12.

Così il cuore s’infrange, ma sebbene infranto, continua a vivere

Marzo-maggio 1833

Più tardi seppi che mia madre aveva versato a Wills lo stipendio per il resto della primavera e gli aveva dato delle referenze accettabili, che lui usò per trovare un nuovo posto di lavoro presso una famiglia nel Suffolk. Era sottinteso che quella generosità avrebbe acquistato il suo silenzio, e che non avrebbe mai più dovuto chiedere nulla.

Mentre ero chiusa in camera mia, sua sorella venne a prendere i documenti e il denaro, perché Wills era stato avvertito di non tentare in nessun modo di comunicare con me. Se mai avesse rimesso piede a Fordhook, o in un’altra proprietà appartenente a mia madre, sarebbe stato arrestato, e lei avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere, e non era poco, per assicurarsi che venisse imprigionato per sempre o deportato in Australia.

Anche se capivo bene la gravità delle conseguenze che Wills avrebbe dovuto subire, all’inizio speravo che sarebbe venuto comunque a cercarmi. Potevamo scappare da qualche parte in Europa e sposarci, trovare lavoro come insegnanti per qualche famiglia sofisticata, francese o svizzera, che non temeva le ire di mia madre; saremmo stati poveri ma felici e innamorati. Quando ebbi il permesso di lasciare la mia stanza per fare qualche passeggiata scortata da una Furia, trovavo delle scuse per recarmi nella serra per vedere se mi aveva lasciato un messaggio, un pegno del suo amore, una lettera con cui mi comunicasse un luogo e un giorno per incontrarlo per scappare insieme. Cercai invano, vi tornai un altro giorno e cercai di nuovo, ma non trovai mai nulla.

Conclusi, riluttante, che Wills non poteva venire a Fordhook, ma continuai a sperare che trovasse un modo per farmi avere un messaggio. Non mi aspettavo che mi spedisse una lettera per posta, perché naturalmente mia madre l’avrebbe intercettata. Né pensavo che avrebbe corrotto un servitore, perché tutti in casa nostra erano assolutamente leali alla padrona. Pensavo che avrebbe persuaso un fattorino a trasmettermi un messaggio, o che si sarebbe fatto aiutare da un bambino coraggioso del paese, con la promessa di una moneta, ma non mi arrivò nulla.

Non potevo volergliene se non se la sentiva di sfidare mia madre, ma desideravo comunque che ci provasse. Ogni giorno in cui non lo faceva mi dimostrava che la paura di mia madre era più forte del suo amore per me. Anche se ero triste e delusa lo perdonavo, e mi convinsi perfino che avesse preso la decisione giusta. Se lo amavo sul serio non potevo chiedergli di rinunciare ai suoi progetti e al sogno di diventare un professore di letteratura solo per me, soprattutto se questo avesse causato uno scandalo e lo avesse condannato all’esilio. Cos’altro potevo fare? Nel mio cuore gli diedi un addio addolorato e gli augurai ogni bene.

Non lo rividi mai più. Allora non potevo saperlo, naturalmente, e per anni, ogni volta che mi recai nel Suffolk, lo cercai. Il cuore mi batteva più forte quando vedevo qualcuno con la stessa tonalità di biondo, o la sua andatura familiare, o una certa curvatura delle spalle e la vita stretta. Quelle vane speranze diminuirono con il passare degli anni, anche se confesso che non sparirono mai del tutto.

Spero che ovunque si trovi ora, Wills stia bene e sia felice.

Dopo il fallimento della mia fuga, il rapporto con mia madre cambiò definitivamente. Per tutta la vita aveva cercato di estirpare da me l’influenza del sangue Byron, ma amando Wills avevo confermato le sue peggiori paure: mancavo di autocontrollo, aspiravo all’indipendenza, disprezzavo l’autorità e cedevo al richiamo delle passioni. Ma se la sua opinione di me era cambiata, lo stesso valeva per i miei sentimenti nei suoi confronti. Sapevo che avrei dovuto amare, riverire e rispettare mia madre, ma ora provavo soggezione e ammirazione più che amore e affetto.

Sprofondai in una malinconia tanto profonda e straziante che sembrava avessi subito un lutto. Apatica e taciturna, non trovavo nessun conforto nei libri, nello studio o nei cavalli. Non avevo appetito, e persi sei chili; all’inizio mia madre, che mi trovava un po’ troppo in carne, si rallegrò, ma poi si allarmò vedendo che continuavo a dimagrire. Chiamò i medici migliori, che mi esaminarono e decisero che erano necessari salassi e coppette, ma dopo i trattamenti mi sentivo più fragile e fiacca di prima.

Potreste considerare mia madre responsabile del mio dolore, come facevo io, ma fu lei a cercare più di chiunque altro di strapparmi a quello stato di apatia. Ordinò alla cuoca di preparare i miei piatti preferiti e fece di tutto per indurmi a mangiarli. Mi portò in uno stabilimento termale di Brighton perché cambiassi aria e per ridare un po’ di colore alle mie gote. Quando tornammo a casa, mi ricordò che i nostri poveri cavalli soffrivano per il fatto che li trascuravo, e per senso di colpa più che nella speranza di trarne piacere, ricominciai a cavalcare.

Per quanto riguardava i miei bisogni spirituali, mia madre fece di nuovo appello al dottor William King, il devoto unitariano che, insieme alla moglie, aveva guidato la mia educazione morale quando eravamo a Hanger Hill. Il dottor King mi accompagnò in lunghe passeggiate nella tenuta di Fordhook, durante le quali mi esortò ad analizzare con cura il mio comportamento recente, esaminando ciò che avevo fatto alla luce fredda e lucida della ragione invece che attraverso il filtro rosa dell’infatuazione. «L’immaginazione è una qualità pericolosa» affermò, con la fronte aggrottata. «È essenziale che impariate a controllarla e a non permettere a pensieri perniciosi di vagare nella mente a briglia sciolta. Dovete dominare le emozioni, non lasciarvi dominare da esse».

A mano a mano che le nostre conversazioni si moltiplicavano sotto il cielo azzurro, tra i profumati germogli primaverili dei giardini di Fordhook, mentre seguivamo gli stessi sentieri curvi e consumavamo la ghiaia sotto i piedi, anche il mio orgoglio e le mie certezze venivano ridotti in polvere sotto la nostra osservazione costante e impietosa. Poco per volta mi aiutò a capire che ero stata impulsiva e avevo rischiato di attirare su di me uno scandalo catastrofico. Un’altra ragazza, anche nobile, avrebbe potuto scappare e vivere nell’anonimato, in povertà, in una terra straniera con l’uomo che amava, ma non certo la figlia di Lord Byron, che sarebbe stata inseguita e tormentata dagli stessi giornalisti e dalle malelingue che avevano rovinato la vita a lui. Il pubblico, assetato di scandali, invidioso della fama altrui, non avrebbe mai permesso a me e Wills di vivere in pace. Se fossimo scappati insieme, avrei distrutto entrambi.

Fu un duro colpo per me. Mi ero sempre ritenuta – a torto, avrebbero affermato le Furie – intelligente e sensibile, invece non ero riuscita a prevedere l’esito inevitabile del mio gesto incauto. Per la prima volta in vita mia, cominciai a temere che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, una perversione interiore che nessuna preghiera o riflessione avrebbe mai guarito. Pensai al mio sangue Byron, malato, al misterioso ritratto coperto, e agli indicibili «fatti assolutamente sconosciuti» che avevano costretto mia madre a separarsi da mio padre. Ora avevo anch’io un terribile segreto da nascondere, il segreto della mia quasi rovina, che, se fosse stato svelato, mi avrebbe condannato alla vergogna e alla solitudine.

Altre sanguisughe, altre coppette, la panacea di mia madre, non mi diedero nessun sollievo. Divenni ansiosa e timida, sussultavo a ogni rumore e mi rifugiavo in camera mia durante i temporali. «Ha il senso di colpa di un papista» sentii dire mia madre alle Furie una sera mentre mi osservavano dalla porta aperta della mia camera da letto mentre mi fingevo addormentata per evitare un’altra ramanzina.

«Un po’ di vergogna le farà bene» sentenziò Miss Montgomery.

«Un po’, forse» concesse mia madre, «ma questo è eccessivo, e la Stagione comincia presto. Non posso portarla a Londra in questo stato, e se la lascio qui la gente diventerà sospettosa e comincerà a fare domande pericolose».

E così avevo una nuova fonte di preoccupazione. Dovevo stare meglio, e in fretta.

Cominciai ad andare a cavallo quasi ogni giorno, perché l’attività fisica e il brivido della velocità mi avvicinavano più di qualunque altra cosa alla felicità di un tempo. Con l’incoraggiamento del dottor King ripresi gli studi, e quando questi parvero procurarmi sollievo e distrazione, mi ci rituffai con impegno. Alla fine quel senso di paura onnipresente svanì, ma rimase una traccia di nervosismo, e mi tornarono, in forma leggera, alcuni vecchi sintomi di debolezza e paralisi, tanto che nei giorni peggiori dovetti ricorrere al bastone.

Seppi che il mio spirito combattivo di un tempo era tornato quando, dopo che Miss Doyle mi aveva rimproverato per avere usato il “bastone da uomo” invece di un parasole più femminile, replicai: «Vi ringrazio per il suggerimento, ma se avessi voluto un consiglio di moda da parte di una vecchia bisbetica, avrei consultato Miss Carr». Quel commento mi fruttò un rimbrotto da parte di mia madre, ma mi fece sentire molto meglio.

Il miglioramento giunse appena in tempo, perché io e mia madre ci stavamo preparando a trasferirci a Londra per l’inizio della Stagione. Dando prova di autentica pietà, per la quale ringraziai in modo silenzioso e irriverente tutte le divinità del creato, non invitò le Furie ad accompagnarci.

Mia madre ci aveva trovato un alloggio elegante e confortevole in un quartiere alla moda, e dal momento in cui ne varcammo la soglia ci trascinò entrambe in un turbinio di preparativi dell’ultima ora per la mia presentazione a corte. Un’eccellente sarta lavorava al mio abito da settimane, ma ero dimagrita molto per la tristezza, e dopo che mi ebbe preso di nuovo le misure il corpetto dovette essere modificato, e praticamente fu necessario rifare ogni punto. L’abito era graziosissimo, di tulle bianco con una fascia alta di raso bianco e una scollatura profonda, disegnato da mia madre e dalla sarta perché io non ero assolutamente portata per la moda. Erano poi stati scelti le scarpine, i gioielli e il ventaglio appropriati, e il copricapo, un affare complicato con tante piume di struzzo bianche e un velo leggero, lungo quanto lo strascico dell’abito. Era il vestito più bello che avessi mai indossato, ed ero combattuta tra la gioia per la sua bellezza e il rimpianto per il fatto che Wills non mi vedesse con quella meraviglia addosso. Non mi avrebbe riconosciuto.

In salotto e nel corridoio della nostra dimora londinese mia madre mi fece esercitare a camminare vestita in quel modo, avanti e indietro, con un’andatura perfetta, aggraziata, morbida. Imparai anche a fare la riverenza: non era un semplice inchino solo abbozzato ma dovevo andare giù, con il ginocchio piegato fin quasi a toccare il pavimento, e poi rialzarmi evitando di perdere l’equilibrio, di inciampare nello strascico e di far cadere il copricapo. Tutto questo andava fatto con movimenti eleganti e aggraziati, prova della buona educazione e degli insegnamenti ricevuti.

Se fossi stata costretta a usare il bastone, non so immaginare come ci sarei riuscita, ma ero desiderosa di non commettere errori, così mi esercitai a camminare, inchinarmi e uscire da una stanza arretrando come mi ordinava mia madre. Solo una volta, quando le prove si protrassero troppo e cominciai ad avere male alle ginocchia, al collo e alle spalle, osai protestare.

«Non hai idea di quanto abbiate la vita facile, voi ragazze di oggi» mi disse mia madre. «Quando sono stata presentata alla corte di re Giorgio e della regina Carlotta, la sovrana ha insistito perché indossassimo l’abito di corte del secolo precedente, con cerchi ampi e ingombranti. Salire e scendere dalla carrozza era impossibile senza un aiuto esterno, e anche solo aggirarsi in una stanza richiedeva resistenza e agilità notevoli. Tu, in confronto, non hai nulla di cui lamentarti».

Avevo meno di cui lamentarmi, ma la lista delle lamentele era comunque lunga, anche se non lo dicevo ad alta voce. Mia madre era la mia unica alleata in quella missione, e le ero grata per il suo aiuto. Sospettavo di averne bisogno più delle mie coetanee, che non avevano sprecato preziosi anni preparatori in un letto, inferme.

Dovevo essere presentata al Saint James’s Palace alla quarta serata della Stagione, e all’avvicinarsi della data continuai a prepararmi con diligenza; l’emozione e la trepidazione aumentavano a mano a mano che mia madre veniva a sapere i nomi degli ospiti illustri che avrebbero dovuto partecipare: duchi vari, molti altri nobili, parecchi dignitari stranieri. Anche se non lo disse mai esplicitamente, forse per non spaventarmi, capii che in quel bel mondo, pur essendo solo una delle tante giovani donne che debuttavano in società, essendo la figlia di Lord Byron avrei attratto molta attenzione. «Potresti suscitare le gelosie delle altre ragazze» mi avvertì mia madre.

«Voglio piacere alle altre» protestai. «Voglio delle amiche. Non desidero attirare l’attenzione solo per merito di mio padre».

«Succederà, che ti piaccia o no» disse, «quindi tanto vale che ti comporti bene».

Si voltò per sistemarsi il pizzo sulle maniche dell’abito, e mentre la osservavo mi resi conto che era nervosa quasi quanto me. Se non mi fossi dimostrata all’altezza, nel mio comportamento o nell’aspetto, non avrei rovinato solo la mia reputazione e il mio futuro, ma anche i suoi.

Immaginai che le altre ragazze aspettassero con impazienza ed eccitazione la loro presentazione in società, mentre io non vedevo l’ora che la serata fosse finita. Anche se il dottor King non avrebbe approvato, trovai un certo conforto illecito nel ricordo dell’affetto di Wills. Lui mi aveva giudicato graziosa e affascinante, quindi forse anche qualcun altro avrebbe pensato la stessa cosa di me.

Finalmente, il 10 maggio 1833, la grande serata arrivò. Sebbene la cerimonia vera e propria non iniziasse fino alle quattordici, ci alzammo presto per mangiare – sarebbe stata una giornata lunga, e mia madre aveva il terrore che svenissi per la fame, accasciandomi in una pila di tulle e seta ai piedi del re – e per occuparci dei preparativi e della vestizione. Una domestica mi aiutò a indossare l’abito, mentre mia madre mi accompagnò alla carrozza, che ci condusse rapidamente attraverso la città verso Pall Mall finché non imboccammo Piccadilly Street e ci unimmo alla lunga processione di carrozze che portavano altre giovani signorine a palazzo.

Ero abbastanza sicura di avere studiato e di essermi preparata bene, mia madre era di buonumore, e mi sentivo speranzosa e felice quando varcammo l’ingresso principale del palazzo Tudor in mattoni rossi. Guidate dagli inservienti di palazzo, confluimmo nella sfilata di giovani donne in abito bianco e di accompagnatori vigili e fieri, e giungemmo in un salone in attesa che i nostri nomi venissero chiamati.

«Cerco di trovarti una sedia, così puoi riposare» disse mia madre guardandosi intorno. La stanza era elegante, i muri erano coperti di damasco dorato che sembrava brillare alla luce dei candelieri, ma a quanto pareva quasi tutte le sedie erano state tolte per creare più spazio per le ragazze e i loro accompagnatori. «Non muoverti da qui».

Annuii, con la bocca improvvisamente secca. Mentre aspettavo il suo ritorno, sorrisi e feci un cenno educato di saluto alle ragazze che incrociavano il mio sguardo, sperando che mia madre si sbrigasse. Scambiai qualche frase di circostanza con quelle più estroverse che si degnarono di rivolgermi la parola, ma non riconobbi nessuno e mi sentivo sola. Dalle conversazioni che riuscii a cogliere mi resi conto di avere ben poco in comune con loro. In una discussione sulla bellezza sublime del teorema di Pitagora avrei brillato su tutte loro, ma siccome il buon vecchio Pitagora non era un aristocratico scapolo con quattromila sterline di rendita all’anno, sospettavo che quelle signorine non lo conoscessero o non si interessassero a lui.

Mia madre non era ancora tornata quando ci chiesero di metterci in fila e di aspettare l’annuncio dei nostri nomi, e mi sentii prendere dal panico nell’apprendere che le accompagnatrici erano state a loro volta accompagnate in salotto ad aspettarci. Avevo sperato in qualche parola di incoraggiamento da parte di mia madre prima del grande momento, ma sembrava proprio che non dovessi contarci.

Mi stavo rassicurando mentalmente sul fatto che sarebbe andato tutto bene, e mi ero quasi convinta, quando la ragazza davanti a me si voltò, mi guardò bene, e mi fece un sorriso come se mi avesse riconosciuta, sebbene fossi certa che non ci fossimo mai incontrate. «Cielo, non è terrificante?» esclamò tutta allegra, anche se non sembrava per niente spaventata. I suoi capelli biondi e lisci parevano fili d’oro, gli occhi erano dell’azzurro di un cielo d’estate e l’abito era di seta bianca, decorato di pizzo e perle. Il suo viso sembrava creato apposta per ispirare amore e poesia, e aveva una silhouette così aggraziata ed elegante che avrebbe potuto essere la modella usata da un artista per il personaggio di Afrodite o Elena di Troia.

«Emozionante, sì, ma non terrificante» dissi, facendo un timido sorriso a quella creatura straordinaria, che doveva essere la ragazza più bella di tutta la sala. «Migliaia di altre ragazze sono state presentate ai sovrani prima di noi, e sono sopravvissute tutte».

«Non tutte» mi contraddisse con aria misteriosa, e dovetti sgranare gli occhi, perché aggiunse subito: «Oh, sono sopravvissute, certo, ma alcune se ne sono andate con la reputazione irrimediabilmente rovinata». Si avvicinò e mi sussurrò: «Ogni anno c’è sempre una ragazza che cade, o scappa dal salone per vomitare prima che il suo nome venga chiamato, o che dice qualche sciocchezza quando la regina le fa una domanda. Nessuno la dimentica. Qualunque cosa facciamo oggi, dobbiamo stare attente a non essere quella ragazza».

«No» convenni debolmente. «Non vorrei proprio esserlo».

«Neppure io». Mi fissò con preoccupazione e premura. «Qualunque cosa tu faccia, non devi vomitare. Non pensare a quegli sconosciuti che ti fissano. E non pensare mai a quanto si sentirebbe umiliata la tua famiglia se fallissi. Pensa a qualcosa di piacevole come…» Inclinò il capo, riflettendo. «Gattini. Ti piacciono i gattini?»

Annuii e cercai di deglutire, sentendomi un nodo alla gola. «Molto. Ho una gatta che adoro».

«Perfetto. Pensa alla tua gatta e andrà tutto bene». Con un sorriso radioso si voltò e prese a discutere con altre due ragazze, che la salutarono come se fosse una cara amica.

Respirai profondamente, chiusi forte gli occhi e immaginai di far giocare Puff con un gomitolo di filo nella mia vecchia stanza a Kirkby Mallory, ma più cercavo di non pensare al fatto di non stare male, svenire, o cadere dopo l’inchino, o di non riuscire a parlare davanti al re e alla regina, più la mia immaginazione produceva scene orribili proprio di quegli incidenti. «Puff» mormorai, pensando al suo pelo morbido e alle sue fusa dolci.

Deglutii di nuovo e desiderai ardentemente un bicchiere d’acqua. Per calmarmi aprii gli occhi, fissai un punto davanti a me e cominciai a calcolare radici cubiche di numeri scelti a caso. Un movimento improvviso attirò la mia attenzione, spostai lo sguardo e vidi la ragazza bionda, bella come una dea, che mi osservava con un sorriso malizioso mentre sussurrava alle sue due amiche. Distolse lo sguardo quando vide che la osservavo, ma era troppo tardi: l’avevo smascherata. Forse non avevo avuto molte amiche da bambina, ma avevo letto parecchio. Quella creatura crudele voleva che facessi brutta figura, ma ero decisa a non darle la soddisfazione di capire che mi aveva reso nervosa.

Quando giunse davanti alla fila e fu annunciata, seppi che si chiamava Miss Mariah Bettencourt, ma quel nome non mi diceva niente. Altre tre ragazze la seguivano, poi toccava a me. «Miss Augusta Ada Byron» annunciò la guardia reale con una voce possente, e dall’ingresso vidi un salone vasto e splendido, con finestre alte fino al soffitto e tende di velluto cremisi lungo una parete, enormi ritratti di esponenti della famiglia reale, passati e presenti, con cornici d’oro sulle altre tre, un grande camino di fronte alle finestre adornato con lo stemma reale, e due sontuosi candelabri dorati sormontati da cornici elaborate. Non c’erano sedie, perché nessuno si sedeva in presenza del re e della regina, ma la stanza era piena di ragazze in abito bianco che mi avevano preceduto e di dame e gentiluomini vestiti con grande eleganza, alcuni con gli abiti tradizionali di altri paesi, coperti di gioielli, profumati di essenze e unguenti.

Quello splendore dava il capogiro, e trassi un respiro rapido per prendere le forze, ma non mi fermai dopo avere udito il mio nome, entrai nel salone dove venni accolta da un mormorio interessato e parecchi sguardi curiosi e intrigati. Spiazzata, sorrisi comunque con serenità, scivolai con grazia fino ai troni dei sovrani e feci il mio inchino senza la minima esitazione. Quando mi risollevai, la regina Adelaide disse: «Benvenuta a corte, Miss Byron. Le poesie di vostro padre ci piacciono molto».

«Grazie, Vostra Maestà».

«Siamo convinti che Ella incede in bellezza sia il più lirico e bello dei suoi poemi».

«Grazie, Maestà. È il mio preferito». In realtà preferivo Don Giovanni, ma mia madre mi aveva detto di dichiararmi d’accordo con qualunque cosa avessero detto il re e la regina, anche se avessero pronunciato male il mio nome.

Mi congedarono educatamente, e arretrai con compostezza senza inciampare nell’abito e cadere sul didietro. Sentii centinaia di sguardi su di me, ma una rapida occhiata mi confermò che nessuno apparteneva a Miss Mariah Bettencourt, che guardava da un’altra parte; dovevo essere così scialba che mi aveva già dimenticata.

Mia madre mi venne subito vicino. «Sei stata abbastanza brava» mormorò, in modo che nessun altro ci sentisse.

Venendo da lei era un grande complimento, e arrossii d’orgoglio. «Grazie, mamma».

«Avevi un’espressione gradevole e dignitosa, e il tuo inchino non avrebbe potuto essere più aggraziato di così».

«Tutti i nostri esercizi sono stati ricompensati».

«Assolutamente».

«Mamma» dissi, indicandole con un discreto cenno del capo Miss Bettencourt, «vedi quella ragazza laggiù, la bionda alta vicino alla donna con l’abito giallo?»

«Sì, è la figlia maggiore di Lord e Lady Bettencourt, Mariah. Sono i proprietari di Mortimer Hall, nel Somerset. Dicono che è una bella proprietà, e Miss Bettencourt è considerata una ragazza piena di qualità».

«Forse, ma non è per niente gentile». Le raccontai di come avesse cercato di turbarmi prima della presentazione ai sovrani.

L’autocontrollo di mia madre era leggendario, e solo una lieve smorfia delle labbra tradì il suo fastidio. «Sono contenta che tu non abbia perso l’autodisciplina» disse. «Ti avevo avvertito che avresti potuto suscitare l’invidia delle altre ragazze, timorose di essere messe in ombra dalla tua fama».

«La fama di mio padre, intendi» la corressi. «Io non mi sono guadagnata nessun riconoscimento. Finora sono solo riuscita a essere la figlia del più grande poeta della nostra epoca».

«E sei molto brava in questo» replicò. «Dimentica Miss Bettencourt. La cattiveria e la bellezza sono le uniche cose che le restano. Si dice che suo padre abbia debiti per migliaia di sterline, ed è certo che Mortimer Hall sia vincolata, e destinata a finire in eredità al cugino di suo padre, alla sua morte. La sua unica speranza è affascinare col suo bel faccino un uomo molto ricco, che perdoni la sua mancanza di denaro e la sposi. Non hai nulla da temere da lei».

C’erano invece persone dalle quali avevo qualcosa da temere? «Mamma…»

«Vieni» mi interruppe, prendendomi per un braccio. «Ci sono persone migliori dei Bettencourt che dovresti conoscere».

Mia madre mi presentò al duca di Wellington, l’eroe di Waterloo, che mi piacque per i suoi modi schietti, e al duca di Orléans, che mi sembrò molto cortese e comprensivo. Conobbi anche Talleyrand, il vecchio statista francese, ma mi parve distratto e mi ricordò una vecchia scimmia. I molti altri dignitari e ministri stranieri che conobbi quel pomeriggio erano tutti distinti ed eleganti, e credo che mi considerassero per la maggior parte una giovane donna gradevole e amabile. Lo spero, almeno. Una cosa è certa, però: di tutte le ragazze che erano state presentate quel giorno, nessuna attrasse più attenzione di me, anche se c’erano molte altre debuttanti più belle, più aggraziate, più meritevoli.

Dopo, quando tornammo a casa, mia madre mi disse che mi ero comportata come «una giovane leonessa» e che si aspettava un successo analogo al Ballo di Corte la settimana successiva. Il ballo sarebbe stato il momento culminante della Stagione, ed ero emozionata al pensiero che avesse deciso di farmi partecipare. Mia madre non apprezzava la società quanto le altre dame del suo rango, anche se un tempo le era piaciuta. Alla mia età aveva adorato le feste, i balli e tutta l’euforia che li circondava, ma ora preferiva la compagnia dei suoi amici intellettuali, che come lei si dedicavano alle opere buone e all’elevazione morale. «Non ho intenzione di trascorrere tutta la Stagione a Londra» mi aveva avvertito prima di partire da Fordhook. «Andremo avanti e indietro a seconda di ciò che richiede l’occasione».

Sapendo che considerava la nostra presenza in società un obbligo legato alla nostra classe e titolo sociale e un modo essenziale per trovarmi un marito, ero felice che avesse aggiunto il Ballo di Corte alla lista degli appuntamenti imprescindibili. Ricordando il brutto tiro di Miss Bettencourt, però, sentii la mia felicità diminuire notevolmente. Mi infastidiva pensare di trovarmi di nuovo al centro dell’attenzione in un evento mondano quando c’erano altre persone più meritevoli, e più desiderose, di attirare gli sguardi.

«Non voglio che tu perda tempo con queste inezie» disse mia madre il giorno dopo la mia presentazione a corte, «quindi ti sceglierò io il vestito». Sollevata la ringraziai, ma decisi di interessarmi un po’ più da vicino alla moda per poterle fornire qualche suggerimento, la prossima volta, sullo stile e il materiale dell’abito. Mia madre scelse un vestito di seta rosa antico, semplice ma elegante, impreziosito da nastri di raso opalescente e un tocco di pizzo ai polsi e al collo. Mi stava benissimo, perché metteva in rilievo la vita sottile e il collo lungo. Scelse come gioielli una magnifica collana di perle e rubini con gli orecchini coordinati per attirare l’attenzione sul mio petto e distoglierla dal mento forte, che ricordava agli ammiratori quello di mio padre ma non accresceva certo la mia bellezza. L’amica di mia madre, Miss Louisa Chaloner, si era sbagliata quando aveva predetto che non sarei mai stata bella. Non sarei mai stata come Miss Bettencourt, ma Wills mi aveva mostrato che non ero certo scialba e non avevo solo il denaro dalla mia.

«Quando avevo la tua età, i balli al Saint James’s erano incredibilmente noiosi» disse mia madre mentre mi vestiva, la sera del 17 maggio, con l’aiuto della cameriera. «Le regole per ballare erano talmente severe che c’era da stupirsi che qualcuno muovesse un passo di danza. Se si voleva ballare un minuetto bisognava lasciare il proprio nome al ciambellano del re con un giorno d’anticipo, e al ballo questi avrebbe chiamato i ballerini in ordine di importanza. Ballava solo una coppia per volta, e siccome c’erano sempre più donne che uomini, ogni donna ballava un minuetto, gli uomini due». Rimase persa nei suoi pensieri per un attimo prima di ricominciare a raccontare e a prepararmi. «La pista da ballo era separata dal resto del salone da una ringhiera di legno. Solo la famiglia reale, i loro accompagnatori particolari e i ballerini ci potevano andare. Tutti gli altri, compresa l’orchestra, dovevano stare su una balconata e guardare dall’alto».

«Non sembra molto divertente» dissi.

«Non credo che il divertimento fosse lo scopo principale. Ah, i balli popolari che seguivano i minuetti erano più piacevoli, e non tutti i balli erano formali come quelli del Saint James’s. La regina Carlotta organizzò un magnifico ballo a Windsor una volta, con vivaci balli scozzesi, i reel. Anche la cena era deliziosa». Mentre la sua domestica mi allacciava l’ultimo bottone, mia madre mi squadrò dalla testa ai piedi e annuì con aria di approvazione. «Quei tempi sono andati. L’Inghilterra è molto cambiata, soprattutto Londra. I giovani di oggi si aspettano di divertirsi in ogni occasione molto più di quelli della mia generazione, e le loro attese vengono di solito soddisfatte». Sospirò. «Sono sicura che passerai una bella serata».

A sentire lei, sembrava che il divertimento fosse sintomo di debolezza morale. Decisi invece che mi sarei divertita, almeno per la musica, che avevo aspettato con grande impazienza. Ma mia madre non avrebbe dovuto sapere che avevo provato qualcosa di più della soddisfazione per avere fatto il mio dovere.

Alla festa, effettivamente, mi divertii. La musica era meravigliosa, all’altezza delle mie aspettative, e anche le danze mi piacquero, sia che ballassi, sia che osservassi i volteggi altrui. Anche se è vero che notai sguardi curiosi e mormorii insistenti – «La figlia di Byron, la figlia di Byron» – quando mi giravo, non scappai via né mi nascosi in un angolo, a capo chino, a fissare l’orlo dell’abito pregando che nessuno mi rivolgesse la parola.

Preghiere futili, perché mi trovai comunque assediata da un gruppo di affascinanti giovanotti. Mi fecero i soliti complimenti, e confesso che dopo aver scacciato dalla mia mente i pensieri di Wills, della sua fossetta e delle sue carezze, mi piacque godermi la loro ammirazione e civettare. Oh, mi rendo conto che l’enorme proprietà di Wentworth che avrei ereditato da mia madre, che mi avrebbe fruttato ottomila sterline l’anno, mi rendeva più attraente di quanto non lo sarei stata da povera, ma quei ragazzi non sarebbero rimasti tanto a lungo a conversare con me dopo avere ballato se fossi stata solo ricca.

Più mi coprivano di attenzioni, più mi sentivo attraente, e pensavo che la mia gioia fosse arrivata al culmine quando vidi Miss Bettencourt tra i ballerini. Stava facendo un sorriso seducente a un uomo più vecchio; non anziano, non intendo dire quello, ma più vicino all’età di mia madre che alla mia. Era distinto, sebbene non vestito splendidamente come molti degli altri invitati, pur rispettando il protocollo. Mi dissi che era uno dei pochi a non avere cercato di conoscermi. Anche se questo mi fa apparire meschina e gelosa, confesso che mi sentii indispettita per il fatto che qualcuno non mi considerasse, sentendosi accecato dalla bellezza di Miss Bettencourt.

Poco dopo vidi che se n’era andata e il suo posto era stato preso da Mrs Dallas, la moglie dello zio del settimo barone Byron, il capitano George Anson Byron. Anche se la nostra non era una parentela stretta, l’avevo incontrata in diverse occasioni, e lei e mia madre si scrivevano, ogni tanto. Decisa a combinare una birichinata, non appena Mrs Dallas si allontanò dal gentiluomo mi affiancai a lei.

«Buongiorno, Miss Byron» mi salutò. «Vi trovo in perfetta salute. Come sta la vostra eccellentissima madre?»

«Molto bene, grazie» risposi. «Spero tanto che il vostro pronipote George vi abbia accompagnato, stasera».

«Mi dispiace, mia cara, ma non è così». Le piume di struzzo dell’acconciatura si mossero quando scrollò il capo. «Sarà molto triste di sapere che ha perso un’opportunità di vedervi».

«Non quanto lo sono io». Ero sincera, ma dopo essermi informata sul resto della famiglia, cambiai subito argomento per saperne di più sul gentiluomo con il quale l’avevo vista parlare.

«Quale gentiluomo?» Si guardò alle spalle come se fosse ancora lì per rinfrescarle la memoria. «Ah, intendete Mr Knight, Mr Charles Murray Knight».

«Davvero?» Ero sorpresa che non avesse un titolo nobiliare, perché una signorina nella situazione finanziaria di Miss Bettencourt doveva sicuramente riuscire a mettere le mani su un lord o almeno un ammiraglio. Forse aveva guadagnato del denaro con il lavoro e l’intelligenza, a volte accadeva. «Pensavo di averlo riconosciuto, credevo che fosse il padre di una delle mie amiche, ma mi sono sbagliata. Forse dovrei fare ugualmente la sua conoscenza, se è un vostro amico».

«Non credo proprio che sia necessario, mia cara. Non è un mio amico, ma un conoscente di Lord Byron».

Io però insistetti con tatto, e alla fine lei accettò, sebbene con qualche riserva. Dopo i convenevoli di rito, lui fu cortese e gradevole con me, e mi fece i complimenti per la poesia di mio padre senza essere ossequioso. Sicura che non mi sarebbe accaduto nulla, Mrs Dallas ci lasciò conversare.

Seppi che Mr Knight era un investitore in campo ferroviario che aveva avuto molte funzioni importanti al governo. «Ho sempre dovuto compensare la mancanza di titoli e di una posizione sociale con l’intelligenza e il duro lavoro» disse con modestia, un discorso che trovavo stimolante.

Conosceva bene Londra e la sua storia, e quando gli parlai del mio interesse per la scienza e la matematica, mi citò diversi luoghi che dovevo visitare. Descrisse la Time Ball rossa recentemente installata sul tetto del Royal Observatory di Greenwich con tanto entusiasmo da farmi pensare che volesse suggerire di accompagnarmici. Proprio mentre mi stavo chiedendo come reagire se me l’avesse proposto, mi cadde lo sguardo su Miss Bettencourt, che pochi passi più in là ci stava osservando con volto inespressivo.

Immediatamente gli feci un sorriso radioso e lo guardai con più interesse, e quando fece un commento divertente risi come se si trattasse della cosa più intelligente o buffa che avessi mai sentito. La mia reazione gli fece piacere, e quando la nostra conversazione continuò sempre più animata, Miss Bettencourt prese un’aria desolata e abbattuta, si voltò e scomparve tra la folla.

Avvertii subito una profonda sensazione di vergogna. Anche se Mr Knight mi piaceva, avevo cercato di fare amicizia con lui solo per cercare di rubarlo a Miss Bettencourt. Ci ero riuscita, e l’attenzione che mi dedicava aveva ferito l’altra ragazza.

Pensai a Wills e mi disprezzai talmente che quasi mi venne il capogiro.

Non avevo mai desiderato davvero Mr Knight, e anche se era piacevole chiacchierare con qualcuno che condivideva il mio interesse per la scienza, sapevo che mia madre non mi avrebbe mai permesso di sposarlo. Solo la peggiore delle civette si sarebbe frapposta tra una rivale e l’uomo che lei ammirava per dispetto, e non potevo comportarmi in quel modo.

Sorrisi e lo ringraziai per le notizie sul Royal Observatory, mi congedai e andai in cerca di Mrs Dallas. Mi sentivo intossicata da tutta l’ammirazione e attenzione assorbite troppo in fretta, e sapevo di avere bisogno di una buona dose di buonsenso e affetto materno per tornare con i piedi per terra.

Non rividi Miss Bettencourt o Mr Knight quella sera, ma il giorno successivo, quando io e mia madre partecipammo a un ricevimento in casa della sua amica Mary Acheson, contessa di Gosford, vidi Mr Knight che si avvicinava, ma prima che potessi allontanarmi fingendo di non averlo visto me lo trovai accanto sorridente.

«Miss Byron». Si inchinò, e gli feci una leggera riverenza a mia volta. «Che piacere rivedervi. Sapete, mi è piaciuta molto la nostra conversazione sul Royal Observatory, e quando ci siamo salutati ho pensato a diversi altri argomenti matematici e scientifici sui quali vorrei la vostra opinione».

«Volete la mia opinione?» gli feci eco. Avevo diciassette anni, lui ne dimostrava quasi quaranta. Nella mia esperienza, le persone della sua generazione erano più inclini a farmi la predica che a chiedermi cosa pensassi.

«Certo. Per prima cosa, avete letto il libro di Mrs Somerville, Mechanism of the Heavens

«Se l’ho letto? Tanto spesso che ho quasi consumato la copertina». Mary Somerville era una celebre matematica e astronoma, e l’adoravo da lontano da parecchio tempo. I suoi saggi matematici denotavano autentico genio, una grande intuizione e un’intelligenza fuori dal comune. Era esattamente la matematica e la scienziata che desideravo diventare. «La sua traduzione della Mécanique Céleste di Laplace è di molto superiore all’originale».

«Non si tratta di una semplice traduzione» disse Mr Knight. «Ha chiarito il tema complesso di Laplace e l’ha reso comprensibile al lettore comune. Ho sentito che sta lavorando a un nuovo libro sulle scienze fisiche».

«Davvero?»

«Si dice che verrà pubblicato l’anno prossimo».

«Non prima?» protestai. «Non vedo l’ora di leggerlo».

«Dovreste chiederglielo. È possibile che sia disposta a divulgare qualche segreto a una collega matematica».

«Purtroppo non ho mai avuto il piacere di conoscere Mrs Somerville».

«Sul serio? Dovremo rimediarvi, allora».

«Conoscete Mrs Somerville?» chiesi con la stessa venerazione che avrei dimostrato a Isaac Newton o san Giovanni Battista.

«Conosco suo figlio» rispose. «Sono sicuro di poterlo convincere a presentarci».

Il “ci” sembrava promettente, e a un tratto ricordai l’infelicità di Miss Bettencourt, e la mia disperazione dopo avere perso Wills. «Mr Knight» cominciai, ma colsi, più di udirla, la presenza di una persona alle mie spalle, e quando mi voltai vidi mia madre. La salutai con un sorriso e feci rapidamente le presentazioni. Il suo viso rimase sereno, e questo mi fece capire che era probabilmente agitata per qualcosa. Non rimasi sorpresa quando trovò una scusa con Mr Knight e mi fece allontanare.

«Non mi piace» disse quando potemmo parlare senza essere sentite. «Sembra troppo ansioso di compiacere chi gli è superiore».

«Sei circondata ogni giorno di persone che cercano di compiacerti» dissi, infastidita da come mi stringeva il braccio. «Cosa ti importa che ce ne sia una di più?»

«C’è qualcosa di diverso in lui. Qualcosa di viscido». Si arrestò, fermando anche me, e mi lanciò uno sguardo che non tollerava il minimo disaccordo. «Voglio che non gli parli più».

«Non puoi chiedermi di tagliare i ponti con lui» protestai.

«Certo che no. Non te ne ha dato i motivi, e…» Si guardò attorno, accigliata. «Sospetto che abbia diversi amici, qui».

«Forse si è fatto degli amici comportandosi in modo buono e onesto».

«O scoprendo i loro segreti e facendo in modo che fossero in debito nei suoi confronti».

«Mamma, devi permettermi di coltivare questa conoscenza» la implorai. «Mi ha promesso di presentarmi a Mary Somerville».

«Che sciocchezza. Non conosce Mrs Somerville più di quanto non conosca Napoleone. Troverò un amico comune che ti presenti». Mi prese a braccetto, ma la sua presa era meno possessiva di prima. «Andiamo a cercare qualcuno di più adatto».

Mi piegai al suo volere, non solo perché non desideravo fare una scenata, ma anche perché la sua promessa di trovare qualcun altro che mi presentasse mi aveva placata. In realtà preferivo anch’io non incoraggiare Mr Knight. Sapevo quanto facessero male le delusioni amorose, e non volevo ferire ulteriormente Miss Bettencourt; eppure non riuscivo a dimenticare che non mi aveva mostrato la stessa delicatezza il pomeriggio in cui eravamo state presentate a corte.

La sera successiva, anche se mia madre si lamentò di essere stanca di divertimenti e che avrebbe voluto che la Stagione fosse finita, partecipammo a un ballo alla residenza della contessa di Passarelle, in visita da Milano. C’era anche Miss Bettencourt; la salutai con un cenno cortese, che ricambiò, dopodiché ci ignorammo educatamente. Solo molto più tardi la vidi ballare con Mr Knight, e sebbene irrazionalmente rimpiangessi di avere ceduto la vittoria alla mia rivale, non mi dispiacque di avere perso quel pretendente. Come avrei potuto? Dopotutto, se Wills fosse entrato nella stanza e mi avesse fatto un cenno, mi sarei gettata tra le sue braccia piangendo di gioia.

Poco dopo stavo passeggiando nella galleria ammirando i quadri quando udii dei passi dietro di me e vidi Mr Knight che si avvicinava. «Buonasera, Miss Byron» disse quando fu giunto alla mia altezza ed ebbe fatto un inchino. «Non ballate stasera?»

«Sono un po’ stanca» risposi con un sorriso mesto, sperando che capisse e non mi chiedesse di ballare.

«Siete troppo stanca anche per incontrare qualcuno di straordinario?»

Soffocai un grido. «Intendete…»

Sorrise e mi offrì il braccio. «Perché non venite a vedere?»

Gli presi il braccio e cercai di organizzare le idee per decidere cos’avrei chiesto al mio idolo. «Sono nervosa come quando sono stata presentata al re e alla regina» confessai con una risatina tremante. «Anche di più, anzi».

«Un po’ di nervosismo è normale».

Ci allontanammo dal resto della festa, e quando la musica svanì, ebbi un’esitazione. «Perché Mrs Somerville non è con gli altri invitati?»

«Venite» mi incalzò, guidandomi verso le scale. «Non siate timida».

Non volevo farla aspettare, così annuii e cominciammo a salire. Forse non si sentiva bene, pensai, ed era salita a riposare. Ma allora non desideravo importunarla. «Forse non è il caso» dissi, fermandomi sulle scale e lasciando andare il braccio di Mr Knight.

Mi afferrò la mano prima che potessi sfilargliela dall’incavo del gomito. «Perché no? Potremmo non avere un’altra opportunità».

«Sono sicura di sì. Preferisco aspettare che si senta meglio. Darle fastidio mentre è indisposta non farà certo buona impressione».

«Miss Byron?» mi chiamò una donna dal piano inferiore.

Guardai alle mie spalle e vidi l’amica di mia madre Lady Gosford che mi osservava incuriosita ai piedi delle scale. «Sì, Lady Gosford?»

«Vostra madre vi sta cercando». Il suo sguardo passò da me a Mr Knight e si fermò su di lui. «Credo che non si senta bene».

«Ci dev’essere qualcosa in giro» dissi, scuotendo il capo mentre scendevo le scale. «Anche Mrs Somerville non sta bene. Stavo andando da lei».

«Chi?»

«Mrs Somerville, la matematica».

«Sì, Miss Byron, certo». Lady Gosford tese la mano quando mi avvicinai, e mi attirò a sé. «Mr Knight» disse con voce imperiosa, «credo che dovreste unirvi agli altri invitati o andarvene a casa».

Lui le fece un inchino senza parlare, ma Lady Gosford mi riportò nella sala da ballo tanto in fretta che non vidi quale delle due stupefacenti possibilità avesse scelto. Non mi lasciò andare le spalle finché non mi ebbe consegnata a mia madre, che si trovava in un angolo tranquillo del salone adiacente alla sala da ballo. Aveva un colorito terreo, e gli occhi e la bocca segnati dalla tensione, e seppi subito di esserne io la causa.

Non ce ne andammo subito perché non voleva attirare l’attenzione sulla nostra partenza. Presto, però, ci ritrovammo in carrozza dirette alla nostra dimora di Londra, e i rimproveri non si fecero attendere. «Come hai potuto essere tanto sciocca?» mi disse. «Proprio tu, che sei reputata tanto intelligente. Non sei già andata abbastanza vicina a un disastro? Vuoi proprio finire rovinata sotto gli occhi di tutta Londra?»

«Certo che no».

«A cosa pensavi, allora?»

«Mi ha proposto di presentarmi a Mrs Somerville».

«Lì? Alla festa?»

«Mi stava portando da lei».

«Te l’ha detto lui?»

«Sì, lui…» Esitai, riflettendo. Mi aveva chiesto se ero troppo stanca per incontrare qualcuno. Il resto l’avevo detto io.

Mi sentii in preda a un malessere.

«Che sia chiaro» riprese mia madre con voce decisa. «Se in un’occasione mondana un uomo che conosci appena cerca di portarti in un posto isolato, lontano dagli altri ospiti, la risposta giusta è sempre no!»

Il cuore mi batteva forte. «Non penso… Mamma, mi devi credere. Non avrei acconsentito…»

«Forse non gli importava se avresti acconsentito».

«Non penso che mi avrebbe costretta».

«Non puoi saperlo, e forse non era quella la sua intenzione. Gli bastava averti da sola in una situazione compromettente. Se qualcuno ti avesse scoperto – e non ho dubbi che avesse un amico nascosto nei paraggi per assicurarsi che lo fossi – la tua reputazione sarebbe stata rovinata. La tua unica possibilità sarebbe stata di accettare il disonore o sposarlo».

Strinsi le mani in grembo, chiusi gli occhi e lasciai cadere la testa contro il sedile. Aveva ragione. Anche se ero brillante con i libri e le lezioni, sotto ogni altro aspetto ero una sciocca.

Proseguimmo per qualche istante in silenzio, ma non durò. «Sono stata incaricata da Dio di essere la tua custode per sempre…»

«Non per sempre!» esclamai. «Non quando sarò adulta!»

«Per sempre, invece, e devi permettermi di guidarti» disse mia madre, furiosa per l’interruzione. «Devi imparare l’obbedienza se non riesci a imparare la prudenza».

«Scelgo la prudenza, allora» dissi mesta, con una traccia di collera nella voce. Il silenzio calò di nuovo nella carrozza, e quando infine giungemmo a casa ci separammo all’ingresso senza una parola.

Al mattino, al mio risveglio, mia madre non c’era più. La governante mi informò che era tornata a Fordhook, e che in sua assenza sarei stata da Lady Elizabeth Byron, la moglie del settimo Lord Byron e la madre di George.

Dopo colazione, secondo le istruzioni preparai un bagaglio con degli indumenti per alcuni giorni. Anche se riconoscevo la solita punizione di mia madre, mi sentii abbandonata, me la presi con me stessa per tale stato d’animo e allo stesso tempo mi arrabbiai con colei che mi infliggeva tale sofferenza. Sapevo di avere commesso un errore, ma non l’avevo fatto di proposito, e un castigo non mi avrebbe insegnato nulla.

Chiusi il mio bagaglio, contrariata, e lo posai accanto alla porta perché il lacchè lo caricasse in carrozza, ma prima di partire andai nello studio di mia madre, mi sedetti alla scrivania, presi carta e penna e trasferii la mia collera e frustrazione sul foglio, senza neppure iniziare con qualche formula di cortesia.

Il punto sul quale dissento da te riguarda il fatto che ti ritenga «incaricata da Dio di essere mia custode per sempre». “Onora il padre e la madre” è un monito che non ho mai considerato valido al di là dell’infanzia o dei primi anni della giovinezza, almeno nel senso dell’obbedienza. A ogni anno che passa, ritengo che la pretesa all’obbedienza del figlio da parte del genitore debba diminuire. Quando un figlio cresce, trovo che il genitore che l’ha cresciuto meglio che ha potuto possa pretendere la sua gratitudine. Il bambino dovrebbe servire il genitore e poi se stesso per assicurarsi che goda di ogni comodità, proprio come se fosse un amico nei cui confronti ha un obbligo. Ma non riesco a concepire che il genitore abbia il diritto di imporre la propria volontà al figlio o di aspettarsi l’obbedienza in campi che riguardino esclusivamente il figlio.

Vorrei fare un esempio pratico. Se mi dicessi: «Non aprire la finestra in camera mia» ti obbedirei a cinque o cinquant’anni. Ma se mi dicessi: «Non aprire la finestra in camera tua, non voglio che la tua finestra sia aperta», ritengo che la tua pretesa alla mia obbedienza si possa estendere solo fino ai limiti imposti dalla legge, e che tu non abbia nessun diritto naturale di aspettartela oltre l’infanzia. Il primo esempio riguarda te e le tue preferenze personali, l’altro solo me e non può toccarti né avere importanza per te.

Capisci la differenza? Ti ho fatto un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni perché desidero essere più chiara che posso. Fino ai miei ventun anni, la legge ti permette di chiedermi obbedienza sotto tutti i punti di vista; ma quando avrò quell’età, ritengo che il tuo potere e le tue pretese cesseranno di riguardarmi.

Firmai la lettera, vi apposi il sigillo e la diedi alla governante da spedire. Non avevo mai parlato in modo così brutale e sfrontato a mia madre, ma pensavo ogni parola, e per quella mia dichiarazione avevo aspettato fin troppo. Poteva pretendere obbedienza da me solo fino ai miei ventun anni, dopodiché la legge non poteva costringermi a obbedirle. I prossimi anni sarebbero stati faticosissimi per me se avesse deciso di renderli tali, ma sapendo che sarebbero finiti presto sarei riuscita a sopportarli.

Mentre salivo in carrozza mi dissi che l’unico modo in cui potevo sfuggire prima al suo controllo sarebbe stato sposarmi.