2.

Tutto mi dice che tu mi amerai

Aprile-dicembre 1816

Dopo aver combattuto strenuamente per avere l’affidamento, forse vi stupirà sapere che, in seguito alla fuga da Londra, mia madre trascorse ben poco tempo con me a Kirkby Mallory Hall. C’erano faccende legali delle quali si doveva occupare nella capitale, naturalmente, ma gran parte del suo tempo era consacrato alle visite alle amiche o al riposo in centri termali. Mia madre si lamentava di una salute cagionevole da tempo immemorabile, e i sintomi peggiori non mancavano di apparire nei momenti meno opportuni, quando un dovere sgradevole richiedeva la sua attenzione, per esempio, o quando mi ammalavo e avrei tanto desiderato che si occupasse di me. Questa straordinaria e spiacevole coincidenza si è manifestata ripetutamente per tutta la mia vita.

Per fortuna i miei amati nonni e la fedele bambinaia Mrs Grimes si occupavano di me con tanto affetto che notavo appena l’assenza di mia madre. Quando passava di sfuggita dal Leicestershire per una visita non la riconoscevo, e quando entrava nella nursery e cercava di prendermi in braccio gridavo, piangevo e tendevo disperatamente le braccia verso la nonna o Mrs Grimes. La prima volta in cui mi comportai in modo tanto sconsiderato, Lady Byron rise e disse: «Si è arrabbiata perché l’ho svezzata e mi vuole punire». La seconda volta, però, ci rimase male, e prima di partire per il viaggio successivo ordinò alla bambinaia di farmi baciare il suo ritratto ogni sera prima di andare a dormire, così mi sarei ricordata di lei. Mrs Grimes, diligente, obbedì, ma compii quattro mesi, poi cinque, e le cose non cambiarono.

Capitò poi che una visita di mia madre coincidesse con una serie di giorni particolarmente difficili: stavo mettendo i denti, e disturbavo il riposo e la tranquillità di Kirkby Mallory con le mie urla di dolore. Decisa ad accelerare il processo, mia madre mi tagliò le gengive infiammate con un bisturi, in modo tanto brusco e insensibile che Mrs Grimes sussultò.

«Non ti do torto, mia cara» disse mia nonna cercando di superare le mie urla, prendendomi dalla culla mentre Mrs Grimes andava a cercare una pezza bagnata per fermare l’emorragia, «ma forse sarebbe stato meglio che lo facesse un chirurgo o un farmacista. Può darsi che serva una tecnica particolare».

«Niente affatto. Tra un attimo starà bene». Mia madre cercò di prendermi, ma quando gridai e nascosi il viso contro la spalla della nonna, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Mi ringrazierebbe, se capisse».

Purtroppo non capivo, invece, e per qualche tempo quando partiva rifiutavo di baciare il suo ritratto a meno che i nonni non si impuntassero con severità, perché associavo la donna nel quadro con il bisturi che mi aveva tagliato le gengive doloranti.

Anche se mia madre era spesso costretta ad allontanarsi da me per questioni di salute, non dovete pensare che non mi volesse bene. Nonostante le distrazioni delle località marittime o delle eleganti dimore di campagna dove risiedeva, trovava sempre il tempo di mandare ai miei genitori lettere dolci e ansiose in cui chiedeva come stavo, se crescevo e se andava tutto bene. Si premurava anche di includere un biglietto di accompagnamento con cui domandava a mia nonna di tenere da parte quelle lettere, se mai le fosse stato chiesto di presentare delle prove del suo affetto materno in tribunale. Mi piace pensare, però, che mia madre volesse tenerle per me, come una sorta di diario che un giorno mi avrebbe fatto piacere avere e leggere per conto mio.

Quando ebbi qualche settimana in più e divenni una compagna di viaggio meno impegnativa, di tanto in tanto mia madre mi permetteva di accompagnarla nei suoi viaggi, insieme alla bambinaia e alla domestica. Anche se forse penserete che a sei mesi ero troppo piccola per conservarne memoria, il mio primo ricordo è uno dei nostri viaggi insieme ai primi di giugno del 1816. Mia madre mi aveva portato a Ely, nel Cambridgeshire, a visitare la magnifica cattedrale. La moglie del preside in persona ci fece entrare dal portico d’accesso della torre occidentale, e i miei giovani occhi si sgranarono per la meraviglia di fronte allo splendido ottagono, la vasta torre di pietra, gli otto archi maestosi e la lanterna lignea con le finestre, sospesa in alto. La visita proseguì con la bellissima e luminosa Cappella della Vergine, dove ammirammo le alte finestre elaborate, inframezzate da colonne di marmo; le ogive eleganti e i sedili ricavati lungo le fiancate, e perfino le prove intriganti dei danni inflitti durante la Riforma, in cui visi e altri particolari delle sculture lungo le pareti erano stati deturpati, solleticando la mia curiosità sui personaggi che erano stati rappresentati in quelle scene un tempo ricche di particolari. Perfino il lusso di Kirkby Mallory Hall non mi aveva preparato a un simile splendore.

Fu quando tornammo all’interno della cattedrale, lungo il passaggio coperto dalla cappella alla navata nord del presbiterio, che mi accorsi per la prima volta degli sguardi curiosi e invadenti degli altri visitatori. Fino a quel momento erano passati inosservati, ma si radunarono poco lontano da noi, mormorando concitati, alcuni con cenni discreti del capo, altri indicandoci addirittura col dito. Mia madre era stata riconosciuta, ed era facile indovinare l’identità della bambina che aveva con sé. Udii il mio nome pronunciato da voci sconosciute; incuriosita, girai la testa da una parte e dall’altra, cercando di scoprire chi avesse parlato di me con tanta foga. Il mio interesse si trasformò in paura quando la folla si fece avanti dalle due estremità del passaggio, sicuramente curiosa di vedere se la figlia del famigerato Byron avesse le corna e la coda. Mia madre sussurrò qualcosa in fretta alla moglie del preside, che ci fece entrare in un corridoio laterale, portandoci al sicuro ed evitando la calca.

Mia madre era troppo sconvolta per aspettare che l’assembramento si disperdesse, così abbreviammo la visita e lasciammo la cattedrale. Trascorremmo la notte in una locanda dei dintorni, e il mattino dopo quando ci alzammo e scendemmo a fare colazione, il padrone ci accompagnò in una sala da pranzo privata. Prima di farci sedere esordì imbarazzato dicendo: «Mi dispiace moltissimo, Lady Byron, ma penso sia meglio dirvi subito che la vostra carrozza ha attirato gente davanti alla locanda».

Mia madre si irrigidì per un istante, poi andò alla finestra, aprì la tenda e guardò fuori. Una dozzina di persone, uomini e donne, circondavano la carrozza a rispettosa distanza, studiando il blasone dipinto sullo sportello, si alzavano in punta di piedi per sbirciare all’interno, e si ritiravano delusi vedendo che non c’era nessuno.

Mia madre sospirò, lasciò cadere la tenda e si sedette a tavola, con una lieve smorfia che significava che stava riflettendo. Dopo che ebbi fatto colazione – lei non mangiò quasi niente – chiamò il proprietario della locanda e annunciò il piano che aveva architettato: avrebbe mandato la domestica, Merle, a bordo della carrozza, con una cappa che le avrebbe celato il volto e un involto in braccio simile, per dimensioni, a un bambino. Partita la carrozza e dispersa la folla, io, mia madre e la bambinaia, anche noi con la protezione di un mantello, ce ne saremmo andate a bordo di una carrozza presa in prestito e avremmo ritrovato la nostra in un punto prestabilito a mezzo chilometro.

Il piano funzionò alla perfezione, e presto ci ritrovammo sedute nella nostra carrozza, dirette alla tappa successiva dell’itinerario. Purtroppo il veicolo attrasse uno sciame di visitatori impudenti anche nella locanda di Peterborough, e diversi popolani ci rincorsero all’interno del locale. Una donna con le guance rosse ci venne incontro a braccia tese, pregando di lasciarle dare un bacino alla «povera Augusta Ada senza padre». Un giovane uomo, definitosi aspirante poeta, chiese un ciuffo di miei capelli «come portafortuna», dichiarando che si trattava di una reliquia di quel genio di mio padre. Mentre Mrs Grimes mi proteggeva tenendomi tra le braccia e voltando le spalle a quella gente, Lady Byron, stizzita, fece un cenno al proprietario. La sua espressione torva tenne gli aspiranti ammiratori a distanza finché un paio di lacchè non ci scortarono al sicuro.

Ci trattenemmo un paio di giorni a Peterborough, facemmo visita alla giovane marchesa di Exeter a Burghley House e passeggiammo lungo il fiume Nene. Il giorno dopo ci spostammo a Bury, dove rendemmo omaggio al conte di Derby e visitammo i giardini di Knowsley Hall. Stavamo passeggiando lungo i giardini acquatici quando a un tratto una donna di una trentina d’anni, vestita in modo semplice ma rispettabile, si avvicinò. «Questo è per voi, signora» disse, tendendo a mia madre un oggetto piccolo e rettangolare. Quando non lo prese, la donna si fece avanti e glielo mise in mano. «Lo dovete leggere. Leggetelo per amore della piccola Augusta Ada. Se lo fate, anche il vostro cuore gelido e crudele si scioglierà».

Sbalordita dal coraggio della sconosciuta, mia madre la fissò senza parlare.

«Vattene!» ordinò Merle incredula. «Chi credi di essere, a importunare Sua Signoria con tanta impertinenza? Lasciaci in pace prima che chiami le autorità». La domestica avanzò e mandò via la donna misteriosa con un gesto, e solo dopo che fu corsa via nella direzione opposta a quella della casa Merle tornò accanto a mia madre senza fiato. «Cosa vi ha dato?» domandò, indicando l’oggetto che teneva in mano.

«Un libro». Mia madre aprì la copertina e lesse il frontespizio. «Addio all’Inghilterra con altre tre poesie, Ode a Sant’Elena, Mattino della nascita di mia figlia di Lord Byron… Ma per carità». Esasperata, passò il libro a Merle. «Cosa mi tocca sopportare da parte dei suoi cari lettori».

«Che cosa debbo farne?» chiese Merle, prendendo il libro tra pollice e indice e tenendolo lontano da sé, a braccio teso, come se si trattasse di un topo morto.

«Gettalo nello stagno. Brucialo. Non mi importa».

Merle e Mrs Grimes si scambiarono un’occhiata mentre mia madre si allontanava, studiando le ninfee e le canne con aria particolarmente accigliata. Era evidente che nessuna delle due domestiche riteneva opportuno distruggere qualcosa che la padrona avrebbe voluto vedere più tardi.

Effettivamente, quando fummo al sicuro nella nostra locanda, mia madre chiese il libro e si sedette accanto alla finestra a leggerlo mentre Mrs Grimes e Merle lavoravano in silenzio, occupandosi di me o cucendo. «È un falso» dichiarò infine mia madre, gettando il libro su un tavolo lì accanto. «Lord Byron non ha scritto questa robaccia. Non viene dalla sua penna, né dalla casa editrice di John Murray. È opera di un ciarlatano che sa a malapena scrivere, e che spera di trarre vantaggio dalla Separazione, dalla nostra infelicità. Gettalo nel fuoco».

Stavolta Merle obbedì, e le poesie che la donna misteriosa aveva sperato diventassero strumento di riconciliazione tra i miei genitori si tramutarono in cenere e fumo.

Se mia madre aveva bisogno di altre prove del fatto che la Separazione appassionava tutta quanta la nazione, ora le aveva. Quegli incontri sgradevoli le rovinarono il viaggio, e quella sera, dalla piacevole solitudine delle nostre stanze, scrisse ai miei nonni per annunciare che saremmo partite da Peterborough prima del previsto. «Ovunque andiamo veniamo fissate come animali spaventosi ed esotici» protestò stancamente, «come leonesse». Era impossibile per lei viaggiare in incognito con me, aggiunse, annunciando che da quel momento in poi avrebbero dovuto chiamarmi Ada, solo Ada. Sottolineò il nome con un tratto marcato di penna perché non vi potessero essere equivoci.

A metà giugno mia madre ci aveva sistemate in un adorabile cottage a Lowestoft, una graziosa località balneare sulla costa del Mare del Nord nel Suffolk. Io giocavo felice con Mrs Grimes sulle grandi spiagge di sabbia, guardavo i gabbiani che sorvolavano il molo e azzardavo passi esitanti sulla riva, a poca distanza dalle onde, con le braccia levate sopra il capo, le mani aggrappate a quelle di mia madre. Qui avremmo potuto essere riconosciute, ma venimmo lasciate in pace. Qui, a più di centosessanta chilometri a nordest di Londra, nessuno disturbò la nostra vacanza con sguardi insolenti o richieste di baci o ciocche di capelli.

Furono giorni piacevoli, ma mia madre, inquieta, non riusciva a restare ferma, e ci spostammo. Da Lowestoft tornammo a Kirkby Mallory a trovare i nonni, però mia madre non apprezzava la compagnia della nonna quanto me, e presto ripartimmo, stavolta dirette a Londra. Mia madre ci insediò tra Knightsbridge e Green Street e fu presto presa in un turbinio di eventi sociali, conferenze e altri impegni, tanto che la vedevo a malapena. «Lady B avrebbe potuto lasciare la bambina a Kirkby invece di trascinarla da un posto all’altro per poi ignorarla» disse Mrs Grimes alla domestica di mia madre, ma Merle era leale alla sua padrona e la mia bambinaia non trovò comprensione presso di lei.

Un evento in particolare mi si impresse nella memoria in quelle settimane, anche se forse è solo la rievocazione dell’evento che ricordo. Era autunno, questo è certo, perché gli alberi nel giardino dietro casa avevano cominciato a cambiare colore, e in quel giorno mia madre aveva chiesto a Mrs Grimes di mettermi l’abito caldo di lana azzurra e la mantella col cappuccio, perché dovevamo uscire a incontrare qualcuno.

Capii dalla piega decisa della bocca di mia madre che era un impegno preso per dovere più che per piacere. Rimase in silenzio mentre la carrozza ci portava attraverso la città in un quartiere meno elegante del nostro. Varcammo la porta di una casa che, pur confortevole e arredata con gusto, era un po’ vissuta, rovinata, rispetto alle nostre stanze in affitto. Una bambola e una nave di legno erano state appoggiate e dimenticate contro una parete dell’ingresso, e udii il brusio dei bambini al piano superiore. Anche se allungai il collo e tesi entrambe le mani verso le scale, venni portata in un salottino, dove una donna bruna, bella, formosa, sedeva sul divano con lo sguardo rivolto alla porta.

Mia madre entrò per prima, seguita da Mrs Grimes che mi teneva in braccio. Il respiro mozzato e l’irrigidimento improvviso della schiena tradirono l’intensità dell’emozione nella donna sconosciuta, e capii che dovette usare tutta la sua volontà per non balzare in piedi e abbracciarci. «È lei?» chiese con voce tremante.

«Certo» rispose Lady Byron quasi seccata. «Chi vuoi che sia?»

La donna fece una risatina di scuse, si alzò e ci venne incontro al centro della stanza. «Non potrebbe essere nessun altro» dichiarò, fissandomi con aria quasi adorante. «Ha gli occhi di suo padre, e il suo mento. Mostra dei segni del genio poetico di mio fratello?»

«È solo una bambina» replicò mia madre gelida per contrastare l’entusiasmo debordante della donna.

«Sì, sì, certo». Mi sorrise, e quando io le sorrisi esitante, di rimando, gli occhi le brillarono di lacrime. «Ah, se solo potesse essere qui, ora! Parla con tanto affetto di lei, nelle sue lettere, se solo…» Si interruppe, sconvolta, mentre le lacrime le scendevano lungo le gote.

«Augusta, controllati» ordinò mia madre. «O turberai la bambina».

La donna annuì, strizzò forte le palpebre e si portò un fazzoletto alla bocca. Dopo un attimo si era ricomposta abbastanza da sorridermi di nuovo. «Sono tua zia e porto il tuo nome, cara Augusta Ada» disse, e mia madre gentilmente non la corresse riguardo al nome. «Sono la sorella maggiore di tuo padre, e ti voglio molto, molto bene, proprio come te ne vuole lui». Lanciò uno sguardo a mia madre. «Posso prenderla in braccio?»

Mia madre esitò prima di accettare, ma non appena Augusta mi prese tra le braccia si lasciò sfuggire un singhiozzo, e iniziò a tremare per lo sforzo di non piangere. A un gesto di mia madre, Mrs Grimes mi prese di nuovo.

«Mi dispiace» disse Augusta con voce tremante. «Nel suo dolce visetto vedo mio fratello, che mi manca terribilmente…»

«Devi controllarti davanti alla bambina» disse mia madre, accarezzandomi la schiena, anche se non ero per nulla turbata, solo un po’ sorpresa.

«Lo farò». Augusta trasse un respiro profondo, tremante. «Da adesso in poi sarò calma, te lo prometto».

Non ricordo cosa rispose mia madre, ma mi rimase l’impressione di una conversazione stentata, altre lacrime di mia zia, nuovi rimproveri di mia madre che le chiedeva di dominarsi. Non restammo a lungo, e ce ne andammo prima che venisse servito il tè, prima che potessi incontrare i bambini – certamente i miei cugini – che avevo sentito giocare di sopra.

«Mrs Leigh è troppo volubile, troppo impressionabile» disse mia madre a Mrs Grimes tornando a casa. «Chissà cosa potrebbe dire davanti alla bambina, quali bugie ed esagerazioni potrebbe lasciarsi scappare in un momento di emozione».

«Sembra effettivamente fragile» ammise la bambinaia.

«Ada non deve mai essere lasciata da sola con lei».

«Sì, Lady Byron. Me ne occuperò io».

Mia madre annuì e tacque, pensierosa, studiando il paesaggio londinese che scorreva fuori dal finestrino. «Mrs Leigh spera che Ada erediti il genio del padre» mormorò, riflettendo ad alta voce. «Che destino terribile da augurare a una bambina innocente». A un tratto fissò la bambinaia con uno sguardo penetrante e deciso. «Nulla di poetico dovrà mai attecchire nella mente o nel carattere di Ada. Dev’essere cresciuta con struttura e disciplina, con un’attenzione rigorosa allo sviluppo della logica e della ragione».

Mrs Grimes, che mi teneva in braccio, mi cambiò posizione, dubbiosa. «Volete dire che non si deve permetterle di giocare, Lady Byron?»

«Certo che deve giocare, ma con giochi ben strutturati. Blocchi, per imparare la geometria. Palline, per la geometria e il movimento». Mia madre annuì, infervorandosi. «Non dovrà mai entrare in contatto con la poesia di Lord Byron – non che ce ne sia il pericolo a Kirkby Mallory, visto che Lady Noel ha gettato tutte le copie dei suoi libri – né con le favole».

La tata si accigliò. «Nessuna fiaba? Ma ai bambini piacciono molto».

«Ai bambini spesso piace ciò che è deleterio per loro. Anche agli adulti, purtroppo». Per un attimo fece un’espressione assente, poi si riprese. «Niente favole, niente poesia. Ha troppo sangue Byron in circolo, e potrebbe portare alla sua rovina come ha rovinato il padre. La salvezza di mia figlia dipende dallo sviluppo delle sue facoltà morali e intellettuali e dall’eradicazione dell’immaginazione in ogni suo aspetto».

La bambinaia mormorò il suo assenso, indubbiamente sollevata per il fatto che, quando fosse giunto il momento di istruirmi, una governante l’avrebbe rimpiazzata. Sarebbe già stato abbastanza difficile fare a meno delle favole, senza che dovesse lei stessa soffocare l’immaginazione di quella bambina intelligente e attiva.

L’incontro con mia zia Augusta turbò a tal punto mia madre che poco tempo dopo mi riportò a Kirkby Mallory Hall. Qualche giorno in compagnia di sua madre la spinse poi a partire per Bath, portandosi dietro solo la domestica. Io e mia madre avevamo trascorso tanto di quel tempo insieme quell’estate e autunno che, a differenza di prima, dopo la sua partenza ne sentii la mancanza, e non ebbi bisogno di baciare il suo ritratto al momento di andare a dormire per ricordare a me stessa che le volevo bene e che ne avevo nostalgia.

Eppure ero felice di tornare a casa, dove godevo dell’affetto profondo dei nonni. Mia nonna spesso liberava Mrs Grimes per la giornata per poter stare insieme a me: mattine allegre e felici seguite da lunghi pomeriggi tranquilli. Feci i primi, cauti passi da sola nella grande biblioteca, e nonostante la paura, sempre presente, che mio padre mandasse dei banditi mascherati a scalare le mura di cinta a rapirmi, provavo un senso di appartenenza e di appagamento che non avvertivo mai nei bei posti che mia madre mi portava a visitare. Ero libera di andare dove volevo, coccolata dai nonni, adorata dalla servitù… mi venivano negate solo la presenza dei miei genitori e l’immaginazione.

Solo una stanza a Kirkby Mallory Hall mi sembrava sempre in ombra.

Al piano terra mio nonno aveva una sala da biliardo per fumatori, dove riceveva i suoi amici. L’odore di whisky e di sigari mi faceva arricciare il naso, ma ad affascinarmi e spaventarmi insieme era il grande ritratto appeso sopra il camino. Un drappo verde scuro lo copriva e non veniva mai tolto, e nessuno dei presenti vi faceva allusione. Dai commenti denigratori di mia nonna e dai pettegolezzi della servitù avevo capito che era un dipinto famoso e molto prezioso di mio padre.

Quando mi sentivo particolarmente coraggiosa, entravo di soppiatto nella stanza, da sola, e fissavo il ritratto coperto, chiedendomi cosa celasse la tenda verde scuro. Che aspetto aveva mio padre? Naturalmente non me lo ricordavo, anche se negli anni successivi mi diede una certa consolazione sapere di averlo visto, e che lui avesse visto me, anche se non ricordavo il poco tempo trascorso insieme. Era bello? Aveva delle malformazioni? Doveva esserci qualcosa di terribile nel suo aspetto, o mia nonna non lo avrebbe nascosto. Doveva essere molto importante, anche, o si sarebbe liberata del ritratto una volta per tutte. Nella mia immaginazione – quella facoltà tanto inopportuna quanto tenace – racchiudeva in sé qualcosa di magnifico e mostruoso insieme. Non riuscivo a fissare il ritratto coperto senza provare un brivido di apprensione per mio padre, certa che fosse un personaggio sinistro, pericoloso e deforme, e siccome ero sua figlia, anch’io dovevo celare qualcosa di sinistro e pericoloso.

In novembre mia madre tornò a Kirkby Mallory Hall per il mio battesimo, ma dimenticò di informare mia zia Augusta dell’evento solenne, e di comunicarle che mia nonna aveva preso il suo posto come madrina. Né Augusta fu invitata alla festa del 10 dicembre che i miei nonni organizzarono per il mio primo compleanno, forse perché era una festicciola intima, solo per mia madre, i nonni e il personale. Mangiammo un dolce, mi fecero qualche regalo e indossai un nuovo abitino giallo.

Molto più avanti seppi che il mio primo compleanno fu un’occasione triste per mia madre, come traspariva da una poesia che intitolò A Ada. Cominciava così:

Tuo è il sorriso, tua la giovinezza

quando la speranza può immaginare un fascino più maturo

io subisco invece il peso della memoria

non sei tra le braccia di tuo padre!

Tre strofe più avanti si lamentava:

Oh, colomba, che non troverà riposo

se non in una corteccia fragile e distrutta.

Il seno dolente di una madre sola

possa il Cielo offrirti un rifugio più sicuro!

Mia madre doveva andare fiera della sua poesia, perché poco dopo ne mandò una copia alla sua amica Theresa Villiers. «Mi sono detta» scrisse in un biglietto di accompagnamento «che i versi potrebbero essere fraintesi, come se esprimessero il desiderio che mia figlia fosse con suo padre; invece la considero orfana di padre».

Era un po’ come se lo fossi, perché non sapevo nulla di lui.

Mio padre era sempre a Venezia, e non so se celebrasse il mio compleanno scrivendo versi o ricordandomi con affetto. Mi piace immaginare che il pensiero di sua figlia gli abbia attraversato la mente mentre passava in gondola lungo un canale, sotto un ponte, davanti a una finestra aperta dalla quale uscivano note del bel canto.