L’uomo si voltò verso Danizzetti. Vecchie cicatrici dovute all’acne gli deturpavano il volto, le labbra molto sottili mostravano un ghigno sarcastico accentuato da occhi invasati.
«Che cosa fai?» domandò Danizzetti con poca enfasi.
«Quello che avrebbe dovuto fare lei anni fa.»
«Tu che cosa ne sai?»
«Ci sono storie in questa mansarda, dottore, che non sono mai state raccontate. È ora che la gente sappia.»
Danizzetti prese fiato.
«Assistente Alessandro Giusti!» tuonò, «metti le mani sopra il tavolo e allarga le gambe, sei in arresto.»
«In arresto?» Giusti scoppiò in una risata. «Dovrei essere io ad arrestarla per non avere detto al popolo la verità.»
«Tu sei un poliziotto che come me ha giurato fedeltà alle istituzioni democratiche.»
Giusti guardò Danizzetti con ferocia. Si avvicinò e rispose.
«Io sono un poliziotto del futuro ordine costituente» disse con enfasi, «noi siamo l’avanguardia armata della classe operaia e delle classi sociali disagiate, io sono un irregolare delle Brigate Rosse.»
Danizzetti ebbe un sussulto. Giusti aveva pronunciato parole dure, scandendole in modo chiaro. Fugò un incubo mai sopito, respirò in fretta e cercò di non palesare quell’istante di debolezza.
«Finalmente» proseguì Giusti, «è arrivato il momento di organizzare le masse, un’azione politica di agitazione e propaganda, seguita dalla spallata finale, dalla fase armata. Tutto è pronto e questo grazie a lei e al suo lavoro, dottore.»
«Che cosa volete fare?» domandò barcollando il dirigente. Sembrava assalito da un incubo. Giusti se ne accorse e sorrise.
«Qui c’è tutto» rispose allargando le braccia, «da Gladio in poi, sedi e nomi. Affiliati e depositi di armi, munizioni ed esplosivi utilizzati per stragi pianificate. Avete destabilizzato lo Stato per stabilizzarlo. La strategia della tensione. Gladiatori, fascisti e pidduisti uniti nel medesimo disegno, quello di fermare la lotta proletaria. Lei, dottor Danizzetti, ha sempre saputo e sarà processato per questo dal tribunale rivoluzionario. Pagherà per quello che ha fatto.»
«Ma cosa dici?» controbatté Danizzetti, «quante volte ho sentito le tue parole, sono passati anni e continuate a parlare con luoghi comuni, con patacche pietose. Siete destinati a essere sconfitti, come sempre.»
«Non credo, dottore. Ci siamo organizzati e abbiamo costruito una struttura ancora più segreta. Siamo infiltrati in ogni ambito sociale. Non una clandestinità assoluta, ma un lavoro oscuro, senza sigle e rivendicazioni e che serve a reclutare compagni.»
«Come gli algerini?»
Giusti annuì.
«Avete ucciso Rossetti per dare loro un segnale, non è così?» domandò sprezzante Danizzetti.
«Rossetti meritava di morire. Era un razzista di merda. Gli avrei sparato quella notte al parco se non mi avessero fermato. Hanno fatto bene, ucciderlo è stato più utile.»
«La sua morte vi ha permesso di reclutare i clandestini» aggiunse con un filo di voce Danizzetti. Si sentiva sprofondare in una palude senza fondo.
«È così, ma solo tra quelli con uno spiccato senso politico e guerrigliero. È stata attuata una selezione particolare con un apposito organismo di controllo.»
«Siete pazzi…»
«Non credo, dottore. La nostra struttura è pronta. Abbiamo quasi l’intera documentazione di quest’archivio. Lo stiamo elaborando, sarà reso noto alla stampa in più comunicati. Il popolo saprà.»
Danizzetti scosse la testa e sorrise, un sorriso amaro e al contempo ironico.
«Lei ride, dottore, ma noi diremo al popolo quello che è accaduto in Italia. Parleremo della lotta armata, della vocazione rivoluzionaria dei compagni, e anche della strumentalizzazione del suo lavoro da parte degli apparati deviati dello Stato. Lei lo sa, non è vero dottore? Sa bene che tutti i capi dei servizi segreti di allora erano affiliati alla P2, nemici dichiarati del popolo. Vogliamo rendere pubblico quanto più possibile, anche la verità sul sequestro Moro.»
«Cosa?» Danizzetti sentì la testa scoppiargli.
«La cosa la turba, dottore?»
«Le cose dovevano andare così, gli eventi erano di natura troppo ampia per poterli cambiare.»
«Cosa doveva andare così?» esclamò Giusti, «è stato normale condannare a morte gli uomini della scorta di Moro? Potevate attuare il sequestro in modo meno cruento e invece avete scelto la spettacolarizzazione. Avete mischiato ai brigatisti, esperti di armi, agenti dei servizi. Sapevate che i brigatisti di allora non erano bravi nell’uso delle armi, era gente improvvisata alla guerra senza alcuna esperienza nel maneggiare pistole o mitra.»
«Allora?» domandò Danizzetti sempre più affranto.
«Lei sa, ha sempre saputo chi da solo, durante il rapimento, sparò con un’arma automatica quarantanove dei novantadue colpi esplosi durante l’assalto. Tutti andati a segno e che non hanno sfiorato il presidente Moro. Avete usato un uomo militarmente preparato, un professionista. Un brigatista non avrebbe avuto la stessa capacità di fuoco, un brigatista avrebbe potuto ucciderlo e a voi serviva vivo.»
«Sarà la storia a emettere il verdetto, non voi» rispose Danizzetti.
«Lo emetterà il nostro tribunale dove parleremo di Mino Pecorelli, del colonnello Varisco e di altri caduti. E lei, dottore, non aveva l’obbligo di denunciare all’autorità giudiziaria tutte queste notizie di reato? Perché ha taciuto?»
Senza attendere risposta Giusti prese alcuni fogli dalla scrivania.
«Riconosce questi rapporti» disse, «sono a sua firma, di quando faceva parte dell’Ucigos. C’è scritto che Mario Moretti è stato un capo anomalo delle Brigate Rosse perché prima fece fuori politicamente Curcio e Franceschini, poi compì una serie di omicidi inutili che fecero perdere consensi alle Bierre. Lei sapeva che Moretti frequentava gli istituti linguistici Hyperion di Parigi, Milano e Roma. Lei sapeva che Hyperion era la sede più importante della Cia in Europa organizzata per combattere il Partito Comunista presente nei parlamenti europei. Lei era a conoscenza di ogni cosa, ma è rimasto in silenzio per tutti questi anni.»
«Sarete distrutti» rispose Danizzetti arreso, ma non ancora sconfitto.
Giusti lo ignorò.
«In tutti quegli anni avete cooptato, manipolato, giocato con le nostre vite» disse, «ma grazie a lei abbiamo preparato un dossier voluminoso, documentato, che sarà reso pubblico. Vedremo chi sarà distrutto.»
«Anche se lo renderete noto, sarete sconfitti lo stesso» aggiunse il vecchio dirigente. «E con voi finiranno in galera anche coloro che hanno coperto la verità, quella che mi sono dannato di scoprire. Io finirò in carcere, ma il popolo italiano non cederà mai la sua libertà democratica in nome delle vostre elucubrazioni mentali. Siamo una nazione libera che ha ormai maturato un procedimento democratico ancorato all’occidente. Non siamo più ai tempi degli scioperi di massa, delle rivolte studentesche, dei comitati di fabbrica, delle spinte sovversive della sinistra extraparlamentare, quei tempi non ci sono più. Diffonderete il vostro documento, forse è giunto il momento di farlo, ma otterrete solo una giustizia a scoppio ritardato. Nient’altro.» Danizzetti riprese fiato e, tenendo salda la pistola, proseguì sprezzante «voi siete infervorati da un fuoco rivoluzionario che vi spinge verso il cambiamento, ma vi assicuro che l’italiano medio non vuole cambiare nulla. Come al solito, voi pseudo rivoluzionari non riuscite a mantenere il termometro dell’opinione pubblica e preferite barricarvi dietro concetti astratti e fuori tema, per soddisfare un bisogno vostro di fallimento interiore.»
«Come si permette di parlarmi in questo modo? Lei che fa parte della feccia che ha rovinato l’Italia» rispose Giusti con gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia.
«L’Italia saprà superare anche questo scandalo e voi terminerete la vostra scelleratezza dietro le sbarre, con me e altri.»
«Non dica eresie!»
Danizzetti continuò a esternare quel sorriso sardonico che fece diventare più nervoso Giusti.
«Gli italiani sono passati sopra tangentopoli, prima ancora hanno digerito il Piano Solo, il Golpe Borghese, Gladio e la P2. La gente ha dimenticato l’eversione di destra e di sinistra, ha dimenticato tutte le stragi. Il vostro documento alzerà la polvere, è vero, polvere che ricadrà sopra le vostre teste.»
«Lei è un criminale di guerra!» esclamò Giusti, «e dovrà rispondere davanti al tribunale del popolo.»
«E chi risponderà della morte di Leoni?»
«Siete stati voi a ucciderlo con le vostre indagini sulle auto.»
«Sei tu quindi, che hai telefonato da Via Oriani?»
«Quell’Alfieri ci ha creato problemi. Ora basta» aggiunse furibondo Giusti. «Mi consegni la pistola e si arrenda al giudizio del popolo.»
«Non credo che tu possa dettarmi condizioni, ho un’arma in mano» rispose Danizzetti. «Sono vecchio ma da questa distanza non ti posso mancare.»
«Le ripeto, dottore, se vuole vivere mi consegni la pistola. È l’ultimo avvertimento.»
Danizzetti con un rumore metallico mise il colpo in canna, pronto a far fuoco.
D’un tratto, un colpo di pistola invase la mansarda, ma non fu la pistola di Danizzetti a sparare. Il dirigente sgranò gli occhi sorpreso. Si toccò il petto, era sporco di sangue. Cadde a terra. Sbatté contro uno di quegli scaffali che tanto aveva custodito. Crollò con la faccia sul pavimento. Sentiva il torace in fiamme e il sapore acre del sangue nella bocca.
Altri spari che lo fecero sussultare. Gli sembrò di sentire la carne trapassata da una infinità di colpi. Voci. Qualcuno gridava. Altri spari. Cercò di sollevarsi per vedere, ma non ci riuscì. Il silenzio invase la soffitta per qualche secondo, interrotto da un rumore di passi.
Qualcuno si stava avvicinando per il colpo di grazia, pensò.
Si sentì afferrare. Aprì gli occhi e vide Alfieri.
«Ancora tu» disse con voce roca, rotta dallo sforzo, «stai sempre in mezzo.»
«Dottore, resti fermo e non parli, chiamo qualcuno.»
«È inutile. È finita... il destino mi ha riservato ciò che meritavo, morire qui…»
«Ho sbagliato, ho sbagliato, mi deve perdonare» gridò Alfieri.
«Tu... tu che sei sempre così preciso e puntuale... cos’hai sbagliato?»
«Non l’ho vista... era nascosta.»
«Chi... era nascosta?»
«Matilde Bova, la moglie di Rossetti, lei l’ha colpita, era nell’ombra, non l’ho vista.»
«No... un’altra poliziotta... un altro fallimento...»
«Mi ha sorpreso, mi perdoni, mi perdoni...»
Alfieri parlava con voce rotta dalla disperazione.
«Io non ti devo... perdonare nulla...»
«Era nascosta…»
«Smettila di frignare. Che fine hanno fatto... quei due...»
«Credo di averli uccisi. Vado a chiamare un’autoambulanza.»
«Alfieri» invocò Danizzetti espellendo un fiotto di sangue, «è inutile… per me è finita... lasciami morire in pace.»
Tossì, altro sangue dalla bocca.
«Queste carte maledette» aggiunse, «sono state la mia vita... sapevo che... sarebbero state la mia morte.»
«No, no, resista» Alfieri era in preda allo sconforto.
«Hai ascoltato... la... la conversazione con Giusti?»
«Sì dottore, ho sentito.»
«Dimentica o morirai... chiama Masi... raccontagli tutto... ogni parola... lui saprà cosa fare e come... come... proteggerti.»
Il sangue fuoriusciva dalla bocca, Alfieri spostò il corpo di Danizzetti di lato per non farlo soffocare.
«Un’altra cosa, assistente, fammi un ultimo favore... dì a mia moglie che l’ho sempre amata e che continuerò a farlo anche da lassù...»
Il vecchio dirigente fissò negli occhi Alfieri, gli strinse la mano ed esalò l’ultimo respiro.
Solo in quell’istante il poliziotto si rese conto dell’affetto che provava per lui, un affetto che annichiliva le sue omissioni, quelle che Giusti gli aveva urlato in faccia.
Non giudicò, si lasciò andare a una pietà sommessa, liberatoria.