Avevo sfidato mia madre battendomi per ciò che consideravo vero, ed ero sopravvissuta per poterlo raccontare. Nelle settimane che seguirono, mia madre scrisse qualche altra lettera furiosa e indignata, io risposi con affetto e amore sinceri, e alla fine lei dovette cedere. Questo non significa che ammise i propri errori e che si scusò, ma che smise di condannarmi e che non abbandonò i suoi nipoti.
Era una vittoria sufficiente per me.
Con il senno di poi mi resi conto che la mia ribellione era cominciata molto tempo prima, non nella sfida infantile di regole e proibizioni, ma nell’adozione dell’immaginazione, nel mio rifiuto graduale dell’idea di doverla sopprimere, negare, se speravo di sfuggire a una follia che mi sarebbe stata fatale. Era sempre stata la lotta inutile per liberarmi dell’immaginazione a rischiare di distruggermi, non il velenoso sangue Byron, non una crudeltà che mi portavo dentro.
Per tutta la vita, in modi piccoli o grandi, avevo cercato di riunire intelletto e immaginazione, intuendo che non erano due facoltà diverse, ma le due metà dello stesso genio. L’intelletto e l’immaginazione avevano ispirato i miei tentativi infantili nell’ambito della Volologia, ed entrambi erano stati essenziali nella comprensione della Macchina analitica mentre scrivevo le Note. Dopo la sventurata pubblicazione del Memoir, quando cercavo una vocazione nuova, un’altra Grande Impresa, avevo discusso con mia madre dell’imprudenza – anzi, dell’impossibilità – di rinunciare all’immaginazione per sempre e in modo radicale. «Non mi concedi la poesia filosofica» le avevo scritto furibonda dopo che aveva cercato di dissuadermi dallo studiare musica, poesia e filosofia. «Inverti l’ordine, allora! Mi lasci almeno la filosofia poetica, la scienza poetica?»
La scienza poetica, decisi, sarebbe stata la mia nuova vocazione, e mi sentivo piena di entusiasmo e impazienza mentre aspettavo di scoprire dove mi avrebbe condotto negli anni a venire.
Il momento sembrava opportuno, quasi a confermarmi che avevo scelto la strada giusta, l’ennesima celebrazione del grande e glorioso futuro della scienza e dei prodigi che stavano per giungere a Londra. La Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le Nazioni, che sarebbe stata inaugurata in maggio, intendeva dimostrare al resto del mondo il ruolo predominante della Gran Bretagna in campo industriale e tecnologico. Avrebbe presentato a un pubblico impaziente, di milioni di individui, nel corso di sei mesi, le più grandi scoperte e i più importanti oggetti nel settore dell’industria e della cultura. La Grande esposizione prometteva di essere una meravigliosa mostra di tecnologia, arte, scienza e commercio, avrebbe costituito un omaggio ai successi del passato offrendo un’elettrizzante anteprima sulle speranze e aspirazioni per il futuro.
Mr Babbage aveva desiderato partecipare all’organizzazione di quello che sarebbe stato certamente un evento importantissimo, però i suoi litigi continui con certi esponenti autorevoli del governo lo avevano di fatto escluso dal comitato organizzativo. Rimase molto deluso, ma si consolò scrivendo un libro sulla Grande esposizione che, come sottolineò, avrebbe continuato a intrigare e informare i lettori ben oltre la chiusura della manifestazione nell’ottobre 1851.
Come parte della sua ricerca intervistò molti potenziali espositori, compreso William, che intendeva esporre il processo innovativo da lui sviluppato per la fabbricazione dei mattoni. Mr Babbage studiò anche i diversi progetti di costruzione in corso sull’area destinata all’esposizione a Hyde Park, in particolare il Crystal Palace, un’enorme struttura di vetro e ferro che era già decantata come una meraviglia architettonica pur non essendo ancora finita.
Verso la fine di dicembre, Mr Babbage mi invitò a visitare il sito con Sir James South, amico comune e membro del comitato organizzatore. «Mi raccomando, indossate calze pesanti e scarpe robuste» mi ricordò. «Ci possono essere oggetti pericolosi per terra, delle scarpine da donna non sono le calzature adeguate».
Accettai immediatamente l’invito, anche se non stavo bene da settimane. Avevo diversi disturbi, i più frequenti dei quali erano dei dolori addominali – talvolta acuti, altre volte lievi – e delle emorragie al di fuori del periodo del ciclo. Il laudano mi dava un po’ di sollievo dal dolore, ma come sempre non ne curava le cause. Quando il suo effetto scompariva il tormento ritornava, a volte più intenso di prima. Il dottor Locock era perplesso; lui e William suggerivano che il mio fosse un problema mentale. Sapevo che si sbagliavano, ma come facevo a dimostrare che avevo male davvero?
In quel giorno di dicembre, però, il mio interesse per la Grande esposizione mi indusse a ignorare i disturbi e a recarmi a Hyde Park con Mr Babbage. Indossai il mio abito più caldo e la mantella più pesante per proteggermi dal gelo, e fortunatamente il vento era debole, il sole pallido ma radioso, e solo pochi fiocchi di neve scendevano pigri quando giungemmo sul posto. C’erano molti operai che si muovevano intorno con diversi attrezzi e pezzi di ferro. Mr Babbage individuò subito Sir James South e mi porse il braccio, e insieme gli andammo incontro.
Fu una visita affascinante; la nostra guida ci accompagnò gentilmente in giro e descrisse l’enorme palazzo di vetro che sarebbe emerso dal caos attuale, una vera e propria cattedrale in onore della scienza e dell’industria nel cuore di Londra; la immaginavo già brillare come un gioiello, emettere raggi di luce i cui riflessi sarebbero giunti in tutto il mondo. In questa sala sarebbero stati esposti gli strumenti scientifici: microscopi, barometri, il telegrafo e molti altri apparecchi. Qui sarebbe stata fatta una dimostrazione della fabbricazione dell’acciaio, lì sarebbe stata esposta una mietitrice fatta venire apposta dagli Stati Uniti. E lì, al posto d’onore, ci sarebbe stato il telaio Jacquard, che non solo produceva magnifici tessuti ma era anche servito d’ispirazione.
Di tanto in tanto coglievo lo sguardo di Mr Babbage, e dal suo sorrisetto avvilito capivo che stava pensando, proprio come me, che l’invenzione più stupefacente della nostra era non sarebbe stata presentata in quelle sale, perché era a Marylebone nel laboratorio di Mr Babbage, concentrata in migliaia di pagine di appunti e schemi, e in un Memoir dimenticato troppo in fretta.
Era profondamente ingiusto che Mr Babbage non fosse rappresentato in un’esposizione destinata a celebrare il meglio del progresso e dell’innovazione industriale.
Al termine della visita, Sir James South si congedò da noi, e io e Mr Babbage camminammo lungo il perimetro del cantiere per osservarne il fermento prima di risalire in carrozza. «Mi sembra che in tutto questo spazio dovrebbero trovare il modo di esporre il modello in scala ridotta della vostra Macchina differenziale» dissi a Mr Babbage mentre mi aiutava a salire.
Scuotendo il capo, salì dopo di me e si sedette. «Vi sarebbe abbastanza spazio per tutta quanta la Macchina analitica, se avessero voglia di mostrarla. Naturalmente, prima dovrebbero farla costruire».
«Se sapessero che cos’è e che cosa sa fare» dissi con enfasi, «se lo capissero davvero, non baderebbero a spese».
«Quelli che pagano non capiscono, e quelli che capiscono non hanno i soldi» disse Mr Babbage. «Sto cominciando a essere d’accordo con la nostra cara amica Mrs Somerville, secondo la quale il mondo forse non è pronto per le mie macchine».
Allungai il braccio e gli strinsi la mano. «Un giorno lo sarà» dichiarai con fermezza. «La vostra macchina verrà costruita, e tutte le nostre delusioni saranno solo un lontano ricordo».
Annuì e mi ringraziò, e sottovoce, forse pensando che non lo sentissi, aggiunse che sperava di cuore che avessi ragione.
Ero sicura di quello che dicevo. Doveva andare così. Un’invenzione magnifica come la Macchina analitica non poteva finire nel dimenticatoio una volta che era stata concepita. Poteva essere trascurata, forse per anni, ma alla fine il suo tempo sarebbe giunto, e sarebbe stata costruita e sfruttata.
Per quanto riguarda me, ho spesso l’impressione che il tempo a mia disposizione stia per finire, e che non vedrò mai la Macchina analitica costruita. Non ammirerò mai tutti i cambiamenti che creerà nel mondo, non godrò del senso di orgoglio e rivalsa quando la mia Grande Opera verrà infine rispettata e celebrata come profetica. Oso credere, però, che non verrò dimenticata. Questo testo mi sopravvivrà, così come le mie Note, e quando Charles Babbage realizzerà infine il suo magnifico sogno, anche il mio contributo verrà onorato. Che accada l’anno prossimo o tra molti decenni, non posso saperlo neppure usando il potere congiunto del mio intelletto e dell’immaginazione. Posso solo sperare.
La nostra è stata un’alba illusoria, una luce debole che si è attenuata subito, ma presto il giorno spunterà davvero, il sole sorgerà e brillerà con più forza di quanto noi due possiamo immaginare.