Il Centro Laterano per i rifugiati in Italia aveva sede alle spalle dell’omonima Basilica di San Giovanni in Roma. Si occupava di fornire ai rifugiati politici un primo sostegno autorizzandoli a indicare, quale proprio domicilio, l’indirizzo dell’associazione per espletare l’iter burocratico inerente il riconoscimento dello status di rifugiato. La difficoltà maggiore dei responsabili dell’associazione era quella di distinguere i reali perseguitati politici dagli immigrati clandestini, perché tutti vantavano torture politiche e si rivolgevano al centro per avviare la pratica di rifugiato.
Lì confluivano alcuni diseredati dell’Africa, uomini, donne e bambini sbarcati sulle coste del sud che, non trovando posto nei centri di prima accoglienza, venivano trasferiti in altri luoghi.
A quel centro, in una mattina assolata, Danizzetti aveva deciso di fare visita. Ce lo aveva condotto Alfieri con l’auto di servizio e la pista seguita era quella algerina.
«Come ti dicevo» disse il dirigente mentre si avviavano verso l’ingresso, «i tuoi algerini…»
«Miei, dottore?»
«Alfieri non fare il cavilloso. Gli algerini che Rossetti ha picchiato, meglio così? Insomma sono tutti transitati da qui. I loro documenti riportano questo indirizzo.»
«Ma non vi abitano.»
«No, e non sappiamo dove siano.»
«Eppure, dottore, hanno denunciato Rossetti e gli altri colleghi, avranno lasciato dei numeri telefonici o il nome dell’avvocato.»
«Nessuno sa dove siano. Al centro sapranno dirci qualcosa.»
Alfieri avrebbe voluto tempestarlo di domande, ma non voleva rischiare di essere invadente, per questo cambiò discorso.
«Su Leoni ci sono novità?» tergiversò.
Danizzetti scosse la testa.
«Nessuna. È come se fosse scomparso nel nulla. Lo stanno cercando ovunque, nei bar, nei cinema, in tutti i locali che era solito frequentare.»
Entrarono all’interno dello stabile. Danizzetti si qualificò con il portinaio e chiese di poter parlare con un responsabile.
Il portiere lo indirizzò da padre Natale Calandrelli, un gesuita, uomo umile, ma risoluto.
Lo studio, notò Danizzetti, rispecchiava l’umiltà e la concretezza del religioso. Una scrivania, una sedia, un etagé, due quadri raffiguranti il Cristo e la Madonna e un grande crocifisso posto accanto all’immagine del Papa.
«Mi dispiace darle fastidio, padre» esordì Danizzetti, «ma siamo costretti a chiederle alcune informazioni.»
«Come associazione siamo in continuo contatto con la questura e in particolare con l’ufficio stranieri» rispose padre Calandrelli. «Ho trovato grande disponibilità da parte della polizia nei confronti dei richiedenti l’asilo politico. Se posso darle una mano lo farò volentieri.»
«Grazie. So che il vostro centro si occupa di dare accoglienza agli extracomunitari che si dichiarano rifugiati politici, è così?»
«Sì, è così. Noi dovremmo dare un primo sostegno ai perseguitati politici in attesa dello status, ma spesso siamo chiamati a far fronte a un’immigrazione inarrestabile. Non riusciremo mai a fermare questa gente che fugge dalla miseria e dalle guerre» disse il gesuita con le mani giunte.
«Capisco. E come vi comportate per quanto riguarda la loro domiciliazione?»
«A un cittadino straniero in possesso dei requisiti idonei per richiedere asilo politico permettiamo di utilizzare il nostro indirizzo come domicilio personale, anche se, di fatto, nessuno alloggia qui. Lei comprenderà» aggiunse il religioso allargando le braccia, «questo edificio non è in grado di ospitare tutti i bisognosi.»
«Certo, lo comprendo.»
«Chi richiede l’asilo politico» proseguì il gesuita, «riceve un permesso di soggiorno valido per tre mesi, trascorsi i quali occorrono le lettere di domiciliazione per il rinnovo. Noi cerchiamo di controllare, ma poi ne rilasciamo circa trenta al giorno, senza di fatto garantire una reale reperibilità. Ma che vuole, questa è la legge dello Stato. Noi siamo tra l’incudine e il martello.»
«Padre, dovrei chiederle appunto delle informazioni su alcuni algerini che hanno ottenuto la domiciliazione presso di voi.»
«Immaginavo che fosse questo il motivo della vostra visita.»
Padre Calandrelli prese la cornetta e compose un numero. Pochi istanti e un uomo apparve sulla soglia.
«Vi presento il dottor Lucchesi, è il responsabile operativo. È lui che vi aiuterà nella ricerca.»
Si congedarono dal gesuita e seguirono Lucchesi fino a un ufficio attiguo. L’uomo si sedette dietro a una scrivania, avviò un programma su un monitor e con tono garbato chiese: «Posso avere i nomi?»
Danizzetti aprì la cartellina e gli fornì i dati richiesti.
«Eccoli qua» disse alla fine Lucchesi, «sono tutti registrati, dottor Danizzetti. Beni Youssef, Raday Sabar, El Hanawy Al Sadak, Jani Mohamed e Dawd Shri. Ma questi» aggiunse con un’aria sorpresa, «sono gli algerini che hanno avuto alcuni problemi con dei poliziotti.»
Danizzetti annuì: «Cosa ci può dire di loro? Sa dove possiamo trovarli?»
«Fino a poco tempo fa, dormivano in un edificio occupato. Uno stabile chiamato Yallah. È sulla Portuense.»
Il funzionario si strofinò il mento.
«Non le viene in mente altro?»
Lucchesi rimase con i pensieri sospesi in aria e poi aggiunse: «Beni Youssef e Jani Mohamed, circa due mesi fa, sono andati via da Roma. Si sono spostati verso nord in cerca di lavoro. Youssef prima di andare è passato a salutarmi. Mi disse che presto avrebbe comunicato l’indirizzo dove spedire la sua corrispondenza. A tutt’oggi non ho avuto alcuna notizia.»
«Quindi da voi passa la corrispondenza dei vostri assistiti? È possibile darle un’occhiata?»
«Certamente. Noi la inseriamo in un archivio informatico e la distribuiamo due volte alla settimana. Se ha un attimo di pazienza faccio un controllo…» Lucchesi digitò alcuni dati sulla tastiera e aggiunse: «Un lettera, c’è solo una lettera indirizzata proprio a Youssef.»
«Possiamo vederla?»
«La prendo subito.»
Il gesuita uscì dall’ufficio per fare ritorno dopo pochi istanti. Mise la corrispondenza sulla scrivania, una semplice busta bianca, l’indirizzo scritto con il trasferello nero. In alto a destra, sopra il francobollo di posta prioritaria, il timbro postale con la città di spedizione, Roma. La tentazione di aprirla fu grande, ma Danizzetti non poteva, non senza l’autorizzazione del pubblico ministero.
«Signor Lucchesi» disse «le faccio un verbale di sequestro, devo acquisire questo documento. Potrebbe contenere elementi vitali per un’indagine in corso.»
«Per me non ci sono problemi, basta che mi scriva due righe.»
Ancora e sempre due maledette righe, pensò il dirigente.