Nicole...
Un giorno maledetto. Il corpo scomposto sull’asfalto, la disperazione, il carro funebre, le auto della polizia e l’ispettore Marulli della squadra mobile. Alfieri ricordava ogni dettaglio. Suicidio, il caso era stato chiuso così. Il gesto di un animo debole, un’indole controversa e piena di incognite.
Una folle, forse, questo avevano detto di Nicole.
Alfieri passava i giorni a scavare nella memoria, alla disperata ricerca di un particolare che potesse far luce su quel gesto estremo.
Dov’era nascosta la disperazione di Nicole, dietro quale espressione avrebbe dovuta leggerla, si chiedeva.
Era stata la sua ragazza, con lei aveva vissuto momenti di dolcezza, nessun accenno alla tristezza. E allora perché prendere una sedia della cucina, trascinarla fin sotto la finestra, appoggiare un piede sul davanzale e gettarsi nel vuoto dall’ottavo piano.
Per ricordare quell’attimo assurdo, Alfieri aveva chiesto al collega della scientifica la fotografia che ritraeva la scena del suicidio e quell’immagine lo seguiva come una persecuzione.
La teneva nel portafogli, di tanto in tanto la tirava fuori. Osservandola gli sembrava di vedere Nicole che, con una calma agghiacciante, saliva sopra la sedia e si gettava nel vuoto.
Gli faceva male quell’immagine, lo faceva sentire in colpa per non essere riuscito a capire, ma cosa c’era da capire, cosa? Quella foto era divenuta una reliquia da cui non osava separarsi.
La sera, poi, era terribile da sostenere. Con il buio i fantasmi facevano capolino. A questo pensava Alfieri in servizio al corpo di guardia del commissariato, un ambiente diviso con pannelli di plexiglass.
Era da poco passata la mezzanotte. Sui monitor vide Silvia e Giulia di ritorno dall’ambasciata algerina. Erano ferme sul marciapiedi a parlottare. Aprì il portone blindato.
«Come va?» chiese lui.
«Male» rispose Giulia. «Ho sonno e devo andare dall’altra parte della città.»
«Fermati qui a dormire» disse Silvia.
«Non posso, sto preparando la tesi, domattina devo alzarmi presto. E tu, Marco?» chiese poi Giulia.
Alfieri non rispose subito, sapeva a cosa alludeva.
Due giorni prima era stato dal procuratore per i fatti del parco. Interrogato come indagato, non sentito come testimone. Era un atto dovuto, sarebbe stato scagionato, almeno così sperava, ma intanto si era dovuto presentare in procura con un avvocato e subire l’interrogatorio. Il pubblico ministero aveva riconosciuto a lui e a pochi altri la capacità di porre fine al reato, ma in realtà il pestaggio non sarebbe dovuto iniziare. L’intervento contro Rossetti era stato intempestivo, un algerino era già stato picchiato a sangue e il secondo aveva ricevuto numerose percosse. Alfieri spiegò alle colleghe i dettagli, disse di sentirsi preoccupato, che l’episodio avrebbe potuto condizionare l’aspetto professionale e non solo per il futuro.
Alla fine Giulia commentò: «Voglio andarmene da questo posto, ho già fatto domanda di trasferimento. Domani la consegno.»
«E darla vinta agli amici di Rossetti» obiettò Silvia.
«Non ce la faccio più, non sopporto l’idea di essere giudicata, di avere gli occhi dei colleghi addosso.»
«Se andrai in un altro commissariato, prima di te arriveranno le calunnie. Siamo state trasferite da poco» aggiunse Silvia, «facciamo trascorrere un po’ di tempo, poi decidiamo.»
Era giusto aspettare. Decisero che la divisa andava rispettata, come la dignità, che i Rossetti andavano combattuti perché infangavano la polizia, insudiciavano il lavoro dei colleghi, il lavoro costante svolto nelle strade lontano dai riflettori.
Alla fine si salutarono. Giulia si allontanò dal commissariato, Alfieri rimase al corpo di guardia, mentre Silvia salì in camera.
Gli uffici erano deserti, tutto taceva. A Silvia fece impressione quel silenzio, non sentiva i passi frenetici del giorno. I telefoni muti, le fotocopiatrici e i computer spenti. Solo una fioca luce illuminava le rampe delle scale, mentre nei corridoi stagnavano lame d’ombra.
Quel silenzio le fece paura. Era un timore amplificato da un ricordo, alcune notti prima una stupida suggestione le aveva impedito di percorrere un corridoio non illuminato. E in quel momento si ritrovò di nuovo in quell’androne. Non l’aveva percorso di giorno, con il sole ogni timore si era dissolto. Ma con la notte si era rigenerata un’assurda e morbosa curiosità. Per questo decise di arrivare in fondo. Avanzò con circospezione, superò alcune porte. Il corridoio non terminava in fondo, ma deviava a destra. Notò che la luce in quel punto era ancora più tenue e non vi erano altre porte. Si sentiva agitata senza saperne il motivo. Girò l’angolo, il corridoio terminava una ventina di metri più avanti. La costruzione di un tramezzo lo aveva interrotto, era evidente. Non c’era niente di particolare, pensò Silvia guardandosi intorno. Poi alzò gli occhi al soffitto e la vide.
Era una botola, l’ingresso a una mansarda. Sembrava assemblata a una scala pieghevole. Al centro c’era un anello che ne avrebbe consentito l’apertura. Era lì a fissarla, quando le sembrò di percepire la luce di una torcia. Il cuore iniziò a batterle forte. Era certa di aver visto un bagliore. Non era normale pensò, che nell’ora tarda della notte qualcuno potesse trovarsi nella mansarda del commissariato. Si sentì spaventata. Avrebbe dovuto dare l’allarme. Rifletté. Da poco era stata trasferita in quell’ufficio e non ne conosceva le dinamiche. E se qualcuno stava lavorando, si chiese. Non era il caso di creare altro allarmismo, era sufficiente il casino che aveva fatto al parco. Frenò la curiosità e decise di ignorare quel bagliore. Tornò indietro fino all’inizio del corridoio, fino alla camera dove dormiva.
Entrò e chiuse a doppia mandata la serratura.