La notte successiva il cielo era limpido, ma faceva freddo. La giacca non riusciva a riparare Alfieri, il vento s’insinuava nella pelle. Guardò l’orologio, l’una e trenta, mentre l’ispettore Rossetti era impegnato a impartire le ultime direttive.
«Allora, se non avete capito lo ripeto ancora. Comprendo che non avete mai svolto questo tipo di servizio, ma se seguirete ciò che vi dico non avrete difficoltà. Ci dividiamo in più pattuglie composte da due persone e ognuna avrà un compito specifico.»
Rossetti corrucciò i lineamenti già rozzi e marcati del volto e proseguì il suo monologo.
«Sono in cinque, di nazionalità algerina e spacciano. Appena li troviamo, perquisiamo questi negri di merda e facciamo sputare loro tutto quello che nascondono.»
Poi, rivolgendosi ai colleghi, aggiunse: «Giani e Blini, voi controllerete la parte del muraglione dal punto in cui inizia la ringhiera. Zorzi, Alfieri e Giulia Mariani, voi la parte più a sud verso il viale alberato. Mi raccomando non perdetevi di vista, il contatto visivo è fondamentale. E fate attenzione, questi bastardi potrebbero entrare nel parco scavalcando la ringhiera.»
Si sentiva pronto, Rossetti, gli uomini dislocati in un raggio di cinque o seicento metri dall’entrata Nord del parco. Bisognava solo attendere.
Erano quasi le due quando diede l’ordine di disporsi sugli obiettivi poi, con Silvia Grandi, entrò nell’auto di servizio, una Fiat Punto.
«Hai freddo?» chiese Rossetti.
«No grazie, sto bene» rispose lei.
«Bene, mi piacciono le donne che non si lamentano e speriamo che questi pezzi di merda non ci facciano aspettare più di tanto.»
Silvia sorrise, un sorriso di circostanza.
«Sei contenta di lavorare con me?»
«Sono contenta di fare la poliziotta.»
«Hai mai fatto appostamenti?»
«No, è la prima volta.»
«Potrei essere costretto ad abbracciarti.»
«Perché?» chiese lei dubbiosa.
«In questo momento non siamo due poliziotti, ma un uomo e una donna dentro un’auto» sorrise con malizia l’ispettore.
Silvia si agitò.
«Non riesco a vedere gli altri» disse, tentando di cambiare discorso.
«Non sono distanti.»
«Avranno sicuramente freddo, è una brutta serata.»
«Io non ho freddo, sono troppo concentrato a pensare a quei bastardi. Stanotte facciamo bingo.»
«Speriamo di riuscire a prenderli con un po’ di roba.»
«Ne sono sicuro. Quando mi muovo non rientro mai a mani vuote» Rossetti pronunciò la frase avvicinandosi a Silvia. Lei si ritrasse, lui se ne accorse e non andò oltre.
«Il vento non è più forte come prima» Silvia si mosse sul sedile, a disagio. Non sapeva come fare per togliersi da quella situazione.
Il traffico era andato diradandosi, le poche auto giravano per lavoro o per cercare qualche prostituta nei luoghi abituali. Il tempo trascorse lento fino a quando il cellulare di Rossetti vibrò.
«Pronto? Novità? Arrivo.»
Chiuse la conversazione e guardò Silvia.
«Bingo» annunciò sornione, «li hanno presi, metti in moto e raggiungiamo Giani.»
Silvia si sentì sollevata, non fece domande, cercò solo di guidare il più velocemente possibile. Poi vide i colleghi, erano accanto ai cinque algerini.
«Eccoli là!» esclamò Rossetti additandoli.
Silvia fermò l’auto, l’ispettore scese al volo.
«Sono i pezzi di merda che cerchiamo?» chiese.
Giani annuì: «E tutti con il permesso di soggiorno in regola. Lì c’è la loro auto» indicò una Mercedes nera.
«Li avete perquisiti?»
«Non ancora.»
Rossetti prese il cellulare, cercò un numero e chiamò.
«Pronto Ferri, raduna gli altri e venite tutti al cancello dov’è il pezzo di ringhiera piegata, abbiamo preso i bastardi.»
La città dormiva e il silenzio dominava le strade quasi deserte. Solo il vento, tra i rami dei platani, originava un po’ di rumore. Rossetti aspettò che arrivassero tutti e poi diede inizio alla sceneggiata.
«Bene, adesso possiamo iniziare. Facciamo conoscenza con questi bravi figli di puttana. Lo capite l’italiano?»
Gli algerini annuirono.
«Mi fa piacere vedere questo spirito di collaborazione. Mettetevi contro la ringhiera.»
Gli stranieri ubbidirono.
«Allora bambini, come state?» chiese Rossetti assumendo un atteggiamento teatrale. «Siete venuti a fare una passeggiata nel parco e avete trovato il lupo cattivo? Dunque, vediamo un po’, come vi chiamate? No! Aspettate, non ditelo. Posso indovinare i vostri nomi usando le mie doti da chiaroveggente. Sapete, io e voi siamo simili. Io sono un negromante e voi negri di merda».
Il vice sovrintendente Carlo Mancini proruppe in una risata. Incoraggiato da tale consenso Rossetti continuò la performance. Prese i permessi di soggiorno e facendoli fluttuare nell’aria, aggiunse: «Come vi dicevo, io sono un chiaroveggente e adesso indovinerò come vi chiamate. Tu sei Mohamed, tu Omar, tu Abdullah e voi due Ahmed e Mustapha, i soliti nomi merdosi.»
Mancini aveva stampato un sorriso sprezzante sulla faccia, così come Ferri e Agovino, tutti e tre stretti collaboratori di Rossetti.
Alfieri, di lato, non distoglieva gli occhi dal gruppo. La situazione, da come si stavano mettendo le cose, non prometteva nulla di buono.
Rossetti intanto, stanco del gioco, aveva ordinato l’inizio delle perquisizioni. Con cura maniacale, li fece sistemare contro un muro con braccia e gambe distese in una posizione innaturale, in modo da rendere precario l’equilibrio.
Era stupendo, pensò, guardare i suoi uomini al lavoro. Il suo stato d’animo si trasformò in una sorta di eccitazione nel momento in cui l’assistente Mario Agovino rinvenne nelle tasche di un algerino due bustine di alluminio. Rossetti le prese e le scrutò. All’interno c’era della polvere bianca, due o tre dosi al massimo, non di più.
«Ecco» disse rivolto ai colleghi, «questa è la prova che avevo ragione. Continuate a perquisire che stanotte ci divertiamo. Cercate dappertutto, spogliateli se è necessario.»
Dall’interno della Mercedes spuntò la testa di Giani.
«Abbiamo trovato altre quattro bustine.»
«Benissimo, appoggiale sopra il cofano della Punto» rispose Rossetti.
«Che roba è, ispetto’?» chiese Ferri.
«Eroina, cocaina, me ne fotto. Non m’interessa. Questi stronzi li sbatto in galera.»
Trovarono venticinque bustine in tutto, Rossetti gongolava. Si avvicinò a uno degli algerini, quello che sembrava essere il più anziano.
«Dove l’avete presa questa schifezza?»
L’uomo non rispose, neppure si volse a guardarlo.
«Forse non mi sono spiegato bene. Ti ho chiesto dove avete preso la droga» ripeté la domanda.
L’algerino ancora una volta tacque, limitandosi a scuotere la testa. Rossetti lo colpì con un calcio nello stomaco. Il colpo lo costrinse in ginocchio, tossì per cercare l’ossigeno che all’improvviso era sparito dai polmoni.
«Risposta sbagliata» rincarò l’ispettore «vediamo se adesso andrà meglio. Dove hai preso quella schifezza?»
L’uomo a fatica si rialzò.
«Non abbiamo fatto niente» farfugliò.
Rossetti sentì il sapore della bile, ma si contenne.
«Sentito, non hanno fatto niente e sono pure in regola con il permesso di soggiorno. Guardate con quale arroganza questa gente ci affronta, non ci teme. Li abbiamo presi con le mani nel sacco eppure hanno il coraggio di prenderci per il culo. Sapete di chi è la colpa se questo pezzente mi risponde in questo modo? È vostra e di quei colleghi che non si fanno rispettare, che usano la carota con i maiali. Con queste bestie non bisogna avere pietà.»
Non finì la frase che con uno scatto repentino gli assestò un pugno in faccia. L’algerino cadde all’indietro battendo la testa contro la ringhiera. Rossetti aveva il viso livido di rabbia. Non gli bastava arrestarli, se avesse potuto li avrebbe uccisi con le proprie mani.
«Portiamoli in commissariato» ordinò, «continueremo a interrogarli in ufficio. In strada qualcuno potrebbe non farsi i cazzi propri.»
Alfieri non aveva detto una parola, come del resto gli altri colleghi. Era rimasto fermo a osservare la violenza gratuita di quel grottesco giustiziere della notte.
Si avvicinò al cofano dell’auto dove spiccavano le venticinque bustine di alluminio. “Tu non ci puoi fare niente”, aveva detto l’algerino. Perché, si domandò Alfieri, aveva risposto così? Nessun dubbio sul fatto che fossero spacciatori, le bustine recuperate erano lì, sul cofano. Scrutò l’extracomunitario, sembrava sicuro di sé, anche mentre saliva a bordo dell’auto della polizia. Qualcosa non quadrava. Alfieri sentiva di non avere altra scelta che controllare la sostanza e per farlo avrebbe dovuto indispettire Rossetti. Decise di rischiare.
«Ispettore» chiese, «posso aprire una bustina? Vorrei capire di che sostanza si tratta.»
Rossetti rimase sorpreso da quella richiesta.
«Abbiamo l’esperto di stupefacentologia» ironizzò sfoggiando un sorriso altezzoso, «non c’è tempo adesso.»
«È questione di un secondo.»
«Senti, coso, come ti chiami?»
«Marco Alfieri.»
«Eh! Che cosa cambia se la vedi in ufficio?»
«Niente, ma ci metto un attimo.»
«Dieci secondi, ma stai attento a non far cadere il contenuto, se lo fai ti scrivo sul groppone.»
Alfieri non si soffermò a pesare le parole dell’ispettore e nemmeno diede peso alla minaccia di una sanzione disciplinare. Voleva solo controllare il contenuto delle bustine. Ne prese una e con cautela l’aprì. A occhio e croce c’erano un paio di grammi di polvere. La odorò, con l’indice della mano destra ne prese una piccola quantità e la portò a contatto con la lingua. Non ottenne l’effetto sperato. Ripeté l’operazione e ancora una volta rimase deluso. Richiuse l’alluminio e lo rimise sul cofano. Prese un’altra bustina e replicò la prova. Fece così per altre sette, otto volte, ma il risultato non cambiò. La polvere non era droga. Adesso erano chiare le parole dell’algerino.
«Ispettore» chiamò Alfieri.
Rossetti si girò, si era quasi dimenticato di lui.
«Cosa vuoi?»
«Bisogna lasciarli andare.»
«Chi devo lasciare andare?» chiese sorpreso.
«Gli algerini, purtroppo dobbiamo liberarli.»
«Ma che cazzo dici?»
«Nell’alluminio non c’è droga.»
«Tu sei fuori.»
«Nelle bustine c’è bicarbonato. Volevano truffare i tossici.»
«Bicarbonato?» il volto di Rossetti cambiò colore. «Tu, cosa cazzo ne sai di come è fatta la droga?»
«Quello è bicarbonato» Alfieri rispose risentito, «di quello che le donne utilizzano per sterilizzare la frutta e che si prende per digerire.»
L’assistente si trovava in piedi, con le gambe ben ancorate al suolo e pronto a difendersi dalla follia di Rossetti. Questi non rispose, gli si avvicinò, prese una bustina e, come un cane da tartufi, iniziò ad annusare la polverina bianca. Passava freneticamente da un involucro all’altro, gettandone a terra il contenuto. Alla fine provò un senso di vertigine, una sensazione d’instabilità e di cocente, quanto inaccettabile, sconfitta. Con un gesto di stizza emise un urlo e assestò un pugno al cofano.
Un lampo d’odio apparve sul suo volto. L’avevano fregato e lui non sopportava di essere preso per il culo. Non avrebbe tollerato il sorriso ironico di quei bastardi negri, non mentre gli avrebbero voltato le spalle per andarsene, liberi. Decise tutto in un minuto.
«Tutti a bordo delle auto e seguitemi.»
Come gli altri, anche Alfieri non comprese. Si mise alla guida e seguì il corteo che si mosse verso la parte nord del parco. Si fermarono di fronte a un ingresso.
«Tirate fuori questi pezzenti prima che la loro puzza impregni l’abitacolo» ordinò Rossetti. «Portiamoli a fare una bella passeggiata nel bosco.»
Alfieri non aveva chiare le intenzioni di Rossetti, ne osservava in silenzio le azioni perverse. Era arrivato da un giorno e già si trovava invischiato in una storia che non gli piaceva. Guardò gli altri colleghi per captare le sensazioni, afferrare i pensieri. Stavano in silenzio, un silenzio fatto di gelo e di gesti indefiniti.
Rossetti, a capo della fila, incitò tutti a seguirlo verso una destinazione ignota.
La notte era padrona della città. Il rumore dei passi sull’acciottolato ritmava l’andare del codazzo mentre poco più in là un gatto si rifugiava dietro a un cespuglio.
Il parco, per la maggior parte incolto, era formato da piccole colline sulle quali si ergevano boschetti di pini, querce, lecci e platani. Qua e là spiccavano ruderi e colonne dell’antica Roma.
Alfieri si guardava intorno. In fondo al viale riuscì a intravedere un edificio, una villa neoclassica con le statue allegoriche e le finestre chiuse da assi di legno inchiodate agli stipiti. Rossetti costeggiò una fontana di marmo, poi abbandonò il viale principale per dirigersi verso la parte laterale dell’edificio. Imboccò un piccolo sentiero circondato da una fila di siepi poste a ferro di cavallo, lo percorse fino in fondo e si fermò.
«Sistemate gli algerini vicino alla parete» disse rivolto ai colleghi indicando il punto esatto. «Vi starete chiedendo come mai vi ho portati fin qui.» Mentre parlava prese a indossare un paio di guanti di pelle. «La vostra curiosità tra poco sarà soddisfatta. Guardate le facce di questi bastardi. Hanno un atteggiamento remissivo, ma non si curano degli altri, non si preoccupano del male che fanno. I loro occhi sembrano innocenti, quasi ispirano pietà. Noi sappiamo chi sono e cosa fanno. Spacciano droga e quando non ce l’hanno, bidonano qualche tossico di merda con il bicarbonato. Per la legge, però, sono innocenti, non viene punita l’intenzione. Quante volte ci capitano queste situazioni e ogni volta ci sentiamo frustrati di fronte a una criminalità tutelata.»
Rossetti, mentre elucubrava il suo sermone paranoico, passeggiava minaccioso intorno agli algerini. Solo in quel momento Alfieri capì cosa sarebbe accaduto.
«Questi negri stanotte» continuò l’ispettore, «sono stati fortunati, ci hanno presi per il culo. E noi dovremmo scusarci con loro per l’abbaglio preso? Mandarli via prostrandoci ai loro sudici piedi? No, mi dispiace, io non la penso così. Ora hanno facce da conigli ma, una volta andati via, rideranno di noi, di come hanno fregato la Polizia. Non posso sopportare che nasca sui loro musi neri un ironico sorriso» emise un lungo sospiro. Poi, si avvicinò agli algerini e si pose alle loro spalle. A ognuno sferrò un calcio dietro la rotula obbligandoli a stare in ginocchio. «Ecco, così devono stare di fronte a voi, in ginocchio.»
«Rossetti» Zorzi ebbe una reazione, al suo fianco c’era Giulia Mariani, «cosa vuoi fare? Non vogliamo finire nei guai per te. Lasciali andare.»
Subito Ferri, Mancini e Agovino, i collaboratori di Rossetti, uscirono dal gruppo e si frapposero tra loro due e gli algerini. Di fatto crearono una barriera, una divisione tra colleghi, una separazione assurda e quasi irreale.
«Calma!» esclamò l’ispettore, «non è tra noi che dobbiamo litigare. Sono loro il nostro problema. Rimanete fermi e in silenzio, ci prendiamo noi la responsabilità di tutto.»
Rossetti prese un manganello e lo afferrò dalla parte opposta dell’impugnatura. Ancorò la presa con il pollice, dentro la stringa di cuoio. Aveva gli occhi duri come il ghiaccio, inalava l’aria gelida della notte, sentiva scorrere l’adrenalina nelle vene. Si avvicinò al primo algerino, ne scrutò lo sguardo sfuggente.
«Ciao bel bambino» gli disse. Poi alzò il manganello e scaricò il colpo sul collo dell’uomo. L’algerino stava per cadere a faccia avanti, ma lui fu svelto a colpirlo con un calcio in volto e a catapultarlo all’indietro. Un grido straziante si levò nel silenzio. L’ispettore si sentì incoraggiato da quei fendenti così bene assestati e ne caricò un altro che si abbatté all’altezza dell’orecchio destro dell’algerino. Un fiotto di sangue imbrattò il muro della villa. I colpi inferti fecero aumentare il suo parossismo e una sfilza di colpi investì l’extracomunitario che rantolava a terra. Il manganello si fermò solo quando smise di urlare.
Poteva bastare, si disse Rossetti.
Sotto un altro.
Gli altri algerini intanto, si erano accovacciati in posizione fetale e piagnucolavano, tutti tranne uno. Quello più anziano era rimasto fermo, in ginocchio. Per tutto il tempo dal suo volto rugoso non era trapelata alcuna emozione.
«Abbiamo un duro» disse Rossetti sprezzante.
Stava per brandire il manganello quando l’algerino alzò lo sguardo e fissandolo esclamò.
«Tua madre è una cagna!»
Rossetti ebbe un attimo di esitazione. Rimase fermo con il manganello alto sopra la testa. L’intenzione era quella di colpire tra il collo e la spalla, ma quell’offesa doveva essere mondata. Quell’attimo d’esitazione gli servì per modificare la traiettoria del fendente. Non sul collo, bensì nella bocca rea di aver pronunciato una frase orrenda.
L’uomo cadde a terra. Quel colpo avrebbe demolito chiunque, ma non lui. La sua età era indecifrabile ma la costituzione ancora possente. Di scatto si girò e in un istante si rimise in ginocchio. Dalla bocca sputò due denti e un fiotto di sangue, li sputò contro Rossetti.
Lui lo colpì di nuovo, sulla testa, dove si aprì un’ampia ferita.
L’algerino cadde di lato, restò per alcuni istanti a terra, cercò di girarsi su se stesso e, dolorante, si rimise in ginocchio.
«Vuoi sfidarmi?» ringhiò l’ispettore. «Adesso ti faccio vedere io.»
Una sequela di randellate s’impressero sul corpo dell’algerino, ma non una parola né un grido uscirono dalla sua bocca. Solo sangue, tanto, dappertutto.
«Basta!» un grido disperato, di supplica, si levò nel parco.
Silvia Grandi urlò così forte da zittire anche il piagnucolio degli algerini.
«Basta, per favore…»
L’ispettore si fermò.
«Ohhh!» esclamò «in mezzo a noi c’è Giovanna d’Arco. Fatela stare zitta» ordinò, «devo finire un lavoro.»
«No! Adesso la finisci» intervenne Alfieri. A grandi falcate, seguito da Giulia Mariani.
Si avvicinò a Rossetti. I suoi scagnozzi intervennero, ne nacque una colluttazione. Anche Zorzi e Giani si mossero in aiuto di Alfieri che riuscì a divincolarsi per correre verso l’ispettore.
«Dammi questo manganello!» urlò l’assistente, «non ti è consentito ammazzare le persone.»
I due poliziotti si sfidarono per qualche istante, poi Rossetti con una spinta spostò Alfieri dalla traiettoria dell’algerino pronto a colpirlo di nuovo.
L’assistente stava per reagire quando un rumore metallico, conosciuto, li fece fermare. Si girarono verso quel suono.
«Rossetti, hai sentito cosa ti ha detto Alfieri?» la domanda proveniva dall’assistente Alessandro Giusti, un poliziotto che viveva il commissariato sempre un po’ laterale, anonimo. Aveva le labbra finissime che sembravano ghignare e un’espressione perennemente irritata rafforzata dagli occhi spiritati. Nessuno si sarebbe aspettato da lui quella reazione e invece stava in piedi con le braccia tese, impugnava la pistola d’ordinanza e la puntava contro Rossetti.
«Devi dare il manganello ad Alfieri» intimò, «lo vuoi fare o ti faccio saltare la testa?»
«Giusti, metti via la pistola!» esclamò allarmato Zorzi, «non facciamo altre cazzate.»
Intanto il volto di Rossetti era divenuto violaceo.
Osservava sbigottito quei poliziotti che si stavano avvicinando agli algerini per soccorrerli.
Si sentì tradito.
Tolse i guanti e li gettò a terra. Chiamò a sé la squadra e con loro si allontanò. Alfieri li osservò allontanarsi con un senso d’inquietudine.
Sarebbe dovuto intervenire prima, pensò, e porre fine a quell’inutile massacro, invece aveva lasciato fare. Se ne rammaricò. I due algerini erano conciati male, avrebbero avuto bisogno di cure. Si chiese cosa fare. Allertare l’autoambulanza significava soccorrere gli algerini, ma anche denunciare Rossetti. Sarebbe stato impossibile giustificare le lesioni.
Rifletté un istante, guardò i due uomini ancora a terra e prese una decisione, la prese per tutti, istintivamente.
«Pronto» chiamò con il cellulare, «sono l’assistente di polizia Alfieri, mi servono due autoambulanze.»
Non aveva consultato i colleghi, sapeva che ne avrebbe pagato le conseguenze.