinismo, nessuno ti ama, nessuno ti stima, sei la ruota di scorta dell’ultima ruota del carro.
Come al solito, ogni parola poteva significare qualsiasi cosa. Chi era Pat? E chi era Tr? E cos’era successo a casa di Pat? Che cosa indicavano gli asterischi riguardo il giorno passato a casa di Tr? E tutto quello smarrimento? Che cosa ne avrebbe fatto?
Cosa ne stava facendo in quel preciso momento?
La notte diventò mattina. La mattina pomeriggio. Il pomeriggio sera.
Dovevo andare in radio.
L’utente da lei desiderato non è al momento raggiungibile.
Le parole della diretta andavano per conto loro.
L’utente.
Da lei.
Desiderato.
Non è.
Al momento.
Raggiungibile.
Sono tornata di corsa al monolocale. Non mangiavo e non dormivo da più di un giorno.
Ho aperto la porta sperando solo di trovarlo lì.
Non c’era.
È arrivato alle sei del mattino.
– Ciao piccola, che bella sorpresa.
– Che bella sorpresa un cazzo.
– Ma che ti succede?
– Stavo per chiamare la polizia.
– Tu sei scema.
– E tu sei uno stronzo. Dove sei stato?
– Fatti i cazzi tuoi.
– Sono cazzi miei. Dove sei stato? a casa di Pat? di Tr? Dove cazzo sei stato, Lorenzo, e soprattutto perché non ti è passato per la testa di farmi almeno uno squillo e dirmi non ti preoccupare, va tutto bene, non mi è successo niente di grave, è solo che sono un povero coglione che a quarant’anni ancora si sente il vecchio predatore di sempre a scoparsi una troia incontrata a Campo de’ Fiori?
– Non mi piaci così.
– E chi se ne frega.
– Se vuoi proprio saperlo, sono stato a casa mia.
– È questa, casa tua.
– No. La casa dove vivono Gabri e Maia è casa mia.
– E che ci sei stato a fare?
– Gabri rischiava di perdere le gemelle, l’altra notte.
– Ma come? Non è quell’altra a essere incinta?
– Sì.
– E allora?
– E allora Maia rischiava di perdere le gemelle dopo un’incazzatura che si è presa con Gabri. Ma non è questo il punto.
– Infatti non è questo. Sono le puttanate che mi dici, il punto.
– Non ti riconosco. Va bene, sei la bambina viziata di un dentista ricco di provincia, sei cresciuta fuori dal mondo, ma ti credevo capace di pensare che il resto della gente, a differenza tua, ha problemi veri. Gabri l’altra sera mi ha telefonato sconvolta. Maia era andata a dormire da suo marito e l’aveva minacciata di non tornare mai più.
– E tu sei stato con lei a consolarla.
– Sì.
– E a me non hai pensato nemmeno per un momento?
– No. Io penso alle persone solo quando ce le ho davanti agli occhi. Quando non ci sono è come se si spegnessero, nella mia testa.
– Mi pare che Gabrielle e Maia rimangano sempre accese.
– È anche colpa mia se si sono messe in questa situazione, me lo ripetono sempre. Il minimo che posso fare è dare una mano.
– Nessuno ha fino in fondo il merito o la colpa di quello che facciamo.
– Ma io non volevo figli e Gabrielle li voleva più di ogni altra cosa.
– È per questo che ti ha tradito con una donna?
– Non puoi capire, lascia stare. Io non le mollo.
– Perfetto. E io mi sentirò sempre un satellite che gira attorno al pianeta in decomposizione di un matrimonio che non ha avuto la forza di stare in piedi e adesso non ha nemmeno la forza di fallire.
– Mantenere un rapporto con i nostri ex significa mettere un dito in culo alla morte.
– Farlo come lo fai tu significa metterlo in culo alla possibilità di andare avanti. E quindi alla vita.
– Parli come una conduttrice radiofonica di un programma di schifezze sentimentali.
– E tu come uno stronzo. Toglimi un’ultima curiosità. Chi cazzo è questa Pat?
– Una che frequentavo prima di te.
– La fotografa?
– No.
– La costumista?
– No.
Con quello che non c’era più, Lorenzo intratteneva rapporti ostinati.
Il suo libro migliore aveva come protagonista il primo fidanzato di sua madre, un archeologo che un giorno era partito per degli scavi sull’Isola di Pasqua e da quel momento non aveva più fatto avere sue notizie. Sulla scrivania teneva una foto della sua classe in prima liceo. Non riusciva a capacitarsi di essere uscito dall’ospedale per farsi una canna proprio mentre suo nonno stava per esalare l’ultimo respiro.
Anche mentre viveva il momento, da qualche parte in realtà stava confezionando un rimpianto.
– Te lo ricorderai, piccola Lidia, questo periodo passato con un uomo alla deriva come me. E spero lo farai con tenerezza.
– Ma non abbiamo deciso di invecchiare insieme, io e te?
– Certo, certo.
– Ti amo.
– Ti amo anch’io.
– E allora perché dici quelle cose lì?
– Povera piccola Lidia, quanto sei innocente. Mi piacerebbe almeno avere il merito, un giorno, di averti indurito un po’ la pelle.
E ricominciava. Spostare la nostra storia in un futuro che identificasse come passato il presente, sembrava sollevarlo da un peso insostenibile.
Quello della responsabilità di far felice una persona. O di deluderla.
– Non ti faccio mai regali e non ti mando messaggi d’amore perché magari poi ti abitui e il giorno che non lo faccio ci rimani male.
– Però se fossi una tua ex mi riempiresti di attenzioni.
– Che c’entra. Con loro mi viene tutto più semplice, più naturale. Non ci sono doveri, non ci sono responsabilità. Con le ex io mica ci scopo.
Ci credevo. Magari mi avrebbe messo più allegria pensare il contrario. Avrebbe puzzato meno di morte questa sua disponibilità continua nei confronti di Gabrielle e di una lunga fila di donne dalla miccia erotica disinnescata.
Che erano ovunque.
O meglio. Ovunque in quello che io non sono mai riuscita esattamente a delimitare ma che lui chiamava, con un certo orgoglio, il suo ambiente.
– Tu sei davvero deliziosa ma cerca di farlo soffrire, – mi aveva consigliato una rossa appariscente all’inaugurazione di una nuova galleria d’arte in centro, – con uno come Lollo ottieni qualcosa solo se ti fai i cazzi tuoi.
– È più forte di lui, deve infilarlo da tutte le parti, – mi aveva spiegato un’attrice filiforme, dallo sguardo assente e il tono divertito. – E detto fra noi manco è un granché.
– Io ero la luce dei suoi occhi perché lo trattavo di merda, – mi aveva sussurrato a una cena la moglie di un famoso giornalista.
– Perché con me dovresti comportarti in modo diverso? – gli chiedevo io, quando rimanevamo soli.
– Perché sei diversa tu.
– Perfetto. Quella tua amica che collabora per “Il Messaggero” me l’aveva assicurato che mi avresti risposto così.
– Quella non capisce niente.
– Mi pare che di te capisca molte cose.
– Ma dai, avremmo scopato sì e no tre volte.
– Questo non lo sapevo. Io mi riferivo alla recensione che ha scritto sul tuo ultimo libro.
A quest’esercito potentissimo di fantasmi, che era quello delle donne con cui era stato, cominciava poi ad affiancarsi quello delle donne con cui mi tradiva, con cui mi avrebbe tradito.
– Ma come? Non solo lo hai fatto, ma lo hai anche scritto sul diario. Senti qua: Convegno a Udine. Bella serata. Una ragazza dalla vita stretta e i fianchi larghi mi tocca con grande maestria. Alle donne piaccio, non c’è niente da fare. Punto esclamativo.
– È finzione. Sono gli appunti di un racconto che mi è venuto in mente sul treno di ritorno.
– Tu non hai fantasia.
– E tu sei stata in una clinica psichiatrica, mi pare che non dovresti fidarti così tanto di quello che ti metti in testa.
– Questo è vero.
– Ecco.
– Qualunque cosa sia o non sia successa, ti chiedo almeno di evitare di scriverla, la prossima volta.
– Forse sei tu che potresti evitare di leggerla.
Aveva ragione. Ma fra noi ormai era cominciata, silenziosa, una guerra assassina. Io cercavo sul suo cellulare e sul suo diario le prove per potermi liberare o fidare di lui una volta per tutte, uscendo dalle sabbie mobili dell’ambiguità. Ma lui alimentava proprio quell’ambiguità non cancellando i messaggi più compromettenti e di volta in volta però sgridandomi per averli letti, e lo stesso faceva con i suoi appunti. In uno slancio di quelle che apparentemente sembravano dichiarazioni di fedeltà assoluta, un giorno mi aveva urlato in faccia anche la password per entrare nella sua casella mail.
– Lorenzo Ferri tutto attaccato chiocciola yahoo punto it, Hiroshima64, così sai tutto, vuoi deciderti a credere in me o no?
Ogni volta che mi chiedeva fiducia voleva darmi in realtà la possibilità di pentirmi per averlo fatto.
Era un gioco al massacro. Una lotta senza esclusione di colpi. Il limite della correttezza si spostava ogni giorno più in là. Ma non m’importava. Ero disposta a tutto per arrivare dove volevo io. Ci sarà un’entrata alla tua indifferenza, mi ripetevo, alle serate di gomma che passiamo fra persone che si aspettano tu dica certe cose e a cui tu allora dici la vita non ha senso e ridi e fai ridere loro per poi rimanere solo con me e dire la vita non ha senso e piangere e soffiarti il naso sul mio maglione, esisterà un passaggio segreto dove strisciare, strisciare, strisciare, irrimediabile come quello che ti influenza mentre non lo sai, e arrivarti finalmente dentro, nel sangue, definitiva come certe malattie. Per contagiarti proprio di quella che tu, da portatore sano, hai attaccato a me.
E allora, determinata e pazza, quando mi svegliavo andavo direttamente verso il suo cellulare ancora prima di mettere la macchinetta del caffè sul fuoco, e se trovavo il segnale che indicava un messaggio ancora da leggere non mi facevo alcun problema a leggerlo per prima. E magari a cancellarlo.
L’ha voluto lui, mi dicevo. L’hanno voluto loro.
<Bambolotto, ci mandi un bacio sulla pancia che cresce? Yours Gabri>
<Ma pensa. Tu ieri mi dici che continui a sognare le mie caviglie e io indovina un po’ che parte di te ho sognato? F.>
<Grazie. Nessuno aveva mai fatto tanto per me. Appena mi pagano te li restituisco tutti, giuro! Sei meraviglioso. Pat>
<Ce la fai a mandarmi il racconto per l’antologia entro le sei?>
<I miss you too>
<Cenetta e allegati vari come ai vecchi tempi? Da me alle nove. Ho dell’erbetta tanto profumata da farti assaggiare. Vale>
<Il credito sta per terminare. Ricarica almeno 25 euro entro 48 h dall’invio di questo SMS e avrai 48 MMS da consumare in Italia entro 48 h>
<Buongiorno bambolotto. E BUONGIORNO ANCHE A TE, LIDIA, GIOVANE LETTRICE DI SMS ALTRUI. Gabri>
– È un figlio di puttana, prima lo lasci meglio è. – Toni è il regista del mio programma. L’abbiamo inventato insieme, ma è stato lui a sbattersi per trovare una radio nazionale che fosse interessata a trasmetterlo. Siamo arrivati a Roma nello stesso periodo, lui da Napoli e io da Pescara. Ci siamo conosciuti in fila per iscriverci a quello che sarebbe stato per tutti e due il primo esame e abbiamo condiviso lo stesso appartamento praticamente da subito, finché a poche settimane dalla tesi lui una notte ha conosciuto uno svedese che gli ha detto io domani mattina torno a casa, perché non parti con me?, e Toni è partito. Si è messo a fare il cameriere a Stoccolma e dopo un paio di mesi ha convinto il capo del ristorante dove lavorava ad aprire una pizzeria e a darla in gestione a lui. Poi è stata la volta di una sauna a Milano, poi di un agriturismo in Sicilia. In qualunque progetto si lanci, riesce a farsi sempre sostenere da qualcuno e a dare a chi gli sta vicino la sensazione di partecipare a un’avventura imperdibile. Che quando comincia davvero lo annoia e fa continuare agli altri, senza di lui. Giura che con il nostro programma questo non succederà, perché lo sente come il figlio che io e lui avremmo potuto avere insieme, se io fossi stata uomo e gay o se lui fosse stato etero.
Non ha niente di effeminato, non un gesto, non un’ansia inutile, un motivo di divertimento, un desiderio. Gli piace raccontare di aver scoperto la sua omosessualità a cinque anni, durante un campo scuola organizzato dalla sua parrocchia. Di fatto non ha mai toccato una donna nemmeno per sbaglio. Ogni volta che litiga con il suo ragazzo di turno o con il padrone di casa, torna a stare qualche giorno con me. È l’unico uomo con cui posso dire di aver saputo convivere. – Ti sta rovinando la vita, Lidia.
– Da quando lo conosco, invece, per la prima volta mi sembra che finalmente la vita tocchi a me. E comunque ho avuto tre ricoveri psichiatrici in nemmeno trent’anni, non mi pare ci sia molto da rovinare.
– C’è tutto da recuperare, però. E certo non puoi farlo con un tipo del genere.
– È una persona che sta male, Toni.
– Quei tipi lì io li conosco. I chiagn’ e fott’ li chiamiamo a Napoli. Bravi solo a piangersi addosso con la donna con cui stanno e a portarsi a letto tutte le altre.
– Siamo molto innamorati.
– Non farmi ridere. Quello sa amare solo se stesso. Perché non ti viene mai a prendere in radio, per esempio? Ti sembra giusto che una come te all’una di notte gli si consegni a domicilio?
– Sei antico.
– Ah, adesso i pezzi di merda li chiami moderni? Sai che cosa rischi, tu? Che con questa storia del rifiuto della famiglia borghese, per fare l’alternativa, ti prendi invece le cose peggiori della famiglia borghese, come tradimenti, ipocrisie e sotterfugi, senza prenderti nemmeno le cose buone, come, che ne so, un po’ di protezione, ecchecazzo, un po’ di complicità.
– Per favore, Toni.
– Per favore lo dico io a te, Lidia. Tu non capiti tutti i giorni. Sei la sola donna con cui non considero uno spreco passare il tempo. Puoi avere tutti gli uomini del mondo, sai fare le battute che le femmine di solito nemmeno capiscono. Sei il mese di ottobre del calendario di Intimissimi.
– Capirai.
– No no, io non capirò, capisco adesso. Quello lì mica è scemo. Prende tutto e non dà niente.
– Ti sbagli. Io gli devo moltissimo.
– Per esempio?
La luce di certe giornate invernali, la cipolla nell’insalata, la prosa di Agota Kristof, i contrasti delle fotografie di Walker Evans, gli effetti della marea su un’isola thailandese, le scale di Viterbo.
Gli devo tutte le cose che ho imparato a guardare con la sua capacità di farlo.
Gli devo le magliette corte e i jeans stretti, perché prima di conoscerlo nemmeno il mio corpo mi era perfettamente chiaro, e lo portavo in giro sprofondato in pantaloni a palloncino e camicioni di due taglie più grandi della mia.
Gli devo Capri e Angkor Wat e San Liberato, tutti i posti dove siamo stati insieme – Milano, Teramo, Ostia Antica, Krabi, Bracciano, Fara Sabina, Parigi, Lecce, Terni, Spalato, Saigon, Venezia, Atene, Sulmona, Aosta, Matera, Palermo, Avellino, Civita Castellana, Real de
Catorce, Napoli, Amsterdam, Ventotene, Livadi, Prato, Lugano, Batses, Torino, Lahina e poi non mi ricordo più, comunque glieli devo –, gli devo Roma.
Gli devo la differenza fra quello che è bello e quello che è brutto.
Il conforto di quella differenza.
Gli devo Magic Kingdom di Stanley Elkin.
I fuochi di Herzog.
Le galassie di Kiefer.
I fumetti di Julia.
Gli devo il fatto di essere stato il primo uomo a interessarmi anche dopo tre mesi.
La mostarda sulla bistecca.