6.

Il coltello è affilato; il colpo è pronto

Gennaio 1822-marzo 1825

Dopo la morte di nonna avevo il cuore a pezzi, ero devastata, disperata. Neppure la partenza di Mrs Grimes e Miss Thorne e l’assenza perpetua di mio padre mi avevano preparato adeguatamente alla peggiore perdita che avessi mai conosciuto. Sì, nonno mi voleva bene, e anche mia madre, ma nonna aveva rappresentato una fonte costante e solida di amore incondizionato, che nessun altro mi aveva mai offerto prima di lei né dopo, in tutti gli anni a venire.

Con la scomparsa di nonna la proprietà di Wentworth venne ereditata da mia madre. Lei – e mio padre – avevano l’obbligo legale di adottare il cognome Noel, ma Kirkby Mallory e i suoi sessantacinque ettari di foresta di querce, terreni di caccia e giardini erano solo di mia madre. Le sue rendite annue passarono da cinquecento a quattromilacinquecento sterline, e altre quattromila sterline all’anno andarono a mio padre. Immagino che avrebbe potuto accettare anche il titolo di Lady Noel o baronessa di Wentworth, ma per ragioni che non mi spiegò mai conservò il nome Lady Byron.

Una delle sue prime iniziative come padrona di Kirkby Mallory Hall fu quella di mandare a zia Augusta della selvaggina, con un messaggio gentile con cui le assicurava che lei e i suoi bambini avrebbero avuto spesso occasione di mangiarne negli anni a venire. La famiglia Leigh aveva avuto problemi economici fin da quando il colonnello Leigh aveva perso la posizione di scudiero del principe di Galles dopo averlo imbrogliato nella vendita di un cavallo e avere usato i fondi del reggimento per pagare i suoi debiti di gioco, quindi sono sicura che i doni di mia madre furono accolti con gratitudine.

Non era la prima volta che mia madre mostrava una notevole e inaspettata generosità nei confronti della cognata. In particolare, alcuni mesi dopo la mia nascita, mia madre aveva acconsentito al desiderio espresso da mio padre di citare Augusta e i suoi figli come eredi nel suo testamento, invece di mia madre e me. Nonna era rimasta scandalizzata all’idea che lasciasse al proprio figlio ed erede – perché avrei potuto essere un maschio, per quello che ne sapevano allora – solo un titolo e non la sua fortuna personale, ma mia madre aveva saputo di poter contare sulla sua eredità imminente, mentre Augusta non aveva nulla, e non poteva aspettarsi niente dal colonnello Leigh, se non altri debiti e sofferenze. Ma l’apparente preferenza di Byron per sua sorella dovette farla soffrire, e riesco a capire il punto di vista di nonna.

Ora la mia amata nonna non c’era più, e senza di lei mi sentivo molto sola. Mia madre viaggiava spesso, in visita alle amiche e agli stabilimenti termali, e nonno mi voleva bene, ma com’è comprensibile un gentiluomo di quasi settantacinque anni non era un compagno di giochi ideale per una bambina di sei. I miei unici amici erano la governante, le domestiche e alcune delle amiche più fedeli di mia madre, quasi tutte zitelle e vedove, che venivano a stare da noi di tanto in tanto.

Anche se nonno non si accollava il compito, ritenuto femminile, di educarmi, gli ero grata quando insisteva dicendo che non potevo stare sui libri giorno e notte, e che dovevo avere amici della mia età. Venne quindi radunato un gruppetto selezionato di figli degli amici e conoscenti più illustri di mia madre. Mi attaccai in particolar modo a George Byron, il figlio del cugino e probabile erede di mio padre, il capitano George Anson Byron. Anche se ero più grande del piccolo George di due anni e mezzo, decisi che sarebbe stato il mio più caro amico e confidente. Siccome avevo sempre voluto un fratello, lo nominai fratello onorario e gli scrissi molte lettere appassionate, confessando le mie speranze più fervide, i miei sogni e sentimenti. Posso solo immaginare cosa dovette pensare sua madre delle mie passioni di bambina, perché era lei che rispondeva da parte di George, almeno nei primi anni, visto che lui non sapeva ancora né leggere né scrivere. Un’altra nuova amica che invece mi poteva scrivere da sé era Fanny Smith, la nipote del colonnello Francis Doyle, uno dei consiglieri più fidati di mia madre. Era intelligente e sempre allegra, e mi raccontava storie divertentissime dei guai che combinava con i suoi cugini, di solito alle spese della loro antipatica e gretta governante. Se mia madre avesse immaginato quante birichinate combinava Fanny, dubito che avrebbe permesso quella corrispondenza.

Anche se intrattenevo rapporti con quei bambini che chiamavo amici, Fanny, George e gli altri erano ben di rado fisicamente con me, e la mia solitudine e il mio isolamento continuavano. Credo che la mia infelicità finisse per avere ripercussioni anche sulla salute, perché nell’autunno del 1823, quando non avevo ancora otto anni, mi ammalai piuttosto gravemente. Soffrivo di cefalee intense, pulsanti, che mi compromettevano a tal punto la vista che il medico ordinò di interrompere gli studi; questo significava, naturalmente, che Miss Lamont venne subito licenziata. Vennero consultati due esperti, il dottor Warner e il dottor Mayo, e conclusero che soffrivo di un afflusso eccessivo di sangue in testa. Mia madre prescrisse il suo rimedio preferito per le sue emicranie, il “salasso perpetuo”, l’applicazione di una sanguisuga al cuoio capelluto, sostituita da una nuova appena la precedente era sazia. Trovavo quel rimedio molto sgradevole e per nulla efficace; un verme disgustoso che mi succhiava in testa era una distrazione costante e mi impediva di raggiungere la tranquillità di corpo e mente della quale sapevo istintivamente di avere bisogno.

Una volta, ricordando quell’orribile conversazione che avevo sentito tra mia madre e mio nonno alla fine della primavera dell’anno precedente, chiesi a uno dei miei medici se una sanguisuga particolarmente astuta poteva essere addestrata a succhiare solo il sangue cattivo lasciandomi il resto. Il medico mi guardò perplesso e disse: «Le sanguisughe non possono essere addestrate. Succhiano sangue, si accoppiano e quando è il momento muoiono. Non sanno fare altro».

Questo mi dissuase dal porre altre domande sull’argomento.

Mia madre aveva parlato della mia malattia a zia Augusta, e lei aveva informato mio padre, che allora si trovava in Grecia per combattere con i greci per l’indipendenza dall’impero ottomano. Solo parecchio tempo dopo seppi che era molto preoccupato per me, tanto che per vari mesi non riuscì a scrivere nel suo diario finché non seppe da mia madre che ero fuori pericolo. Mia madre non gli scrisse di persona, naturalmente. Lui pose le sue domande a zia Augusta, lei le trascrisse in una lettera a mia madre, mia madre mandò le risposte ad Augusta e Augusta le trasmise per lettera a mio padre. Immagino che questo rallentasse in entrambe le direzioni la comunicazione delle notizie che, vista la distanza tra l’Inghilterra e la Grecia, non sarebbe stata facile neppure se i miei genitori fossero stati in buoni rapporti. Ma avere zia Augusta come tramite impedì che parole ostili si trasformassero in litigi feroci.

Nell’ottobre 1823 (come venni a sapere molti anni dopo) mio padre chiese ad Augusta di farsi dare da mia madre una descrizione della mia «indole, abitudini, studi, tendenze morali e carattere», oltre che dell’aspetto fisico. Era molto curioso di sapere se ero «socievole o solitaria, taciturna o loquace, amante della lettura oppure no». Si chiedeva anche quale fosse la mia «mania» o fissazione caratteristica, e trovai generoso da parte sua presumere che ne avessi solo una. Concludendo la sua lettera su una nota che poteva essere ironica o apprensiva, o forse entrambe, scrisse: «Spero che gli dei l’abbiano resa tutto fuorché poetica, basta uno sciocco di tal fatta in famiglia».

Mia madre amava scrivere lunghe descrizioni particolareggiate dei suoi conoscenti, delineandone la personalità, i gusti, le qualità e i difetti. Anzi, per lei erano un passatempo tanto divertente che spesso le redigeva per persone che aveva appena conosciuto e delle quali sapeva ben poco. Siccome, essendo mia madre, mi conosceva benissimo, impugnò subito la penna per rivelare ad Augusta – perché, naturalmente, non intendeva ammettere che il vero destinatario fosse mio padre – tutto ciò che c’era da sapere su di me.

«La caratteristica principale di Ada è l’allegria» scrisse mia madre, com’era evidente anche nella fase più acuta della mia recente malattia. La capacità di osservazione era la più sviluppata delle mie facoltà intellettuali, e la pertinenza dei miei commenti e l’accuratezza delle mie descrizioni rivelavano la mia precocità. Non ero priva di immaginazione – non parlò dei suoi sforzi per sopprimerla – ma attualmente quella facoltà si concentrava sulla meccanica, in particolare la fabbricazione di barchette e navicelle di mia invenzione. Mi piaceva molto leggere, e ora che la vista era guarita del tutto sembravo voler recuperare il tempo perduto. Preferivo la prosa alla poesia, e dimostravo delle abilità in musica e arte. Il mio carattere era «aperto e innocente», anche se mia madre osservava: «Quando era più piccola tendeva all’irruenza, ma ora è sufficientemente sotto controllo». Per quanto riguardava il mio aspetto, ero «alta e robusta», i miei lineamenti erano «irregolari», il mio atteggiamento «vivace». La descrizione non mi faceva sembrare graziosa, e probabilmente non lo ero.

Quattro mesi dopo, in febbraio, mia zia Augusta scrisse a mia madre per dirle che mio padre era entusiasta di quella descrizione, e anche della mia silhouette, che gentilmente mia madre aveva inviato. Allora lui si trovava a Missolungi nella Grecia occidentale, dove i ribelli avevano trionfato contro un terribile assedio dei turchi nel 1822. Poiché le forze ottomane minacciavano di sferrare un nuovo attacco, mio padre aveva raggiunto i ribelli greci nella loro roccaforte. Aveva mostrato, fiero, la mia silhouette agli uomini della sua guarnigione e aveva parlato spesso delle grandi speranze che nutriva per me.

«Crede davvero di essere l’eroe di uno dei suoi poemi» udii mia madre dire sarcastica alla sua amica Miss Montgomery, mentre piegava la lettera e la posava sulla mensola del camino; ma un lieve tremore nella voce tradiva la sua apprensione. Fino a quel momento avevo immaginato i suoi viaggi in Grecia come una grande avventura, ignara dei pericoli che poteva incontrare.

Nascosi le mie paure e cercai di dimenticarle, visto che non potevo parlarne a nessuno. Mia madre non aveva idea che conoscessi metà delle cose che sapevo. Avrebbe incluso la bravura nell’origliare tra le mie qualità, se se ne fosse accorta, e questo dimostra appunto quanto abile fossi.

Mi ero ripresa del tutto dalla malattia, e non venivo più sottoposta al salasso perpetuo. I medici decretarono che potevo riprendere gli studi senza pericolo, e lo feci con energia, sotto l’occhio vigile di una nuova governante, Miss Noble. Era alta, rossa di capelli e robusta, aveva viaggiato molto e conosceva bene la storia. A volte mi stupiva con commenti spiritosi e impertinenti che pensava non sentissi o capissi, e di tanto in tanto aveva uno sguardo smarrito e sconcertato, come se fosse perplessa sul percorso che l’aveva condotta a Kirkby Mallory a fare da governante a una bambina precoce e solitaria. Udii la domestica confidare al maggiordomo che si diceva fosse stata abbandonata all’altare quando quel manigoldo del suo fidanzato era scappato con un’ereditiera straniera. «È troppo sfrontata e non sa stare al suo posto» protestò la domestica, ma a me Miss Noble piaceva proprio per questo.

Un pomeriggio d’aprile stavo studiando i pronomi francesi nella nursery, e avevo fretta di finire per poter uscire a giocare al sole. A un tratto udii una carrozza in avvicinamento, e l’agitarsi dei lacchè mi indicò l’arrivo di un ospite inatteso.

«Posso andare a vedere chi è?» chiesi alla governante, e senza aspettare la risposta corsi via. Quando Miss Noble mi chiamò severamente mi fermai in un punto particolare da dove potevo osservare parte dell’ingresso, se sbirciavo tra le colonne. «È il capitano Byron!» esclamai, proprio mentre veniva accompagnato in un punto dove non riuscivo più a vederlo. Ci rimasi male quando mi accorsi che era solo e non aveva portato il figlio George, mio fratello onorario.

Chiesi se potevo andare a dargli il benvenuto, ma Miss Noble mi fece tornare nella stanza dei bambini. Quando ebbi finito le mie lezioni il capitano se n’era andato, e venni mandata in giardino con l’ordine tassativo di non disturbare mia madre nel suo studio. Mortificata, andai fuori a giocare, da sola. Forse il capitano mi aveva portato una lettera da parte di George, pensai, mentre mi dondolavo su un ramo basso della mia quercia preferita, e questo pensiero mi rincuorò.

Giocavo da non molto quando una cameriera venne a dirmi che mia madre desiderava vedermi subito. La trovai seduta da sola nel suo studio, ma prima di poterle chiedere che fine aveva fatto il capitano Byron, mi indicò la sedia più vicina e disse: «Siediti, tesoro». Parlò con voce molto calma, ma aveva il viso pallido, gli occhi cerchiati di rosso.

Obbedii con il cuore che mi batteva forte. Intrecciai le mani in grembo e aspettai.

«Ada». Fece una pausa e si schiarì la voce. «È purtroppo mio dovere informarti che tuo padre è morto».

«No» replicai con un filo di voce. «È in Grecia».

«Sì, Ada, era in Grecia, ed è lì che è morto».

Per un attimo non riuscii a respirare. La fissai e deglutii con difficoltà. «È stato un turco a ucciderlo?»

«No. Una febbre improvvisa e pericolosa».

Non mi sembrava possibile. «Sei sicura? Forse c’è stato un errore. Forse è stato un altro inglese a morire, e i greci l’hanno scambiato per il mio papà».

Le spalle di mia madre si abbassarono impercettibilmente, lei si lasciò sfuggire un sospiro silenzioso e la luce ardente nei suoi occhi mi disse che nessuno avrebbe mai potuto scambiare Lord Byron per un altro inglese. «Ne sono sicura» dichiarò con voce ferma. «È venuto il capitano Byron ad annunciarmelo di persona».

Cominciai a tremare, poi a singhiozzare. Mia madre levò una mano aggraziata e fece un gesto, e Miss Noble corse dentro a consolarmi tanto in fretta che doveva trovarsi proprio sulla soglia. Mi condusse nella nursery, ma corsi in camera mia, dove mi gettai sul letto a piangere.

Sebbene i miei genitori fossero separati, quando la notizia della morte di mio padre ci fu comunicata Kirkby Mallory entrò in lutto, formale ma profondamente sentito. Lord Byron meritava certi omaggi e onori in virtù del suo ceto, ed essendo sua vedova, mia madre si sarebbe assicurata che tutto si svolgesse nel modo più appropriato. Contro i critici pronti a sostenere che fece il suo dovere solo per mantenere una facciata nei confronti del pubblico – numeroso, ve lo assicuro – posso garantire che il suo dolore era autentico.

E lo era anche il mio, sebbene mia madre non lo capisse. «Ada ha pianto molto quando le ho dato la notizia» la sentii dire a un’amica che era venuta a farle le condoglianze. «Credo che abbia pianto più per avere visto la mia agitazione, e per il pensiero che un giorno avrebbe potuto perdere anche me, che per altri motivi. Non sa quasi nulla di suo padre, e una bambina come lei non può provare sentimenti autentici per qualcuno che non ha mai conosciuto. È una grande consolazione per me che non soffra davvero».

Invece il mio dolore era vero quanto il suo, e profondo. Piangevo il padre che conoscevo solo a sprazzi, piangevo ciò che ora sapevo di avere perso definitivamente, l’opportunità di conoscerlo meglio.

La storia della morte di mio padre riempì le colonne dei giornali in Inghilterra e in tutto il mondo, ma mia madre e mio nonno mi protessero più che poterono dai dettagli sordidi. Solo più avanti seppi quanto aveva sofferto a Missolungi, quanto increduli e disperati erano stati i medici che avevano fatto di tutto per salvargli la vita. Secondo il suo leale servitore, Fletcher, che venne a trovare mia madre ai primi di luglio, nel delirio della febbre poco prima della morte, mio padre aveva parlato di sua moglie e di sua figlia.

«Ha detto: “Oh, mia povera bambina! Mia cara Ada! Mio Dio, quanto vorrei vederla!”» riferì Fletcher, con il cappello in mano e lo sguardo rivolto rispettosamente in basso. «Poi ha detto: “Dalle la mia benedizione, e a mia sorella e ai suoi figli”».

«Tutto qui?» chiese mia madre. «Non ha detto altro?»

«No, signora. Poi ha detto: “Va’ da Lady Byron, va’ da lei e dille… dille tutto…” E ha continuato a parlare, per venti minuti, ma non sono riuscito a capire le sue parole».

«Oh, provateci, provateci» lo implorò mia madre. «Cosa voleva che mi diceste?»

«Perdonatemi, signora. Mi dispiace molto, ma non lo so». Fletcher esitò. «Ha detto un’ultima cosa, sulla fine».

«Coraggio…»

«Mi ha guardato e ha detto: “Adesso voglio dormire”. Si è girato sulla schiena, ha chiuso gli occhi ed è spirato».

Poco dopo la sua morte, i medici effettuarono un’autopsia, non per determinare le cause del decesso ma per capire in che modo un uomo di tale genio fosse diverso dagli altri. Notarono che i suoi polmoni erano estremamente capienti e forti, che il cranio era eccezionalmente spesso, ma non trovarono nient’altro di strano che potesse spiegare i suoi doni poetici. Gli asportarono il cuore, il cervello e l’intestino e li trasferirono in contenitori separati. Poi i suoi resti vennero disposti in una bara e portati a bordo della nave Florida, che salpò il 24 maggio alla volta dell’Inghilterra.

Mentre la Florida era in viaggio, scoppiò una viva polemica su dove avrebbe dovuto riposare mio padre. Era fuggito dall’Inghilterra tra gli scandali e l’ombra dei debiti, ma durante l’esilio che si era autoimposto era diventato un eroe del popolo greco e si era redento agli occhi di molti suoi connazionali. Inoltre non si poteva negare che il dono del suo genio, la sua poesia, avesse arricchito in modo incommensurabile la nazione. Si doveva perdonare Lord Byron, rifiutato dalla società inglese mentre era in vita, e accoglierlo a braccia aperte, con il cuore gonfio di dolore, ora che era morto?

La gente comune, che amava e ammirava mio padre nonostante la sua insolenza e i suoi peccati, chiese che gli venissero accordati un funerale di stato e una sepoltura a Westminster Abbey. Anche mia madre espresse pubblicamente la propria speranza che venisse almeno onorato con una lapide commemorativa al Poets’ Corner, e quando tale proposta incontrò resistenza, compose una poesia che protestava contro la sua esclusione dai ranghi dei grandi uomini che vi erano seppelliti. Ma le sue preghiere dignitose non smossero il risoluto decano dell’abbazia, il quale dichiarò che i peccati di Lord Byron erano tanto grandi che né i suoi resti né un monumento commemorativo potevano essere accolti al Poets’ Corner o in un altro luogo benedetto sotto la sua giurisdizione.

Alla fine fu deciso che mio padre sarebbe stato sepolto nella cripta della famiglia Byron nella chiesa di Hucknall Torkard, non lontano da Newstead Abbey.

La Florida giunse all’estuario del Tamigi il 29 giugno e qualche giorno dopo il miglior amico di mio padre, Sir John Hobhouse, giunse per scortare i suoi resti nell’ultima parte del viaggio. Molti anni dopo Hobhouse mi avrebbe raccontato che vedere la nave gli fece l’effetto di una mazzata, e il dolore fu acuito dallo spettacolo degli adorati cani di mio padre che giocavano sul ponte della nave. Quando recuperò la bara di mio padre, chiese che venisse sollevato il coperchio per guardare l’ultima volta il volto del suo caro amico, ma per fortuna mi risparmiò la descrizione di ciò che vide.

Il corpo di mio padre venne esposto pubblicamente per diversi giorni a casa di Sir George Edward Knatchbull in Great George Street, Westminster, dove in molti andarono a rendergli omaggio. Poi la bara e due urne contenenti il cervello e il cuore vennero trasferite in un carro funebre nero e lucido per il tragitto fino al luogo dove avrebbe riposato in eterno. Il corteo passò da Westminster Abbey, dove non gli fu offerto un monumento commemorativo ma i lenti e profondi rintocchi della campana, poi lungo Whitehall e Tottenham Court Road e attraverso la città, con un seguito straordinario di quarantasette carrozze. Al casello che conduceva alla Great North Road, le carrozze si fermarono e il carro funebre procedette verso nord, in direzione di Nottingham, da solo; non del tutto solo, però, perché una folla di gente comune si era raccolta lungo i due lati della strada per assistere al suo passaggio, e le campane suonarono in ogni villaggio in cui passarono, e ogni notte, quando il carro si fermava lungo il tragitto, grandi folle si radunavano per piangerlo e rendergli omaggio.

Il 12 luglio, migliaia di persone si alzarono presto e si disposero lungo le strade di Nottingham per accogliere l’arrivo del carro funebre alle cinque del mattino. Si fermò al Blackamoor’s Head Inn, dove la bara e le urne furono portate in una stanza adornata di tessuto nero con il blasone dei Byron, e illuminata da sei alte candele. Dall’alba fino a metà pomeriggio, migliaia di persone in lutto vennero ammesse, venti per volta, per sfilare davanti al feretro; alcune erano immerse nei propri pensieri, altre pregavano, altre piangevano senza nascondersi. Altre migliaia, decise a rendergli omaggio, temendo che il corpo del loro eroe venisse portato via prima che arrivasse il loro turno, crearono problemi agli agenti di polizia responsabili del servizio d’ordine.

Poi la bara fu caricata di nuovo sul carro funebre per gli ultimi dodici chilometri. Vestite a lutto, molte persone lo seguirono a piedi, mentre altre rimasero sul ciglio della strada per guardare il passaggio del corteo, e la processione si gonfiava a ogni paese che passavano. Quando giunse infine a Hucknall Torkard, la chiesa era già piena di visitatori in lacrime, vestiti di nero, arrivati ore prima dell’inizio del funerale previsto alle tre e mezzo, per essere sicuri di essere presenti all’ultimo atto della vita breve ma brillante di Byron.

C’erano Hobhouse, e Fletcher, e altri che mio padre aveva chiamato amici, ma io e mia madre non vi assistemmo. La sua salute era troppo fragile per affrontare una simile prova, disse. La pregai in lacrime di permettere a Miss Noble di portarmi, ma dichiarò che non sarebbe stato appropriato per me assistere alle esequie senza di lei. «Ti guarderebbero tutti» mi avvertì quando protestai.

Rabbrividii al pensiero di tanti occhi indagatori fissi su di me, e non insistetti. Trascorremmo quel giorno triste a casa, immerse nei nostri pensieri.

Nei giorni seguenti aprii il prezioso medaglione d’oro che mio padre mi aveva mandato e toccai la sua ciocca castana tanto spesso che è un miracolo che non abbia rovinato entrambi i cimeli. Quella preziosa reliquia era tutto ciò che mi restava di mio padre. La sua poesia era un capolavoro, ma le sue parole appartenevano al mondo. Il medaglione e i capelli che conteneva, invece, erano solo miei.

A parte l’anello che avrei ricevuto in seguito, non mi lasciò nient’altro, non un libro, un ritratto, un oggetto per ricordo; niente. Andò tutto a mia zia Augusta, come mio padre aveva deciso prima della mia nascita. Questo includeva la sua ricchezza personale di circa centomila sterline, ma non Newstead Abbey, che aveva venduto, né il suo titolo, che andò al parente maschio più stretto, suo cugino, il capitano George Anson Byron, ora settimo barone Byron. In un altro gesto di generosità e altruismo mia madre donò immediatamente al nuovo Lord Byron il suo appannaggio di duemila sterline all’anno, fornendo a lui e famiglia una fonte di sostentamento estremamente necessaria.

Un cinico direbbe che mia madre, ora ricca vedova, poteva permettersi quel regalo, ma in realtà non aveva alcun obbligo di mantenere il successore del marito. Sono fermamente convinta che la maggior parte della gente si sarebbe tenuta il guadagno insperato, spendendolo per apportare migliorie nelle sue proprietà o comprando terre, cavalli e abiti eleganti. Sono sempre stata orgogliosa di mia madre per la sua generosità, pur rimpiangendo di non esserne più spesso la destinataria.

Con la morte di mio padre, mia madre era diventata economicamente indipendente, e poteva vivere come desiderava senza dover chiedere il permesso a nessun uomo, una situazione della quale ben poche donne potevano godere a quei tempi. Non c’era da stupirsi che non pensasse a risposarsi. Non approfittò molto della nuova libertà, però, per colpa della stampa, che trasformò il rimpianto per il poeta in una forma di accanimento nei confronti della vedova. Era sottoposta a calunnie e canzonature, le sue azioni precedenti la Separazione vennero riesumate e pubblicizzate di nuovo, ogni sua parola fu analizzata, ogni decisione sulla mia educazione messa in dubbio, la sua assenza al funerale condannata. Anche la generosità nei confronti del capitano Byron fu criticata come scarsa e concessa a malincuore.

E i suoi aguzzini non scrivevano solo sui giornali, limitandosi a parole dannose ma effimere. Prima ancora che mio padre fosse sepolto, apparvero pubblicità di una falsa “autobiografia” basata, secondo l’autore, sul manoscritto che mio padre aveva mandato al suo editore nel 1820, e che si diceva contenesse «la corrispondenza privata di Lord Byron». Il fatto che l’autore fosse un lontano parente di mio padre, che sfruttava senza vergogna i loro rapporti, scandalizzava mia madre e indignava mio nonno. Hobhouse, l’esecutore testamentario di mio padre, riuscì a ottenere un’ingiunzione restrittiva per impedire la pubblicazione, ma dopo molte liti nei tribunali inglesi, l’autore senza scrupoli fece semplicemente pubblicare il libro in Francia. L’amico leale di mio padre si batté anche contro la pubblicazione di una biografia scritta dal poeta Thomas Medwin, cugino di Percy Bysshe Shelley, che lo presentò a mio padre nel 1821 durante il loro soggiorno a Pisa. Hobhouse perse quella battaglia, e in ottobre, sei mesi dopo la morte di mio padre, il Diario delle conversazioni di Lord Byron, trascritte durante la permanenza di Sua Signoria a Pisa negli anni 1821 e 1822 di Medwin apparve in tutte le librerie. Anche se l’editore nella prefazione aveva messo in chiaro che la sua responsabilità era limitata, Hobhouse e l’editore di mio padre, John Murray, minacciarono di fargli causa. Mia zia Augusta pregò mia madre di denunciare pubblicamente insieme a lei «quel libro ignobile», ma mia madre declinò, affermando che sarebbe stato meglio fingere di non averlo neanche letto.

Avendo subito simili attacchi, era normale che la salute di mia madre ne risentisse. Dimagrì, non riusciva a dormire, soffriva di mal di testa e problemi allo stomaco che il suo medico non riusciva a spiegare. Venne di nuovo assalita da una grande irrequietezza, come negli anni in cui tutto il peso della Separazione le gravava sulle spalle. Come prima, passò dalla casa di un’amica all’altra, da una località balneare a una tranquilla cittadina termale, quasi cercasse di battere sul tempo la propria sofferenza. Avrei voluto che mi portasse con sé, ma con me attorno a distrarla non poteva recuperare la sua forza e vitalità, quindi restai a Kirkby Mallory Hall con il nonno e la governante. Scrissi a mia madre molte lettere, cercando di sembrare allegra, assicurandole dei miei progressi negli studi, sperando che concludesse che ero diventata abbastanza brava da essere una compagnia gradevole, in modo che tornasse da me.

In settembre Miss Noble mi portò a Londra a vedere la Florida, che era rimasta in porto da quando aveva ricondotto in patria dalla Grecia le spoglie di mio padre. Era una nave bella, solida, dall’aspetto veloce, e mi rassicurava pensare che l’ultimo viaggio via mare di mio padre si fosse svolto a bordo di un’imbarcazione robusta e confortevole. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma fui coraggiosa e non piansi. Sapevo che non mi sarei mai avvicinata più di così alla tomba di mio padre fino all’età adulta, finché, come mia madre, non avessi potuto decidere da sola.

Con il passare dei mesi e il prolungarsi della mia solitudine consumai risme di fogli inseguendo mia madre; avevo senz’altro subito tutte le perdite che una bambina può aspettarsi di affrontare in un periodo tanto breve. Eppure, meno di un anno dopo la scomparsa di mio padre, il 15 marzo 1825 anche il mio amato nonno morì. Nelle sue ultime settimane, quando i medici confermarono il rapido declino della sua salute, mamma tornò precipitosamente dai suoi viaggi e si occupò con grande dolcezza di lui fino alla fine.

Ora anche il nonno se n’era andato. Mi restava solo mia madre, e la sua salute era fragile, o così sosteneva. Allora fui colta da una paura terribile, che non se ne andò più, che in qualsiasi momento la morte venisse a prendere anche lei, lasciandomi completamente sola al mondo, senza amore e senza protezione.