Lo stabile Yallah da circa sei anni era occupato.
Il vecchio mattatoio era stato trasferito in un altro edificio, lasciando in stato di abbandono il fabbricato.
Per un breve periodo, un gruppo di giovani estremisti, appartenenti a un centro sociale di Roma, lo aveva occupato dando vita a una lunga disputa con le autorità comunali per l’utilizzo di acqua potabile, energia elettrica e metano. Ma i celerini, in un giorno di agosto, misero fine alla querelle.
Non passarono nemmeno tre mesi dall’evacuazione coattiva che le porte dell’ex mattatoio si riaprirono. Questa volta a divellere le tavole inchiodate a porte e finestre fu un gruppo di extracomunitari. Entrarono alla chetichella in cerca di un riparo. All’inizio erano in pochi poi, via via, arrivarono famiglie intere fino a formare una comunità organizzata. A differenza dei giovani estremisti che li avevano preceduti, gli extracomunitari non fecero richieste al comune. L’acqua la prelevarono da un fontanile poco distante e si collegarono alla corrente elettrica applicando un bypass al contatore generale dell’ex mattatoio.
Per il riscaldamento sistemarono dei fusti in lamiera che fungevano da bracieri e, durante l’inverno, rimanevano sempre accesi. A causa delle pessime condizioni igieniche, un cattivo odore si levava dal caseggiato arrivando ai vicini che, di tanto in tanto, organizzavano manifestazioni di protesta.
Per evitare di essere buttati fuori dallo Yallah, gli extracomunitari improvvisavano pulizie straordinarie, in una sorta di autogestione dove l’ingresso e la permanenza venivano regolamentate da alcuni uomini del gruppo i quali chiedevano un contributo per le riparazioni più urgenti dello stabile.
Una cicca, lanciata dal finestrino di un’auto, rotolò sull’asfalto. Danizzetti la guardò sbuffando l’ultimo fumo inspirato.
«Stanno facendo un picnic» disse mentre indicava un capannello di persone di colore intente a mangiare un kebab.
Alfieri annuì dal sedile accanto. Teneva fissi gli occhi su una porta laterale.
«Lei cosa dice, dottore» domandò, «potrebbe essere utile fare una perquisizione?»
«Sì e no. Chissà quanta gente dormirà lì dentro. Ci vorrebbe il reparto mobile per fare un bel lavoro, con il rischio poi di trovare solo disperazione e roba ricettata. Comunque stai accorto, ancora qualche minuto e poi ci allontaniamo.»
Danizzetti aveva tolto l’antenna dell’auto di servizio per non renderla riconoscibile, ma sapeva che non avrebbero potuto tenere a lungo quella posizione perché la marca, il colore e il modello della vettura rendevano vano l’espediente.
D’un tratto, dalla porta laterale del centro Yallah uscì un gruppo di uomini.
«Ecco» continuò Danizzetti indicandoli, «è probabile che ci abbiano visti.»
«Che facciamo, dottore?»
«Stiamo ancora un attimo, poi andiamo. Siamo qui solo per dare un’occhiata.»
Alfieri annuì, mentre il suo cellulare vibrò. Era Silvia, un saluto, poche parole che lo fecero sentire in colpa. Avrebbe dovuto raccontarle della centralina della Polo, di Valter Leoni e dello Yallah, il luogo dove avevano dormito gli algerini che anche lei aveva contribuito a salvare da Rossetti.
Le scrisse un sms di scuse e le chiese un appuntamento per una birra, magari in serata, in un pub, dopo il servizio. Lei rispose che, se davvero voleva farsi perdonare, avrebbe dovuto portarla in un locale a Trastevere. Dopo essersi scambiati alcuni sms, un sorriso apparve sul volto di Alfieri. Gli piaceva il pensiero di Silvia, lo aiutava ad alleggerire lo straziante ricordo di Nicole.
Nel frattempo Danizzetti continuava a sbuffare fumo e, irrequieto, faceva rimbalzare qualche cicca sull’asfalto fino a che, all’improvviso, il cellulare squillò.
«Pronto» rispose, «ciao Roberto. Quando? Bene, arrivo.»
Alfieri capì che qualcosa era accaduto.
«Hanno preso uno degli algerini. Lo hanno arrestato dopo un lungo inseguimento.»
«Chi è?»
«Raday Sabar.»