Il processo per la casa nel frattempo andava avanti.

– Non vedo l’ora che finisca tutta questa storia, – diceva. – Non ce la faccio più a vivere come un barbone, un po’ da una parte un po’ da un’altra. Nietzsche dice che un uomo senza casa è un uomo pericoloso.

– È quasi un anno che vivi qui con me.

– Ma questa è casa tua.

– Potresti mettere i tuoi vestiti in un armadio e sistemare il tuo beauty-case in bagno, così la sentiresti anche tua. Potresti farti mandare la posta qui, invece di continuare a riceverla a casa di Maia e del maestro di respirazione.

– A casa mia, vuoi dire.

– Sì, insomma, cosa voglio dire l’hai capito.

– Odio questo quartiere, lo sai. È costruito esclusivamente per famiglie, non per gente come me.

– E allora potremmo andarcene da qui tutti e due. Mettiamo insieme i tuoi soldi e i miei e ci compriamo una casa da un’altra parte. I miei genitori possono darci una mano. Fra un anno mi scade il contratto d’affitto, dovrei cercare comunque un’altra soluzione.

– E certo, i tuoi genitori ci danno una mano. Così la bambina è contenta e loro si mettono il cuore in pace, tanto ormai c’è Lorenzo a occuparsi di lei.

– Perché fai così?

– E tu perché fai così? Non sono capace di stare sotto lo stesso tetto con una donna, lo sai.

– Ma l’hai già fatto, vuol dire che ne sei capace.

– Sì, e poi hai visto com’è andata a finire? Che sono scesi in campo gli avvocati per fare la guerra.

– Ma io parlavo di me. Intendevo dire che l’hai già fatto con me, lo stai facendo insomma. E mi pare che così male non vada.

– Ma se non sono ancora riuscito a trovare una stanza giusta per mettermi a scrivere e recuperare un po’ di concentrazione?

– Non è vero. Scrivi pezzi per il giornale, introduzioni, saggi di cui parlano tutti, non ti ho mai visto lavorare così tanto.

– Io parlo del mio libro.

– Per quanto riguarda quello non credo c’entri molto la casa.

– Certo che c’entra. Io ho bisogno di non sentire sempre il fiato di una persona innamorata sul collo. Ho bisogno di non dovere spiegazioni a nessuno, se per una sera o due o per una settimana decido di dormire fuori.

Parlava di libertà e indipendenza eppure era la persona più schiava e dipendente che avessi mai incontrato. L’immagine che aveva di se stesso lo soggiogava e non gli concedeva molti margini per scegliere qualcosa perché davvero lo volesse lui, perché intimamente lo riguardasse.

Lui era quello destinato a rovinare sempre tutto, era una nullità, uno scarto, era lo zingaro, l’uomo senza possibilità di futuro, senza speranze.

Aveva messo in piedi un matrimonio fatto apposta per fallire.

E che una volta fallito infatti gli era servito moltissimo per rafforzare il suo personaggio.

Uno che per una volta ha scelto di provarci e guarda che cosa è successo.

Uno che dunque non ci proverà mai più.

Il peso dell’ambiguità a cui mi sottoponeva a volte diventava insostenibile.

Vivevo ogni giorno nella condizione precaria di chi fa il lavoro che ha sempre sognato, ma ha firmato un contratto a termine.

Quando meno se lo aspetta potrà venire licenziato.

Quando meno me l’aspettavo sarei potuta di nuovo venire abbandonata.

Di nuovo dimenticata.

– Diciamolo, siamo un aereo che non è mai decollato, – mi diceva a volte.

– Sei la donna a cui in assoluto ho dato di più, – mi diceva altre volte.

Soprattutto quando arrivavo sul punto di lasciarlo. Quando gli ficcavo in una busta i suoi vestiti sparsi per casa e gli urlavo se stai così male qui con me allora vattene per sempre, vattene affanculo. Quando scoprivo il suo ennesimo tradimento o il suo ennesimo tentativo perverso di lasciarmi intendere qualcosa che magari non era mai successo. Quando gli sputavo in faccia e gli dicevo tu vuoi mandarmi di nuovo in una clinica psichiatrica, ecco che cosa vuoi.

In quei momenti era come se si svegliasse dal sonno del suo egocentrismo.

Come se improvvisamente si accorgesse che c’ero.

Proprio quando facevo per andarmene e gli davo le spalle, lui mi riconosceva.

Se perdo te perdo tutto quello che ho, mi diceva.

Sei la mia allegria.

La mia salvezza.

Ti amo.

Nel frattempo, tantissime cose.

Lorenzo veniva in radio con me e lo intervistavo in una puntata speciale dedicata a tutti gli ascoltatori con cui mi ero sfogata quando ero rimasta sola. Gli ascoltatori telefonavano per parlare con lui e dirgli non permetterti più di fare soffrire Lidia e lui rispondeva a tutti la donna è una palla al piede e li faceva innamorare e ridere. Mi faceva innamorare e ridere. Si convinceva a tornare da un medico e a prendere un nuovo antidepressivo. Diceva basta all’eroina e stavolta sembrava riuscirci. Portavamo Efexor in campagna e gli facevamo fare il bagno al lago. L’astinenza lo portava a fare e a dire cattiverie inaudite, ma subito dopo mi chiedeva scusa e mi chiedeva pazienza, aiuto. Tornava l’estate e ci andavamo a nascondere per un mese ad Astypalea, un’isola greca azzurra e lontanissima. Facevamo mattina a parlare della mia allergia ai peperoni, del taglio di capelli più adatto a nascondere una traccia di calvizie che cominciava a spuntargli, del perché mai le nostre debolezze potessero trasformarsi nei più feroci ricatti da fare agli altri. Passavamo il Capodanno salendo sulla Montagna Sacra della Sierra Madre Orientale. Facevamo l’amore. Senza mai usare precauzoni.

– Ormai è un anno che lo facciamo così, non ti pare strano?

– Cosa?

– Non sono mai rimasta incinta.

– Che vuoi dire?

– Che sarebbe bello.

– Avere un bambino?

– Sì.

– Se succede io mi ammazzo.

– Allora è il caso che da oggi in poi ricominciamo a stare attenti.

E all’improvviso lui mi gridava sei una troia, mi vuoi incastrare e spaccava una sedia contro il muro. Io mi mettevo a piangere.

Ricominciava l’inferno.