Bifrons era un luogo freddo e umido per trascorrervi il Natale, e quando mia madre tornò a casa per passare le feste con me, si ammalò al petto, le venne una tosse terribile, con febbre e brividi, e fu afflitta da una spossatezza costante. Su richiesta del suo medico partì quasi subito, all’inizio del nuovo anno, per riposarsi nel Devon, lasciandomi a casa con il mio solito seguito di governante, gatta e domestiche.
Puff era diventata una monella, proprio come me alla sua età. Il giorno dopo la partenza di mia madre, scoprii che la mia gatta si era fatta un nascondiglio segreto nella canna fumaria della mia camera da letto. Era un angolino repellente, perché ci nascondeva i poveri uccellini che catturava in giardino, tenendoli in serbo in quella sua dispensa fin quando non aveva voglia di mangiarli.
Trasformai l’episodio in una storia divertente che raccontai a mia madre in una lettera, ma non riuscii a mantenere a lungo quel tono allegro. «Ieri è passata una settimana esatta da quando sei partita da Bifrons» scrissi sette giorni dopo, «e adesso ho davanti a me due lunghe, noiose, interminabili settimane proprio come quella che è appena trascorsa, solo che sembreranno ancora più lunghe e ancora più noiose».
Annoiata e sola, mi misi a pensare ai poveri uccelli che Puff aveva ucciso. Mi chiesi come avesse fatto a catturarli, visto che avevano delle ali e presumibilmente avrebbero potuto volare via. La rapidità e il passo furtivo della gatta dovevano essere superiori alla loro prontezza nello spiccare il volo, conclusi, a meno che non li avesse sorpresi nel sonno.
La mia contemplazione degli uccelli mi fece tornare in mente la nostra gita sul Monte Bianco a Ginevra, la cui cima avevo intravisto tra le nubi stando sulle colline più basse. Ricordavo di avere pensato che, se fossi stata un uccello, avrei potuto volare sulla vetta più alta e godere di una vista spettacolare delle Alpi e delle valli sottostanti.
A quel punto venni folgorata da un’ispirazione: non potevo trasformarmi in un uccello, ma forse potevo creare una macchina capace di portarmi in aria come una nave che traghettava i passeggeri in mare.
La mia immaginazione si infiammò e iniziò ad ardere. Studiai gli uccelli in volo e a riposo, decisa a capire come le ali – così fragili, ma anche robuste e dalla forma tanto particolare – potessero sollevare il corpo di un uccello e spingerlo in avanti. Dopo avere fatto diversi schizzi, cominciai a creare un modello cartaceo delle dimensioni e proporzioni esatte delle ali di un uccello rispetto al corpo, usando la memoria e le immagini degli uccelli che apparivano nei dipinti disseminati in giro per Bifrons.
Il mattino dopo, quando non mi presentai alla nostra lezione di francese, Miss Stamp mi trovò nello studio immersa nell’analisi dei miei modellini, a scrivere freneticamente dei calcoli su un foglio di carta. «Cosa state facendo?» mi chiese, un po’ sorpresa dalla mia profonda concentrazione.
«Sto calcolando le proporzioni di ali capaci di sostenere il peso di un corpo umano» dissi, senza staccare gli occhi dal mio lavoro. «Il corpo di una bambina di dodici anni, per essere precisi».
Miss Stamp sbirciò da sopra la mia spalla le mie somme e cifre. «E cos’avete scoperto?»
«Che mi serve molta carta robusta e del fil di ferro». Aggiunsi riluttante: «E che probabilmente dovrei mangiare un po’ meno a ogni pasto, se voglio staccarmi da terra».
«Ammiro il vostro impegno, ma non potete sacrificare le altre lezioni a questo progetto».
«Altri cinque minuti?»
«No, subito. Avete già quindici minuti di ritardo, che verranno sottratti al tempo di gioco con Puff».
Finii obbediente la mia lezione di francese, poi musica, geografia, poi la mia governante gentilmente convenne che il calcolo delle proporzioni per le ali poteva rientrare nel corso di matematica, e mi permise di rimettermi al lavoro.
A mano a mano che i giorni passavano e i miei progetti prendevano forma, descrissi orgogliosa i progressi in una lettera a mia madre. «Domani intendo cominciare a costruire le ali delle dimensioni giuste» annunciai un freddo e ventoso 3 febbraio, non certo un giorno adatto per volare, ma una giornata ideale per lavorare al chiuso. «Più ci penso, più sono convinta che, in un anno di esperienza e pratica, sarò in grado di perfezionare l’arte del volo».
Pensavo quasi continuamente a questa nuova disciplina, che chiamai Volologia, e mentre misuravo, tagliavo e piegavo il fil di ferro, decisi che se la mia invenzione avesse funzionato avrei dovuto scrivere un libro sull’argomento, illustrato con delle tavole e dotato di note perché altri potessero ripetere i miei esperimenti.
«Se invento davvero un metodo per volare» dissi a Miss Stamp un pomeriggio mentre ballavamo la quadriglia, perché mi aveva strappato al mio lavoro per una lezione di danza, «pensate quanto sarà utile a mia madre. Sarò in grado di portarle dei messaggi, o di consegnare i suoi ai suoi amici, più velocemente di quanto non faccia la posta via terra ora».
«Molto gentile da parte vostra» rispose. «Forse non trascurerete più gli studi di geografia, adesso che sapete quanto vi potranno essere utili per orientarvi».
Ero così affascinata dall’idea della posta aerea che consacrai gran parte della mia lettera successiva a mia madre a quell’argomento. «Quando volerò sarò in grado di portare tutte le tue lettere e messaggi e consegnarli molto più in fretta della posta o di qualunque altro metodo terrestre» scrissi, con la penna che faticava a seguire il ritmo dei miei pensieri. «Per completare il tutto, il materiale per il volo dovrà comprendere una borsa per la posta, una piccola bussola e una mappa: questi ultimi due oggetti mi permetteranno di attraversare il paese nel modo più diretto senza tener conto di montagne, colline, valli, fiumi, laghi e via dicendo». Osservai che il mio libro sulla Volologia doveva contenere una lista dei vantaggi del volo per convincere gli scettici. Firmai con uno svolazzo, scrivendo «il tuo affezionatissimo Piccione Viaggiatore».
In una camera da letto inutilizzata, che ribattezzai Stanza del Volo, allestii un laboratorio per la costruzione delle ali, ed elaborai un sistema di corde, carrucole e una struttura triangolare sulla quale montavo e testavo le mie ali. Più lavoravo, però, più scoprivo delle lacune nelle mie conoscenze. Non sapevo come un uccello muoveva le ali, per esempio, o cosa gli permetteva di volare quando le ali spiegate stavano ferme. Quando nuotavo, se smettevo di muovere le braccia e i piedi, andavo a fondo. Cosa consentiva a un uccello di restare in cielo se non muoveva l’aria con le ali? Perché non si schiantava al suolo? La mia ignoranza non mi scoraggiava, però, né mi convinceva dell’impossibilità del progetto, ma mi spingeva a lavorare più intensamente, imparare di più e superare ogni problema che incontravo.
Miss Stamp trovava sempre più difficile farmi uscire dalla Stanza del Volo, ma il mio accanimento venne premiato, perché per la fine di marzo avevo superato un ostacolo molto difficile sul movimento e l’estensione delle ali, e avevo trovato un modo di fissare le ali al corpo. Restavano, però, molte questioni aperte. «Adesso ho un grande favore da chiederti» scrissi a mia madre il 3 aprile. «Dovresti procurarmi qualche libro che mi permetta di capire meglio l’anatomia di un uccello, magari con delle tavole di illustrazioni che corredino le descrizioni, perché non ho nessuna voglia di dissezionare un volatile». Le battute di caccia di Puff mi avevano dissuaso dallo studiare da vicino quel particolare campo scientifico.
Desideravo profondamente consultare uno scienziato vero che potesse dirmi se i miei progetti erano realizzabili, e siccome gli unici uomini di scienza che conoscevo erano medici, chiesi a mia madre di scrivere al dottor Mayo da parte mia, e ad altri dottori la cui opinione avrebbe potuto risultarmi utile. «I medici non costruiscono nulla, però» dissi a Puff mentre la coccolavo tenendola in braccio, una sera, perché Miss Stamp aveva dichiarato che la Stanza del Volo era chiusa fino all’indomani e solo la mia gatta fedele aveva la pazienza di sopportare un’altra lezione di Volologia. «Questo è uno svantaggio. Devo parlare con un carpentiere navale, o un ingegnere di motori a vapore…»
Soffocai un grido, colta da un’improvvisa ispirazione.
Quella notte riuscii a malapena a chiudere occhio, tanto ero eccitata dai pensieri che mi vorticavano in testa. Al mattino mi lavai in fretta, diedi da mangiare a Puff, trangugiai la colazione e corsi di sopra nella Stanza del Volo per buttare giù le mie idee prima di andare a lezione. Non avevo abbandonato il progetto originale di ali che avrei portato sulla schiena, ma proprio come sulle strade si incontravano carrozze o calessi, era possibile concepire vere e proprie macchine volanti.
«Ada!» esclamò Miss Stamp seccata, stando sulla porta. «Siete in ritardo di dieci minuti per la lezione di francese».
Soffocai un grido e balzai in piedi. Mi pareva di avere lavorato ai disegni nuovi solo per pochi minuti, ma la smorfia severa della mia governante sembrava indicare il contrario. La seguii mesta in aula, dove mi costrinsi ad accantonare tutti i pensieri legati alla Volologia e a concentrarmi sulle coniugazioni, la cartografia e tutti gli altri argomenti sperando di farmi perdonare. Eravamo diventate quasi amiche durante il viaggio in Europa, e la mia recente passione aveva dimostrato che era più indulgente di quanto meritassi. Non potevo sopportare di perderla, dopo avere perso già tante bambinaie e governanti.
Solo dopo il tè potei tornare a occuparmi di Volologia, e solo perché era l’argomento dell’ultima lettera a mia madre. «Non appena avrò perfezionato il volo» dichiarai, dopo essermi informata, come lo imponeva la buona educazione, sulla sua salute, «ho il progetto di renderlo più efficace grazie a un motore a vapore che, in caso di successo, sarà ancora più straordinario dei traghetti o delle carrozze a vapore. Creerò un oggetto con la forma di un cavallo con un motore a vapore all’interno capace di muovere un immenso paio di ali, fissate all’esterno, in modo da sollevare in aria una persona che gli siede in groppa». Riconobbi che questo veicolo probabilmente avrebbe presentato «molte più difficoltà e ostacoli» delle mie ali da indossare, ma come sarebbe stato magnifico quando fossi riuscita a realizzarlo! Aggiunsi una riga veloce sui miei studi su Luigi XIV, perché non pensasse che trascuravo le lezioni, le chiesi quando sarebbe tornata a casa e firmai di nuovo «il tuo affezionatissimo Piccione Viaggiatore».
Quando Miss Stamp me lo permetteva, alternavo la costruzione delle ali di carta alla progettazione del mio cavallo volante, e cominciai a chiamarli rispettivamente Icarus e Pegasus. Ero felice e concentrata quando lavoravo, agitata e nervosa quando me ne dovevo staccare. Non lasciavo mai di mia volontà la Stanza del Volo, salvo il pomeriggio in cui una cameriera corse dentro per annunciarmi che Puff stava partorendo sotto il mio letto.
Per un attimo dimenticai la Volologia e mi precipitai a osservare quella meraviglia della biologia, più impressionante di quanto immaginassi ma ugualmente affascinante. Dopo che Puff ebbe pulito i suoi piccoli leccandoli, volevo coccolarli, ma la nuova madre – chi era il padre, mi chiedevo? – non lasciava avvicinare nessuno se non Miss Stamp. Qualche giorno dopo Puff portò i piccoli in una fessura sotto il soffitto, dove nessuno, neanche il lacchè più alto con una scala, poteva raggiungerli. Era un posto sporco e pieno di muffa, assolutamente inadatto per dei micini, ma Puff faceva di testa sua. Restò con loro per giorni interi, scendendo solo per mangiare.
«Se le mie ali fossero finite» dissi a Miss Stamp «potrei volare lassù e dare un’occhiata». Mentre immaginavo di volare sul soffitto per ispezionare l’angolino dove Puff aveva nascosto i piccoli, venni colta dall’urgenza di terminare l’Icarus al più presto, e corsi in laboratorio, rifiutando di uscire per pranzo e scendendo solo con riluttanza per cenare.
Il giorno successivo la governante mi portò una lettera di mia madre. Sperando di trovare delle notizie sul libro di anatomia degli uccelli che le avevo chiesto, o le risposte alle mie domande per il dottor Mayo, divorai la lettera, ma mi sentii riportare bruscamente con i piedi per terra dalle sue parole. «Mentre ammiro la tua tenacia e i tuoi sforzi» aveva scritto mia madre, «temo che tu pensi troppo alle tue ali quando dovresti concentrarti su altre questioni più importanti». Mi disse poi che sarebbe tornata a casa presto, accompagnata dalle sue amiche Miss Montgomery e Miss Doyle, e dalla nipote di Miss Doyle, ma neppure questa notizia mi risollevò il morale.
Se mia madre avesse posto il veto, la Volologia sarebbe finita prima ancora di sbocciare.
Questa conclusione mi mandò nel panico. Mi ero già vista così spesso tra le nubi che mi risultava insopportabile pensare di non riuscire a sollevarmi da terra. Il pensiero che tutto quel duro lavoro fosse destinato a essere inutile era altrettanto difficile da concepire. Mio padre aveva le sue poesie, mia madre la sua scuola primaria; anch’io volevo realizzare una Grande Impresa per il bene del mondo, e avevo deciso che doveva trattarsi della Volologia.
Dopo avere raccolto le idee, liberai una porzione del tavolo nella Stanza del Volo, mi sedetti e scrissi a mia madre una risposta pacata e razionale. «Ho ricevuto la tua lettera stamattina e non ritengo di pensare alle ali quando dovrei pensare ad altro». Aggiunsi subito: «ma è stato gentile da parte tua farmelo notare». Molto gentile, anche se c’ero rimasta male, perché le sue preoccupazioni erano frutto dell’amore che provava per me, non c’erano dubbi. «Sei sempre stata molto buona con me sotto ogni aspetto. In primo luogo avrò il piacere di vederti, cosa che mi rallegrerà molto, perché quando sei partita stavi così male che pensavo non saresti sopravvissuta». Quando ripensavo alla tosse terribile che aveva avuto prima di partire per il Devon, mi vergognavo molto delle preoccupazioni che le avevo causato.
Sbattei le palpebre per cacciare via le lacrime, mi schiarii la voce e intinsi di nuovo la penna nell’inchiostro.
Continuai la lettera con cura, esprimendo la mia gioia al pensiero di accogliere al più presto lei e le sue amiche; poi, però, venni colta da uno strano impulso, e volli assolutamente spiegarle, in termini ragionevoli e logici, il mio progetto, persuaderla che non era un capriccio infantile ma un’autentica ricerca scientifica. Quello lo avrebbe capito per forza, e forse perfino ammirato. «Adesso ho deciso di costruire delle ali più piccole di quanto avessi previsto prima» scrissi, mettendomi nei panni di un uomo di scienza, «e saranno perfettamente proporzionate sotto ogni aspetto, con la stessa identica forma di quelle di un uccello, e benché le loro dimensioni non siano ancora adeguate a permettermi di volare, saranno sufficienti a spiegare a chiunque il mio progetto, e mi serviranno come modello per le mie future ali vere».
Il giorno dopo spedii la mia lettera, e siccome la giornata era soleggiata e calda, mostrai che ero in grado di ignorare la Stanza del Volo e uscii a giocare. Non servì: non volevo smettere di pensare alla Volologia e questa non intendeva lasciarmi andare. In uno dei campi a est della casa per un pelo non camminai su un corvo morto che giaceva a zampe per aria nel fango, e confesso che non riuscii a resistere alla tentazione di studiarne le ali. Ignorando il ribrezzo, presi un rametto e lo usai per muovere le ali da una parte all’altra e per girare il cadavere al fine di esaminare le ali sopra e sotto.
Quella sera scrissi a mia madre del mio studio anatomico del povero uccello, e mentre scrivevo, china, sulla lettera, Miss Stamp si schiarì la voce per attirare la mia attenzione. «Vorrei che aggiungeste un appunto da parte mia».
Feci una smorfia. Raramente i post scriptum di Miss Stamp contenevano dei commenti che mi fossero favorevoli. «Certo. Cosa volete che scriva?»
«Per favore, scrivete a Lady Byron che sotto certi aspetti sono molto soddisfatta di voi, ma che spesso avete dei momenti di indolenza che non mi piacciono per niente».
«Devo proprio dirglielo?» le chiesi indignata. Miss Stamp poteva non approvare il modo in cui trascorrevo il mio tempo, ma non ero certo stata con le mani in mano.
«Sì, certo».
Soffocando un sospiro, aggiunsi quell’appunto alla mia lettera e mi firmai Piccione Viaggiatore, un piccolo atto di ribellione.
Quando mia madre e le sue compagne giunsero infine a Bifrons una settimana dopo, ero così felice di vederla in buona salute che mi venne quasi da piangere. La tosse se n’era andata, le guance erano morbide e rosee, e aveva una luce allegra negli occhi che non le avevo visto da quando eravamo partite da Torino. Fui il più possibile educata e gentile con le sue amiche, ma loro mi lanciavano occhiate di disapprovazione esplicita qualunque cosa facessi, compresa la nipote, che aveva solo pochi anni più di me. Rabbrividii al pensiero di ciò che mia madre poteva aver raccontato per provocare quelle occhiate severe e censorie.
Dopo il tè, mentre le altre facevano un giro in giardino, dove si sarebbero probabilmente divertite a emettere sentenze sui fiori e a prendere in giro gli arbusti, mia madre mi chiese di mostrarle le mie ali. Entusiasta, la condussi subito nella mia Stanza del Volo, chiacchierando strada facendo delle nuove scoperte, di problemi irrisolti, e dei molti usi pratici della mia invenzione. Com’ero orgogliosa di mostrarle i cavi, le carrucole e l’imbragatura che avevo costruito; di dimostrarle il funzionamento delle ali di carta; di spiegarle gli schizzi del Pegasus, la macchina volante a vapore che intendevo costruire dopo che le ali di carta sarebbero state perfezionate.
Mia madre ascoltò attentamente, annuì con aria grave e fece qualche domanda, alla quale risposi con prontezza ed entusiasmo. Quando ebbe visto tutto, lanciò un ultimo sguardo alla stanza mentre io la osservavo sorridendo, aspettandomi lodi e suggerimenti per delle migliorie.
Al contrario, fece un sospiro profondo. «Oh, Ada» disse con voce turbata e stanca. «L’esuberanza che trapelava dalle tue lettere mi preoccupava, ma l’attribuivo all’entusiasmo giovanile. Anche quando Miss Stamp mi ha detto che il tuo interesse per il volo era diventato una mania, speravo che si fosse sbagliata. Ma quando mi guardo attorno e vedo tutto questo…» Si voltò con un gesto elegante, accigliata. «Vedo che ti ho permesso di spingerti troppo in là».
«Troppo in là?» esclamai. «Ma non ho ancora finito. Non ho fatto neanche un volo di prova. Volevo saltare da un’altezza moderata all’inizio, per esempio dall’alto di una botte o dalla sommità di un palo di recinzione, e se le mie ali si fossero dimostrate efficaci sarei passata ad altezze più…»
«No, Ada». Mia madre scosse il capo. «Hai già sprecato troppo tempo in questa follia. Prima credevo che fosse una distrazione innocua, ma ti ha fatto perdere troppe ore – giorni, settimane perfino – che avresti potuto dedicare allo studio e al miglioramento personale».
Sentii salire le lacrime. «Non obbligarmi a smettere» dissi, con la voce gonfia di pianto. «Non ora, che sono così vicina a volare».
«Ada» ripeté, e sapevo che non ci sarebbe stato modo di persuaderla.
Miss Stamp mi aiutò a smantellare tutto il materiale per il volo, a riunire i disegni e i progetti e a piegare le ali di carta. Furiosa, profondamente delusa, volevo bruciare tutto, carta e ferro, ma Miss Stamp me lo impedì. Non posso dire che mi dispiacque quando raccolse i resti dei miei sogni, disposti in pile disordinate, e li portò via, in un posto sicuro, disse, se mai li avessi voluti più avanti. Perché mai li avrei voluti se mi era stato proibito di volare, o perfino di completare i miei modelli, proprio non lo sapevo, ed ero troppo avvilita per chiederlo.
Il giudizio di mia madre fu un colpo durissimo. Ammetto che non avevo trascorso troppe ore sulle altre materie durante lo studio della Volologia, ma avevo comunque fatto progressi, e avrei potuto imparare a distribuire il mio tempo in modo più equo se me ne fosse stata lasciata la possibilità. Con il passare dei giorni dissi a me stessa che mia madre aveva agito per amore, che temeva che le ali non avrebbero funzionato e che sarei rimasta ferita, forse perfino uccisa. Non potevo darle tutti i torti. Le nuove invenzioni spesso non funzionavano, a volte sortivano risultati disastrosi. Nello spezzarmi il cuore, forse mia madre mi aveva salvato la vita.
Però non ritenevo giusto parlare di “mania”. Interesse, certamente. Passione, sì. Entusiasmo, forse. Ma mania, no. Lo nego oggi come lo negavo allora.
Nelle settimane che seguirono, sorpresi talvolta mia madre che mi osservava quando pensava che fossi troppo distratta per accorgermene, e la preoccupazione e delusione che le vidi negli occhi mi turbarono. Decisi di dimostrarle che non ero pazza, che ero razionale e dotata di autocontrollo come una qualsiasi bambina di dodici anni e mezzo senza sangue Byron nelle vene.
Ripresi a dedicarmi alle mie lezioni con Miss Stamp e in maggio, quando cominciai a studiare la geometria, scoprii i teoremi e le trasformazioni con autentico piacere. Alla fine dell’estate avevo iniziato a imparare a cavalcare, il che rese felice mia madre, infastidita dalla mia paura dei cavalli fino a quel momento.
E, come scoprii, se il cavallo correva abbastanza veloce, cavalcare poteva essere esaltante quasi quanto volare, forse; non ritenni opportuno dirlo a mia madre, perché temevo che catalogasse l’equitazione come uno stimolo eccessivo per l’immaginazione e mi proibisse anche quella.