Molte donne con cui era stato volevano un figlio da lui, ma Lorenzo non se l’era mai sentita.
Con qualcuna ci aveva provato ma non ci erano riusciti.
La moglie del maestro di respirazione aspettava con Gabrielle due gemelle da suo marito, ma il vero padre di quelle figlie in qualche modo sarebbe stato Lorenzo.
Con la nascita di quelle bambine Lorenzo e Gabrielle si sarebbero separati una volta per tutte.
Io ero la prima donna con cui Lorenzo non avrebbe vissuto come una tragedia avere un figlio.
Comunque sarebbe stato molto difficile che Lorenzo mettesse incinta una donna.
Comunque sarebbe stato impossibile.
Fra tutte le bugie pronte per l’uso di una verità troppo scomoda da accettare, le infinite versioni del figlio che non aveva mai avuto e di quello che un giorno avremmo potuto avere insieme erano le più pericolose in cui addentrarsi.
Ti bruciava la testa, a stargli dietro. Erano attentati continui al bisogno che avevo di placare l’ansia, capire. Voler ricostruire com’erano andati i fatti in quel caso era semplicemente impossibile.
Perché era quello, il punto.
Quello, il nervo scoperto.
Il problema.
L’anello debole che avrebbe spezzato la catena.
Avere un figlio. Concepire. Concepirsi. Svolgersi. Non ricominciare tutti i giorni lo stesso giro sulla giostra dei propri fallimenti.
– Io non so accudire niente, Lilo, come potrei occuparmi di un bambino, me lo spieghi? Lo vedi come vivo, come striscio da una giornata all’altra, mi immagini a fare il padre? – Mi domandava di tanto in tanto, all’improvviso.
– Ma non credo che esista un modo solo per…
– No, no, ti prego, non mi dire quella cazzata che ognuno può fare le cose a modo suo perché non ci credo.
Non intendevo dirgli quello, ma non perdevo tempo a puntualizzare: su quest’argomento Lorenzo era sordo a qualsiasi spunto di riflessione, il resto del mondo non poteva dimostrargli niente, era una questione fra sé e le sue paure più profonde, fra sé e l’immagine di sé che da sempre si portava appresso.
Era il suo incubo più insistente.
Quando prima di dormire andavo in bagno per lavarmi i denti, mi arrivava alle spalle come un avvoltoio e cominciava a dirmi lo vedi? io non sono come voi, non sono per niente come voi, bravi soldatini del reale che la sera usate il vostro spazzolino e poi vi mettete a fare la ninna fiduciosi di esservi meritati il vostro posticino in un futuro pieno di speranze, di biberon, di dolci abitudini familiari del fine settimana.
Non sono per niente come voi.
Che rinunciate senza battere ciglio alla vostra libertà, al vostro tempo, che rinunciate ad andare a una festa per mettere a letto un mostriciattolo che ha bisogno di voi pure per respirare, che rinunciate a quello che eravate, a quello che potevate diventare.
Non sono per niente come voi, ripeteva fra sé e sé, quando per strada o a casa di amici o perfino in televisione vedeva un qualunque bambino dormire o mangiare, dire alla mamma – o peggio ancora al papà – mi scappa la pipì.
– Non sono per niente come voi. – E se ce l’avesse davvero con i genitori di quei bambini o invece con quei bambini stessi, veniva da chiederselo.
Piccolo Feto
Fai la tua scelta
Piccolo Feto
Non aspettare
Piccolo Feto
La vita è bella
Piccolo Feto
Non ti drogare.
Spesso canticchiava una filastrocca che faceva più o meno così. Ogni volta si inventava una strofa nuova, ma il senso era quello di un inno sarcastico alla vita e alle sue responsabilità che cantava a se stesso per sfoderare in faccia a me quanto poco c’entrasse lui con i comandamenti di un’esistenza che mirasse a una qualche conquista, votata a un’idea positiva o quantomeno possibile del divenire.
Voleva farmi ridere e ci riusciva.
– Lo vedi che allora lo sai anche tu che uno come me non potrà mai costruire niente? Che ti viene da ridere solo all’idea?
– Non è mica detto che…
– Sì, sì, adesso mi dirai che esiste la possibilità di fare le cose che fanno tutti gli altri ma a modo proprio, e questo fa la differenza, ma, mia piccola innocente Lilo, un attimo prima di diventare tutti gli altri ognuno pensava di poter essere qualcosa di diverso.
Niente, non c’era possibilità di intervento.
Non c’era spazio.
Non c’era verso che se ne rendesse conto. Del fatto che c’ero. Che proprio mentre si malediceva per non saper costruire niente, lo stava facendo con me.
Stavamo costruendo qualcosa. Possibile che non se ne accorgesse?
Magari non lo facevamo sulle note trionfanti di una marcia nuziale, certo. Ci limitavamo a farlo su quelle di Piccolo Feto.
Pensavo valesse comunque.
Lui no? Davvero?
Certo che lo pensava anche lui, mi dicevo, quando il venerdì sera salivamo in macchina e andavamo a rifugiarci in Umbria, dove la sua famiglia aveva una piccola casa nascosta nella campagna di Terni, faccia a faccia con il lago di San Liberato e i suoi silenzi.
Lo pensava anche lui, quando ci arrampicavamo sulla collina di San Liberato e guardavamo l’inverno diventare primavera e la primavera estate, mentre l’azzurro del lago si faceva più profondo.
Lo pensava, quando la domenica ci raggiungevano anche i suoi fratelli e il suo nipotino lo prendeva per mano e gli chiedeva zio Lollo mi compri un gelato? e lui lo guardava confuso e rapito e gli rispondeva andiamo, ma viene pure zia Lidia.
Lo pensava, mi dicevo.
Anche se nella notte piangeva forte ho paura di vivere ma anche di morire, niente potrà mettermi in salvo, niente.
Anche se un giorno sì e l’altro pure Gabrielle lo chiamava e gli diceva mi sa che sono arrivate le doglie, siamo sole a casa e non abbiamo la macchina, corri qui?
Anche se continuava il nostro scontro sotterraneo a colpi di pagine di diario e di messaggi sul telefonino lasciati lì come una trappola perfetta in cui la mia paura di venire abbandonata puntualmente cadeva.
<Ti bacio lì, dove se mi ricordo bene più ti piace. Anna>
<TIM Servizi di Segreteria Telefonica. La sua Segreteria-Telefonica contiene 2 nuovi messaggi. È possibile chiamare il 49001 per ascoltarli>
<Festa sulla spiaggia per i miei quarant’anni. Musica e melanconia garantite. Che fate tu e Gabri, venite?>
<Bambolotto, ci porti una vaschetta di gelato? I gusti li sai. Yours G.>
Ma quando eravamo in campagna tutto sembrava più facile.
Lontani da Roma, perfino l’alito pesante del senso di colpa per tutti i mali del mondo che gli si appiccicava addosso si faceva respirabile.
Toni alla fine in qualche modo si era affezionato a Lorenzo. Come tutte le persone che mi volevano bene e mi avevano scortato da un ricovero in clinica all’altro, riconoscevano a quella mia storia d’amore tutta storta il merito di avermi in qualche modo sottratta o quantomeno distratta dalla lotta senza regolamenti che per più di dieci anni si era combattuta dentro di me, a mie spese, senza che io potessi mai intervenire. Da quando stavo con Lorenzo, forse addirittura grazie alla sua indifferenza verso il mio rapporto malato con il cibo, per la prima volta riuscivo anch’io a concentrarmi meno su quell’ossessione.
Che come tutte le ossessioni, per sua stessa natura, solo se indisturbata poteva andarsene: di soppiatto, così come era arrivata.
Se ci era voluta una gita turistica in un’altra forma di disperazione per abbandonare la mia, i miei amici e i miei genitori erano perfino disposti a salutare con un certo entusiasmo quella gita.
Basta che fai in fretta, però, aggiungevano tutti.
Basta che prima o poi esci anche da questa specie di anti-camera della vita com’è per davvero, e finalmente ti ci butti.
– Ma la vita com’è per davvero io la voglio solo se c’è Lorenzo.
Spiegavo a Toni, che dopo le sue resistenze iniziali mi capiva sempre un po’ di più, fino ad arrivare a insistere per accompagnarci all’aeroporto il giorno della nostra partenza per la Thailandia.
Fate i bravi, si era raccomandato Toni, non litigate e se scoprite che non è vero che gli asiatici ce l’hanno piccolo portatemene uno in regalo.
Avremmo passato in Thailandia tutto il mese di agosto.
Avevamo lasciato a casa i cellulari e finalmente c’eravamo solo noi due e ci raccontavamo tantissimi segreti e facevamo l’amore da tutte le parti e mangiavamo tagliolini di soia fino a sentirci male, per la prima volta ci sembrava possibile che una giornata potesse bastare a se stessa, senza pagare una tassa agli errori di quelle che erano venute prima, alle incertezze di quelle che sarebbero venute poi.
Lorenzo era davvero lì con me. A tenermi la fronte una notte in cui continuavo a vomitare verde, a discutere se incidere le nostre iniziali in ogni bungalow dove dormivamo fosse didascalico, a essere didascalico, a chiedermi non sei d’accordo?, perché secondo lui se fosse stato concepito proprio allora proprio lì, nostro figlio qualche stratagemma per essere felice un domani l’avrebbe trovato.
Fu un mese di continue prime volte.
E in aeroporto ecco di nuovo Toni, che voleva chiedere e sapere e raccontare mi sono chiuso un fine settimana intero in un motel con un marinaio di Salerno, la Lazio si è comprata Rocchi, il rubinetto della doccia perde e quanto quanto quanto mi siete mancati, pure tu Lorenzo, ti dirò, pure tu.
Ridevamo, in macchina, tutti e tre.
Il mio problema più grande in quel momento era se Santi, il gibbone che avevamo adottato a distanza nella riserva naturale di Khao Phra Taew, sarebbe prima o poi riuscito a mangiare senza l’aiuto dei volontari.
Eppure la fine era vicinissima.
E a me sembrava impossibile.
Quel giorno di fine estate, in macchina, di ritorno da Fiumicino.
Pochi mesi prima dello Tsunami.
Poche settimane prima di una mattina in ospedale, a farmi ricucire il mento.
Quando il Sud-Est asiatico stava ancora lì tutto intero.
E la nostra storia anche.