Michele e Lara erano sposati da molti anni e la quotidianità, fatta di figli all’università, mutuo della casa e bollette da pagare, con il tempo si era ripresa ogni velleità passionale.
Una famiglia solida e felice la loro, ma il bilancio da far quadrare aveva preso il posto delle cenette a lume di candela, dei giochi erotici, della biancheria intima e vezzosa, dei baci lunghi e appassionati.
Michele e Lara si stavano avvicinando ai cinquant’anni ma non volevano arrendersi ai ricordi. Su di loro pendeva l’eterno riposo dei sensi o amanti all’orizzonte. Era necessario rinsaldare la loro unione e per farlo decisero, in una calda serata d’inizio estate, di ricominciare dal punto in cui si erano lasciati andare.
Da una pizzeria sulla Salaria, dallo stesso locale che frequentavano prima di sposarsi. Era comodo mangiare lì, perché in un attimo, dopo la cena, era facile raggiungere con l’auto l’argine del Tevere e imboscarsi tra i rami di un salice.
Quella sera, come molti anni prima, si sedettero nel medesimo tavolo e ordinarono le solite margherite e birre medie.
L’atmosfera del locale non era cambiata dai loro incontri giovanili. Le tendine a fiori, il separé che delimitava l’accesso alla toilette, i tavoli rustici di legno massello con le sedie impagliate, tutto era come allora. L’unica nota dissonante era il personale di servizio, mancava Gino il cameriere che, ogni volta con malizia, aveva ripetuto loro la solita frase: «A voi ve servo per primi che poi c’avete da fa’.»
Non c’era più neanche Teresa, la cuoca, famosa, oltre che per i suoi antipasti, per le forme abbondanti.
Quella sera i due fecero un tuffo nel passato, commentarono ogni dettaglio del locale, si strusciarono da sotto il tavolo così com’erano soliti fare durante le loro cenette intime, smaniosi di finire di mangiare per poi appartarsi lungo il Tevere. Per questo, alla fine della cena, Michele le sussurrò all’orecchio.
«Sono anni che non vediamo più quel salice.»
Lei sorrise, un sorriso fatto di complicità.
Le vennero alla mente i lividi che si era procurata sotto quell’albero e le scuse inventate ai genitori per giustificarli.
Pagarono e uscirono dal locale. Salirono in auto e Michele si diresse verso un sentiero sterrato, sobbalzando sulla stradina piena di buche e di canali irregolari formati dalla pioggia torrenziale.
In lontananza intravidero il salice nato sull’argine del Tevere, tra un boschetto di pioppi allineati e una piccola insenatura circondata da un’intricata boscaglia. La fronda rigogliosa del salice aveva impedito agli arbusti vicini di espandersi, creando uno spazio ordinato in quel tratto di fiume aggrovigliato da pruni e da una fitta vegetazione.
«Guarda, c’è un’auto» disse Lara indicando un punto nei pressi del Tevere.
«Ha le portiere aperte» rispose Michele.
«Devono avere molto caldo» provocò Lara con un sorriso malizioso che fece ribollire il sangue del marito.
Non diedero molta importanza all’auto in sosta, anzi sorrisero al pensiero che quel posto fosse ancora frequentato da giovani coppie alla ricerca di intimità.
Superata la vettura si fermò sotto le fronde del salice. I ramoscelli strusciarono con delicatezza la capotte, così come Michele le gambe di Lara. Spense il motore e si girò verso di lei. Le si avvicinò e la baciò, un bacio appassionato, lungo. Poi i baci si fecero più audaci e insinuanti.
Lara, arresa al marito, per un istante riaprì gli occhi e attraverso i rami intravide una figura distesa sull’argine del fiume. Era una sagoma indefinita che sporgeva dall’acqua. Sembrava un groviglio di stracci mosso dalla corrente, ma non era certa.
«C’è qualcosa... là, nel fiume» disse, «ma non riesco a distinguere che cosa.»
«Cosa vuoi che sia? Sarà un tronco… lascia perdere» sussurrò Michele intento a slacciarle la camicetta.
«No, no, Michele... non è un tronco. Ti prego vai a vedere. Non riesco a rilassarmi.»
«Dai su...»
«Ti prego...»
«Uffa, vado a vedere che cos’è, così sarai contenta.»
Sbuffando, uscì dall’auto e si diresse verso il fiume. Prima con passi veloci poi, mano a mano che si avvicinava, si fece più cauto nell'incedere. La sagoma sull’argine, che all’inizio sembrava un tronco con i rami mossi dall’acqua, si materializzò assumendo contorni definiti. Era il cadavere di un uomo con il volto compresso nel fango e le gambe in balia della corrente.
Il richiamo di un gufo fece sobbalzare Michele. All’improvviso i rumori della notte, che non aveva notato prima, divennero minacciosi. Si voltò iniziando a camminare a passo lesto, attento al minimo movimento. Avrebbe voluto correre, ma si trattenne dal farlo per non perdere il controllo, tutt’attorno lo avvolgevano sibili inquietanti e minacciosi. Raggiunta l’auto su cui lo attendeva la moglie, con il cuore in gola azionò il motore, schizzando via dai rami del salice.
«Che cos’è, Michele?» domandò Lara allarmata.
Lui non rispose e lei notò la fronte madida di sudore.
«Che cosa c’è lì sul fiume?» tornò a chiedere Lara.
«C’è un uomo... un uomo morto.»
Lei si portò una mano alla bocca per trattenere un grido.
«Morto... come?»
«Non lo so… non lo so.»
«Oddio... lo hanno ucciso?»
«Non lo so e non mi interessa, voglio solo allontanarmi da questo posto» rispose Michele incurante degli avvallamenti della sterrata e dei continui salti a cui gli ammortizzatori erano sottoposti.
«Michele... dobbiamo avvertire qualcuno... non possiamo comportarci così. E se non fosse morto?»
«Ha la schiena piena di sangue e la faccia nel fango.»
«Anche se fosse così, non possiamo andarcene, dobbiamo avvisare la Polizia.»
Michele arrivò alla strada asfaltata, si accostò su una banchina, respirò e disse.
«Hai ragione Lara, passami il cellulare.»