Chi mi voleva bene era preoccupato dalla possibilità che la fine così traumatica della mia storia con Lorenzo potesse portarmi di nuovo dritta in una clinica psichiatrica e che tornassi a ripararmi sotto l’ala protettiva di vecchi comportamenti.

Successe esattamente il contrario.

Spaccarmi il mento era stato una specie di battesimo. Era come se da quel momento in poi non potessi più tornare indietro: ormai c’ero, partecipavo anch’io ai giochi di quello che può riservare la vita, ero a sua disposizione.

Non ero più la sola a potermi umiliare o a scegliere di non farlo.

I fatti avevano trovato il modo di riuscirci meglio di me. Se concedevo loro spazio, anzi, avevano dimostrato di avere perfino una certa fantasia, nel decidere come farmi male e come – con chi – farmi stare bene.

Ancora non lo sapevo, ma da quel momento in poi, lentamente e progressivamente, avrei rinunciato per sempre al mio sforzo disperato di controllare il cibo e gli umori degli altri e le loro espressioni e quello che non sapevo, il mondo.

Se le cose che mi succedevano ormai avevano il potere di farmi finire in ospedale, tanto valeva che smettessi di farlo io.

Strano.

Negli anni passati a entrare e uscire da Villa Maria Pia avevo sempre fantasticato sulla mia guarigione immaginandola come un’entrata trionfale nel mondo reale.

Dove invece ero entrata ruzzolando dalle scale.

Col mento spaccato.

Il momento peggiore era quello del risveglio.

Che avessi avuto l’incubo in cui rivivevo la scena di quella notte o un sogno in cui quella notte non era mai esistita e io e Lorenzo continuavamo a stare insieme più felici ancora di quanto eravamo mai stati nella realtà, affrontare la giornata a quel punto mi sembrava già completamente inutile.

Mi trascinavo fino al bagno e ancora prima di bere un caffè o mangiare qualcosa mi aggrappavo al water e vomitavo succhi gastrici e materiale onirico.

Poi mi sedevo al computer. E mi collegavo alla casella mail di Lorenzo.

Dove rimanevo per tutto il giorno, fino a quando non arrivava il momento di andare in radio. Anche lì, prima che cominciasse la diretta, facevo un altro salto su Yahoo, per vedere se nel frattempo era successo qualcosa di nuovo. Erano gli ultimi, grotteschi tentativi di continuare a difendermi mortificandomi da sola.

Studiavo le sue comunicazioni di lavoro, stampavo gli allegati in cui spediva i suoi pezzi al giornale, leggevo perfino il suo spam.

Olimpia gli scriveva tre volte al giorno lettere lunghissime, e io le imparavo a memoria riga per riga.

– Toni, secondo me questa se la sposa e ci fa un sacco di bambini.

– Per favore, Lidia.

– Ascolta qui! Stanno insieme solo da una settimana e lei già gli scrive che la prossima volta che lui va a Procida vuole organizzare una festa per fargli conoscere tutti i suoi amici!

– Vuol dire che non scopano bene, altrimenti vorrebbero rimanere da soli.

Qualunque tentativo di farmi ragionare era vano.

Mi ero messa in testa che Lorenzo avesse trovato la persona giusta e con lei il modo per farcela, per togliersi di dosso il peso di tutta la sua disperazione.

In ogni riga di quello che riceveva o che spediva cercavo una traccia di questa capacità di vivere riconquistata.

Finché una mattina, dopo un mese passato interamente su quella casella mail, l’accesso mi era stato negato.

Password non valida, mi aveva informato il server di Yahoo, hai dimenticato la tua password?

Magari avevo sbagliato a digitarla.

Hiroshima64.

Password non valida, hai dimenticato la tua password?

No, non l’avevo dimenticata.

Ma ero stata scoperta. Lorenzo mi conosceva bene, sapeva che leggere la sua corrispondenza sarebbe stato un modo come un altro per non perderlo del tutto e aveva deciso di liberarsi definitivamente di me. O magari permettere a me di liberarmi definitivamente di lui. È andata certamente così, mi dicevo. Sta passando un periodo talmente bello che adesso trova perfino il tempo per preoccuparsi degli altri, di me.

Solo più tardi sono venuta a sapere che era stato Toni a telefonargli e a chiedergli di cambiare password. E che lì per lì a quella richiesta Lorenzo aveva risposto: – Ti ringrazio per l’informazione, ma non ti preoccupare, se Lidia si diverte a me non dà nessun fastidio. – Senza arroganza, ma con quella sincera incapacità d’attenzione a quanto non lo riguardava personalmente che quando non ne ero stata io la vittima mi aveva incantata. (Lorenzo che al cinema mi dice usciamo perché se non posso identificarmi in nessuno dei personaggi mi annoio troppo, Lorenzo che si addormenta guardando la finale degli Europei di calcio, Lorenzo che non parla mai male di nessuno e giustifica tutti, Lorenzo che presta soldi in giro e non li chiede indietro mai, che li chiede in prestito e non li restituisce, Lorenzo che incrocia per strada una donna con cui è stato e che ha lasciato da un giorno all’altro e si domanda ma perché non mi saluta più.)

Comunque fossero andate le cose, perdere la chiave che avevo a disposizione dell’ultima entrata di servizio alle sue giornate era stato un bene.

Ed era un bene anche quello che mentre stavamo insieme avevo sempre considerato un male, quello di vivere in quel quartiere arancione e rosa che gli faceva schifo, sempre lontano da tutto, adesso dalla possibilità di incontrarlo per caso.

Ce l’avevo addosso da tutte le parti, come un tumore. Non alimentare quella malattia con nuove immagini e nuovi spunti di riflessione su di lui magari mi avrebbe fatto guarire prima.

Almeno così sostenevano i miei ascoltatori: perché avevo perso qualsiasi freno inibitore e avevo cominciato a chiedere consigli personali anche a loro.

Che lì per lì mi irritavano. Mi sembravano semplificare, parlare per luoghi comuni.

Ma stare male per amore è una semplificazione.

Ce l’ha come sfondo, il luogo comune.

E allora è vero che a quel punto bisogna ricominciare da sé.

Buttarsi sul lavoro.

Uscire, vedere gente.

Iscriversi a un corso di tango.

Partire.

Pensare al tradimento come a un’informazione su chi ce lo ha inflitto, non come a una conferma di quanto ce lo meritavamo noi che l’abbiamo subito.

Pensare all’abbandono come a una possibilità.

È tutto vero.

Anche se pensiamo che nessuno può capire quello che stiamo passando perché nessuno è speciale come noi e nessuno, soprattutto, ha mai incontrato qualcuno speciale come la persona che avevamo incontrato.

– A meno che non ci serva come alibi per qualche nostra incapacità personale, la sofferenza per amore ha una quantità finita, – aveva sentenziato un giorno una sessuologa che avevo coinvolto in una delle tante puntate mandate in onda a uso e consumo di quello che stavo passando.

Non ho mai smesso di pensare che Lorenzo mi fosse necessario.

E non l’ho mai odiato per il fatto che evidentemente io non fossi necessaria a lui.

Però lentamente ho cominciato a districarmi da quella necessità.

A contenerla in una consapevolezza triste che non schizzasse la sua rabbia da tutte le parti.

Mi sono buttata sul lavoro.

Sono uscita, ho visto gente.

Non mi sono iscritta a un corso di tango.

Però sono partita.

Mi sono rifugiata a Pomaia, un piccolo centro dalle parti di Pisa, nel monastero tibetano Lama Tzong Khapa, il più grande di tutta Europa, dove mi ero iscritta via Internet a un corso di meditazione sperando di trovare un po’ di pace per poi accorgermi, una volta arrivata lì, che ero fin troppo brava a rimanere immobile per cinque ore di fila con gli occhi chiusi perché così ero libera di pensare a Lorenzo tutto il tempo.

Ho accettato una lunga serie di inviti che avevo sempre rifiutato dei miei amici sparsi per l’Italia e perfino di un paio di ascoltatori.

A Natale sono andata a sciare sulle Dolomiti.

Sono andata a Venezia per il Carnevale.

A Perugia per la Festa della cioccolata.

A Pescara per il matrimonio di una mia cugina di terzo grado.

Ho preso dieci giorni di ferie e sono andata a New York con Toni.

Ogni tanto tornavo a confidarmi con il mio psichiatra di un tempo.

– Quello che più mi manca di lui sono io quando stavo con lui. Perché di me non chiedeva mai niente, ma mi dava l’impressione di conoscere tutto.

– Mi spieghi meglio.

– Per esempio secondo me da qualche parte aveva intuito da dov’è che venivano tutte le mie paure. E l’aveva fatto anche meglio, mi perdoni, di qualsiasi suo collega.

– Quanto lei chiama conoscere o intuire non dovremmo forse chiamarlo manipolare?

– In che senso?

– Nel senso che alcune persone riconoscono istintivamente i nostri punti deboli e sfruttano proprio quelli per legarci a loro. Fanno un po’ come fa un medico generico che tasta il paziente e gli chiede fa male qui? e qui? e appena il paziente gli dice sì, invece di dargli la medicina giusta continua a spingere.

– E le pare poco, scusi?

– Cosa?

– Scoprire dov’è che fa male.

Nel frattempo il ventisei dicembre un’onda gigante si era portata via gran parte dell’Asia e tutti i posti dove conservavo i miei ricordi più belli con Lorenzo.

Guardavo attonita il tapis roulant di immagini del telegiornale che mostravano l’albergo dove avevamo dormito a Phuket sollevarsi in volo e schiantarsi per aria.

Fuori di me sembrava non ci fossero più tracce della mia storia d’amore.

Anche il giorno in cui ci eravamo conosciuti, il ventinove febbraio, era l’unico a mancare all’appello dell’anno dopo.

Tutto mi dava il permesso di andare avanti.

Di passare la notte col nuovo giornalista del GR che era arrivato in radio, con il testimone del marito della mia cugina di terzo grado, con il barista del locale in Prince Street a New York, con un amico della sorella di un fidanzato di Toni.

Ma cadendo dalle scale quella mattina insieme alla malattia che mi aveva tenuto compagnia per più di dieci anni sentivo di aver perso anche il fascino che esercitavo sugli uomini.

Come gli dèi a cui viene tolta d’improvviso l’immortalità, senza le nevrosi di un tempo mi sentivo insicura, non ricordavo più a memoria il copione che prima di conoscere Lorenzo recitavo durante un primo appuntamento.

Non ero più la puttana che voleva uno o la brava bambina che voleva l’altro.

Contrastavo i pareri delle persone con cui uscivo.

Lasciavo languire conversazioni.

Se non mi andava di fare sesso, lo dicevo.

Correvo il rischio di venire considerata una qualunque.

Di venire sostituita facilmente.

Gli uomini che frequentavo avevano senso solo per venire paragonati dentro di me a Lorenzo e possibilmente per non reggere il confronto. Da qualche parte se ne accorgevano e io non facevo niente per far credere il contrario.

Lorenzo questa cosa qui non l’avrebbe mai detta, pensavo, questa non l’avrebbe mai fatta. Lorenzo avrebbe capito subito che questa che ho appena fatto era una battuta, Lorenzo sapeva che non dicevo mai niente sul serio, Lorenzo non si sarebbe mai messo una camicia così, anzi, Lorenzo le camicie non se le metteva proprio, gli facevano schifo le camicie, usava solo magliette lui, e volete saperla un’altra cosa? non usava nemmeno le mutande, sì, un giorno si era dimenticato di mettersele e poi aveva capito che poteva benissimo farne a meno, e allora non vedo perché tu devi usare i boxer e tu invece gli slip, come se non ci fosse un’alternativa.

Degli incontri che ho fatto in quei mesi ho ricordi confusi, i loro contorni sfumano nell’allucinazione.

A parte uno.

Ero sul treno che mi avrebbe portato a Milano per la solita diretta con la presenza del pubblico in studio.

Lui era salito a Bologna e si era seduto davanti a me. Aveva gli occhi veloci e blu, poco più di trent’anni, qualcosa di leonino che gli correva lungo la fronte e un’espressione spalancata che sembrava parlare di libertà. Si chiamava Roberto. O forse Riccardo.

Non è importante. Se ho capito bene faceva il biologo, si occupava di fondali marini, e tornava da Ferrara dove era stato al concerto dei Radiohead.

Ma nemmeno questo è importante.

L’importante è che durante le poche ore di viaggio che mancavano il tempo mi era sembrato sopportabile. Addirittura facile.

Avevamo giocato a Nomi Città Cose Animali, ci eravamo bevuti tre confezioni di Tavernello nella carrozza ristorante e ci eravamo nascosti in bagno a fumare.

Una volta arrivati a Milano mi aveva chiesto il numero di telefono.

– Se un giorno passo da Roma magari ti chiamo, – mi aveva detto. Ed eravamo scoppiati a ridere come per dire tanto non succederà mai.

Poi era sceso dal treno ed era andato incontro a una bellissima ragazza mulatta che lo aspettava sul binario e gli si era allacciata al collo.

Lorenzo faceva ancora male. Ma non abbastanza, se per un istante avevo pensato che sarebbe stato bello essere al posto di quella ragazza.

Buon segno, mi sono detta.