La sera era calata sulla città, una serata buia e minacciosa come una lama affilata, mentre da Nord-Est nubi nere come la pece scacciavano le stelle dal cielo. Nuvole cariche di cattive intenzioni.
Dai vetri della camera, Alfieri osservava quell’intreccio di nembi che non lasciavano presagire nulla di buono. Era solo, il volto appena illuminato dalla lampada del comodino mostrava una profonda malinconia, un volto rattristato dalle parole di Danizzetti.
Il cielo diventava sempre più cupo e in lontananza i lampi iniziarono a squarciare l’orizzonte avvolto nell’oscurità. Le prime gocce di pioggia aprirono la strada al temporale.
È incredibile, pensò Alfieri, come le certezze del giorno diventino precarie con l’arrivo della notte. La sicurezza crolla e lascia libero sfogo alla paura, quella paura di non avere la forza per andare avanti, di non farcela e di soccombere a un’esistenza beffarda.
Eppure ogni cosa andava nel verso giusto, si disse.
L’appartamento era pronto, il dirigente aveva spostato l’ufficio della Giudiziaria in un altro locale al piano terra per creare una stanza cuscinetto tra il localizzatore e il resto del commissariato.
Inoltre con Ascani e Parri era riuscito a raggiungere una complice intesa investigativa.
L’incontro tra loro e il personale del Servizio centrale operativo era stato fissato per l’indomani. Avrebbero sistemato la valigia nell’appartamento e iniziato l’intercettazione del cellulare di Michele Traccis.
Alfieri aveva preparato una borsa con tutto il necessario, pronto a dare seguito al lavoro che per giorni, rinchiuso in quella stanza, lo aveva sfiancato. Non era stato facile isolare il numero di Arturo Guidi, ricordava l’adrenalina provata nel concludere l’operazione, eppure non riusciva a reagire a quegli istanti di malinconia in cui si sentiva sprofondare.
Doveva uscire e distrarsi, fare qualcosa per mettere fine a quello stato d’animo.
Osservò il cellulare e pensò a Silvia e al desiderio di chiamarla.
In una giornata di pioggia come quella era fuggita dalla Charleston con le lacrime agli occhi. Era stato lui ad allontanarla e lo aveva fatto con la morte nel cuore. Sentiva il desiderio di chiamarla, ma non poteva. Danizzetti l’avrebbe cacciato a calci in culo.
Continuò a sfogliare la rubrica fino alla enne, trovò un numero e spinse il tasto.
Pochi squilli.
«Marco, che piacere.»
«Ciao Norma, come stai?»
«Bene grazie, che bella sorpresa!»
«Senti, lo so che l’ora è tarda e che tra poco verrà giù il diluvio, ma mi chiedevo se ti andasse di uscire a bere una birra. Poi magari cerchiamo un locale carino dove poter ascoltare un po’ di musica, che ne pensi?»
«Per me va bene, dammi solo il tempo di prepararmi.»
«Davvero? Non ci speravo. Ti passo a prendere tra mezz’ora, può andare?»
«Ti aspetto.»
«E salutami i tuoi genitori, un giorno di questi verrò a trovarli.»
«Sarebbero contenti, ogni tanto parliamo di te, sanno che ci siamo rivisti.»
Alfieri chiuse la conversazione e restò a guardare le nuvole nere, dello stesso colore del suo umore. Cercò di scrollarsi di dosso quel grigiore, prese una giacca, un ombrello e uscì sotto un cielo impietoso.