Quello che mi impressionava era il completo disinteresse che faceva da spettatore al suo malessere.

Eppure il cellulare gli squillava di continuo, ogni sera era invitato ad andare da qualche parte, il suo nome era in cima alla lista dei ringraziamenti di tutti i libri degli scrittori più importanti del momento.

– Non è colpa degli altri, sono io che non mi confido con loro, – sosteneva, sempre più incline a barattare frustrazioni fra sé e sé che a farlo col resto del mondo. Le cui frustrazioni invece, ovviamente dipendevano da lui.

– Rovino tutte le esistenze che sono o entrano in contatto con me. Guarda i miei genitori. Professori universitari stimati da tutti, due belle persone. Che per figli infatti si meritavano i miei fratelli. Ma non uno come me. Uno che quand’era ragazzino li ha fatti solo preoccupare, che a quattordici anni è scappato di casa per la prima volta e non ha mai smesso di farlo, uno che oggi non ha nemmeno un posto fisso.

– Ma se tua madre si ritaglia tutti gli articoli che parlano di te e se li conserva! Hai due genitori pazzi di te, da qualche parte secondo me lo sai pure tu.

– E allora prendi Gabri. Avrebbe potuto avere una vita diversa se io non fossi mai esistito, me lo ripete in continuazione. Conta che per metà è americana ed è perfettamente bilingue: quando l’ho conosciuta aveva trent’anni, stava per laurearsi in Psicologia e magari a quel punto avrebbe potuto andarsene a fare un corso di sceneggiatura a Los Angeles, dice, o qualcosa del genere. Per colpa mia invece la sua carriera non è mai decollata, lei ha avuto un matrimonio a forma di centro sociale e adesso si ritrova in una situazione assurda.

– Dai, su. Se credi che qualcuno possa realmente distruggere o migliorare la vita di un altro allora comincia pure ad andare a messa la domenica. E poi vi sarete anche dati, mica solo tolti.

– Sì, è vero, a casa nostra c’era una festa ogni sera, succedevano un sacco di cose. Ma come ne possono succedere a Paperopoli. E nessuno, alla lunga, può vivere in un fumetto. A parte me.

Perché in effetti, uno a uno gli amici con cui era cresciuto, con cui aveva condiviso vacanze e aspettative, con cui aveva sognato di aprire un locale a Koh Phangan, al momento giusto avevano incontrato una persona, erano andati a vivere con lei, ci avevano fatto un figlio, erano entrati nel mondo una volta per tutte, insomma. Lo avevano tradito. Nei loro confronti Lorenzo esprimeva di volta in volta cieca ammirazione o cupo rancore.

– Ti rendi conto? Giorgio sta progettando un soppalco per l’arrivo del suo secondo figlio. Ecco cosa vuol dire essere un costruttore del reale. E non il suo pus, come me.

– Non farò come loro, non farò per niente come loro. Fino a ieri vi facevate le pere sul letto di casa mia, io mica me lo dimentico. E adesso guardali, Lidia. Un’armata del bene che spinge carrozzine e mi domanda se gentilmente posso andare a fumare la mia sigaretta in balcone.

Sosteneva che quando i suoi amici andavano a trovarlo per farsi una canna, cenare con una scatoletta di tonno, sindacare sull’insignificanza della vita come ai vecchi tempi, lo facevano tuttavia con la rete di sicurezza dei nuovi, che non garantiva loro più nessuno spunto interessante, nessuna emozione.

– Perché dopo qualche ora di vacanza dal reale nel Grand Hotel delle Illusioni Perdute che è per loro questo monolocale, ognuno torna alla sua illusione, alla sua famigliola. E lo fa solo perché deve, Lidia, perché ormai è in trappola. Credi a me. Se potesse, manderebbe tutto all’aria e capirebbe di aver fatto una stronzata. Casa per noi è sempre stato uscire nella notte tutti insieme. Nient’altro.

E invece adesso ognuno era costretto a considerare casa come casa propria, mentre lui riusciva perfino a vivere lontano dalla sua, sospirava, su un divano sporco di mestruazioni, libero di lanciare in aria una pallina anche per un giorno intero senza che nessuno gli desse un motivo valido per smetterla, di cenare con Nutella e amfetamine, di telefonare a Vento e chiedergli mi presti quei due dischi?, che potevano essere anche tre o quattro, dipendeva quanta roba gli servisse, se volesse fumarsela da solo o in compagnia.

– Basta saperle usare, certe sostanze.

A parte una quantità industriale di hashish, e dell’erba che ogni tanto fumavamo insieme, non usava mai nessun altro tipo di droghe in mia presenza. O almeno così sembrava. Ma io non ci capivo niente. Gli unici che consideravo davvero dei tossici erano quelli col cervello ormai completamente in panne che avevo conosciuto a Villa Maria Pia. Lorenzo continuava a scrivere saggi, veniva chiamato in tutta Italia per tenere conferenze, insegnava all’università. Che gestisse le droghe come a cena le persone fanno con il vino, bevendo quel tanto che basta per alleggerire la testa senza far sì che il giorno dopo pesi come un macigno, mi sembrava possibile. Meno, quando non lo vedevo per giorni e lo ritrovavo accartocciato ai piedi del letto. Quando non si lavava per settimane di fila. Quando una sera stavamo guardando la televisione e all’improvviso è schizzato in piedi dal divano e ha urlato scusi signore, stia attento a dove parcheggia la prossima volta. Senza poi riuscire a ricordarsene.

– Forse stai un po’ esagerando.

– L’importante è non spararsi mai niente in vena. Ma che ne vuoi capire tu.

– Io niente, ma ieri mi ha telefonato tuo fratello, e mi ha detto che è molto preoccupato perché…

– Vuoi mettermi contro mio fratello?

– È stato lui a cercarmi.

– Forse perché vuole portarti a letto. Sua moglie è frigida.

– Dovresti parlarci.

– Con sua moglie? Dici che io ce la faccio a farle fare un paio di urletti?

Mi guardava con aria di sfida.

Era insopportabile.

La mia dannazione.

Il mio torturatore.

Il mio bambino dolcissimo in cerca di attenzioni.

Si incazzava solo quando parlava con me o con i suoi fratelli. Era come se le uniche persone che davvero gli volevano bene dovessero espiare la colpa di farlo. Doppiamente colpevoli se lui le ricambiava.

Aveva ovunque la fama dell’uomo mite e disponibile, e in effetti era sempre pronto a dare un consiglio di lavoro efficace o a confortare un amico abbattuto da un insuccesso. Non lo sentivo mai fare commenti anche solo vagamente dettati dall’invidia o dal rancore, e non se la prendeva mai con nessuno. Mi sembrava superiore rispetto a tutte le recriminazioni, le meschinerie e i ricatti sotterranei che fanno del mondo il posto peggiore in cui trattenersi a lungo. Ma nel frattempo accumulava odio e rabbia come in una montagna enorme d’immondizia, senza decidersi mai a passare allo smaltimento dei rifiuti. Così chi gli stava accanto – senza accorgersene e senza averne alcun diritto, come facevo io per prima – si ritrovava a gestirli al posto suo, quell’odio e quella rabbia. E a indirizzarli un po’ dove capitava.

– Possibile non ti sia dispiaciuto nemmeno un po’ quando tua moglie ti ha lasciato per quella tizia? – lo provocava suo fratello.

– Ma che male c’è? Le andava di fare così e l’ha fatto, – rispondeva lui.

– Possibile che non ti ha fatto rodere il culo la stroncatura di quel tipo che hai fatto assumere tu al giornale dove scrive? – lo incalzava sua sorella.

– Cose che capitano.

– Non ti va di tornare a stare a casa tua?

– Ogni tanto, ma per ora sto bene così, questa tana è lurida proprio come me, mi somiglia, mi piace.

Non c’era verso, per chi lo amava, di scoprire cosa realmente provasse. E a lungo andare mi rendevo conto che non c’era verso nemmeno che lo scoprisse lui e che anzi, se quanto gli passava per la testa evitava di dargli troppe informazioni era meglio. Mi ricordava la profezia che fa Tiresia quando la madre di Narciso gli chiede come sarà la vita di suo figlio, e l’indovino le risponde che il ragazzo potrà essere felice a patto che non conosca mai se stesso. Una mancanza di consapevolezza come elisir di lunga vita, insomma.

– Non esiste soluzione a nessuno stato d’animo, a nessun problema, a nessuna condizione. Esiste solo l’oblio. Il mondo è il sogno di un ubriaco.

Anche nei miei confronti ostentava la stessa indifferenza. Non si ricordava quand’era il mio compleanno, non ascoltava il mio programma, s’inventava sempre scuse per non accompagnarmi a Pescara e conoscere i miei genitori. Dove tutti gli uomini che avevo incontrato prima di lui avevano passato notti intere ad ascoltare la storia della mia vita per interpretare le ragioni dei miei ricoveri, Lorenzo nemmeno era curioso di sapere cos’avevo fatto nel pomeriggio.

– L’anoressia è solo una delle tante forme della stupidità borghese unita a quella femminile.

– Ma non conta la malattia che ha avuto una persona, secondo me conta con chi la malattia ha avuto a che fare.

– E questa chi te l’ha detta, l’analista? Guarda, per i miei gusti ne abbiamo già parlato troppo. Sappi che non ho nessuna intenzione di stare a sentire ogni giorno il bollettino di quello che hai mangiato e di quello che hai vomitato. Dunque vedi di non rompere i coglioni se vuoi stare con me. E non lo dico come potrebbe dirlo qualcuno che in realtà sta cercando di aiutarti. Toglitelo dalla testa. Certe cose proprio non mi interessano.

Era vero. Di me sapeva pochissimo e sembrava non voler capire niente. Ma in certi momenti, all’improvviso, con lo slancio dell’intuizione di un dio bambino arrivava oltre.

– Le anime investigative come la tua sono anime salve, ma condannate. Qualcuno quand’eri piccola deve averti fatto molto male e tu chissà perché ti sei messa in testa che avresti potuto evitarlo, come se non fosse proprio il male, il tessuto di tutte le cose.

E subito dopo ricominciava con i discorsi di sempre. Mettiti tranquilla, mi diceva. Abbattiti. Vota al cinismo e alla disfatta tutto quello che pensi di dover pensare.

Ma io non penso di dover pensare proprio niente, mi difendevo, e allora lui mi faceva il verso con la voce di Stanlio, lei non pensa di dover pensare proprio niente, diceva, e un po’ mi veniva da ridere, un po’ da incazzarmi, ma quasi sempre da ridere. E facevamo l’amore. E ci guardavamo fissi. E ci promettevamo di non litigare più, perché insieme stavamo troppo bene quando stavamo bene.

– Ti amo, vecchio Stitch.

– Ti amo, piccola Lilo.

Gli unici paragoni che ci sembravano fare al caso nostro erano quelli con i personaggi dei cartoni animati. Nel suo immaginario Lorenzo era il pesce giallo e blu ferito nell’acquario dove va a finire il piccolo Nemo, era Spugna l’aiutante di Capitan Uncino ed era Scar, lo zio cattivo del giovane Re Leone, mentre, sempre secondo lui, io ero il piccolo Nemo, il giovane Re Leone ed ero Wendy, che sa volare sull’Isola che Non C’è ma può anche tornare a casa – questa la sua tragedia, questa la sua fortuna, diceva.

Eravamo Lilo e Stitch.

– Una bambina delle Hawaii sola al mondo e un mostro orribile programmato per distruggere, ma che insieme imparano che ’Ohana vuol dire famiglia.

E famiglia, dice Lilo, vuol dire non venire abbandonato.

O dimenticato.