In breve giunsero al commissariato. Un gruppo di giornalisti attendeva all’ingresso. Alfieri con l’auto svicolò lungo la rampa che conduceva al parcheggio sotterraneo e da lì, attraverso una porta interna, salirono agli uffici di polizia.
Danizzetti entrò nello studio, si mise seduto e dalla cassettiera estrasse un’agenda, sfogliò alcune pagine per soffermarsi su un numero telefonico. Prese la cornetta e lo compose. Sentì alcuni squilli e poi: «Heineman!» rispose l’interlocutore.
Sul suo volto apparve un sorriso: «Come stai, sporco nazista?»
«Marinooo» urlò Heineman.
Danizzetti percepì il solito buon umore del tedesco, sempre pronto a scherzare e a scolare birre.
Heinrich Heineman era un alto funzionario di polizia. Il dirigente lo aveva conosciuto negli anni in cui la lotta al terrorismo era una priorità per entrambi i Paesi. Heineman, in Germania, si era dato da fare per arginare il primo gruppo di lotta armata, la Rote Armee Fraktion, l’omologo delle Brigate Rosse italiane. Nelle difficoltà comuni, tra loro era nata un’amicizia profonda che aveva prodotto l’arresto di un famoso avvocato della sinistra extraparlamentare fondatore della Raf.
Danizzetti passò subito al sodo. Era un uomo pratico ed Heineman lo sapeva bene.
«Capisci? Lo hanno ucciso stamani vicino al commissariato, con un colpo di grazia in mezzo alla fronte. Un commando ben organizzato. Devi farmi un accertamento, mi serve il numero di telaio, potrebbe rivelarsi una traccia importante. Ti mando tutto per e-mail… d’accordo, ti aspetto.»
Riagganciò, scrisse il recapito su un pezzo di carta e lo porse ad Alfieri: «Invia il contenuto del cd a questo indirizzo.»
«Subito dottore» rispose l’assistente uscendo dallo studio.
Danizzetti allungò i piedi sotto la scrivania e guardò Masi: «Che ne pensi?»
«Della centralina o di Alfieri?» chiese di rimando l’altro.
«Di entrambi.»
«La centralina potrebbe darci delle informazioni utili. Alfieri è un po’ saputello. Non dargli troppa corda.»
«È poco più di un agente, mi sembra in gamba.»
«Non ha alcun potere decisionale, ma si butta a capofitto nei guai, come è accaduto al parco quella notte.»
«Ha avuto coraggio.»
«È vero, ma non dimenticare il cadavere di Rossetti con una pallottola in fronte» ribatté Masi.
«Quindi pensi che il pestaggio e l’omicidio siano collegati?»
«Non lo penso, Marino, ne sono sicuro.»
«Se è come dici, basta mettere sotto controllo gli algerini per trovare il commando.»
«E lo farò. Anche il ritrovamento dell’auto nei pressi dell’ambasciata algerina non è un dettaglio da poco» proseguì Masi con impeto.
«Una sfida, un affronto. Potresti avere ragione, Roberto.»
«Quale altro motivo può esserci per ammazzare Rossetti, se non il pestaggio al parco?»
Con questi pensieri sospesi i minuti trascorsero lentamente. Il piccolo orologio a pendolo appeso vicino alla finestra segnava le diciotto e quindici. Quegli ultimi attimi di silenzio diedero il via a una giornata convulsa. Danizzetti e Masi iniziarono a impartire direttive e a richiamare numeri di telefono a cui non era seguita risposta. Alfieri, invece, ne approfittò per bere un caffè, amaro come al solito. Si sentiva nervoso. Al trasferimento erano seguiti giorni inquieti, gravati dagli sguardi torvi dei colleghi. E anche in quell’istante, solo davanti alla macchinetta del caffè, avvertiva un senso di colpa per la morte di Rossetti. Per questo si era interessato alla centralina elettronica della Polo. Voleva rendersi utile e stemperare quel peso piombato sul cuore nell’istante in cui Silvia lo aveva avvertito dell’omicidio.
Finì di bere il caffè e tornò nello studio di Danizzetti. I due funzionari stavano parlottando. Si interruppero quando lo videro entrare.
«Hai inviato tutto?» gli domandò Danizzetti.
«Da un pezzo, dottore» rispose l’assistente.
Il trillo del telefono si mise in mezzo, le lancette del pendolo segnavano le diciannove.
«Pronto» rispose Danizzetti. «Heinrich, allora?» domandò facendo cenno ad Alfieri di entrare e chiudere la porta. «Come dici? Hai il numero di telaio? Lo segno... wvwzzz... come? Aspetta che mi segno tutto… bene Heinrich, ottimo lavoro, ti terrò aggiornato, e sempre sulla breccia mi raccomando… ciao e grazie… sì anch’io ti abbraccio, a presto.»
Riabbassò la cornetta e rimase per un istante a fissare il vuoto.
«Questo è il numero di telaio» disse poi mostrando il pezzo di carta, «appartiene a una Polo grigia. Quella usata dal commando è nera.»
Alfieri tirò un sospiro di sollievo.
Danizzetti proseguì: «Heinrich riesce sempre a sorprendermi. Mi ha detto che l’auto in questione era stata assegnata al mercato tedesco. Dieci mesi fa è incorsa in un grave incidente stradale, il proprietario che si trovava alla guida è morto. La procura tedesca, stabilita la dinamica dell’incidente, ha dissequestrato l’auto in favore degli eredi che hanno venduto la carcassa a un centro di raccolta di veicoli sinistrati…»
«Così sapremo chi l’ha importata in Italia» intervenne Alfieri.
«Ce l’hai la password per collegarti alla motorizzazione?» chiese Masi all’assistente.
«Sì, dottore.»
«Inserisci il numero di telaio e guardiamo a chi è intestato.»
Alfieri annuì. Uscì dall’ufficio seguito dai due dirigenti. Passi frenetici calpestarono il corridoio fino all’ufficio della giudiziaria, una stanza con quattro scrivanie e altrettanti computer. Quello era l’ufficio di Rossetti e dei suoi collaboratori, l’uno ucciso, gli altri sospesi dal servizio e in attesa di giudizio.
In quel momento la stanza era deserta, i nuovi addetti, coordinati dall’ispettore Parri, erano in strada, tutto il commissariato era a caccia di indizi.
Alfieri si sedette a una scrivania e mosse il mouse, in attesa che il monitor visualizzasse il desktop. Si collegò al sistema informativo interforze, la banca dati, il sancta sanctorum degli sbirri.
Digitò un paio di password e, dopo varie schermate, arrivò a destinazione. Prese il pezzo di carta su cui Danizzetti aveva annotato il numero di telaio e iniziò a inserire i diciassette caratteri alfanumerici nell’apposito campo. Alla fine, con un rivolo di sudore che scendeva sulla fronte, inoltrò la richiesta. Pochi secondi e sul monitor apparve un nome e un indirizzo. Fu Danizzetti a pronunciarlo: «Leoni Valter, abita a Roma in via dell’Archeologia.»
«In pieno Tor Bella Monaca» ribatté Masi.
«Leoni si è intestato la Polo tre mesi fa» proseguì Alfieri.
«Guarda se è un pregiudicato» suggerì Danizzetti.
Alfieri annuì. Il sistema interforze fornì i dati richiesti. Leoni aveva numerosi precedenti penali che andavano dall’associazione al riciclaggio, dal furto alla ricettazione. Era stato arrestato diverse volte e quasi sempre per reati connessi alle autovetture. Era un professionista del settore, un trafficante d’auto.
«È il tuo uomo» disse Danizzetti dando una pacca sulla spalla di Alfieri.
«Sì. È il professionista» rispose l’assistente, «quello capace di stare al passo con i tempi e con tutte le innovazioni delle case automobilistiche. Vive di furti d’auto.»
Danizzetti guardò Masi, i due si capirono al volo.
«Parlo con il procuratore» disse il capo della mobile.
«D’accordo Roberto, ma deve farci avere in fretta il decreto di perquisizione. Leoni può essere la chiave di volta. Dobbiamo essere rapidi e superare in velocità gli assassini» concluse Danizzetti.