Anche se temevo di scoppiare dalla voglia di divulgare il mio segreto, aspettai di essere sicura prima di dirlo a William. «Mia dolce, adorata sposa!» esclamò, abbracciandomi teneramente. «Credevo che mi avessi reso il più felice degli uomini sposandomi, ma ora… Ada, mia cara, la mia gioia non conosce limiti».
Poi scrissi a mia madre, sorridendo mentre immaginavo la sua risposta alla bella notizia. Da quando avevo memoria mi aveva ripetuto che procreare degli eredi era il mio dovere sacro non solo nei confronti di mio marito ma anche nei suoi, per le famiglie Wentworth e Milbanke. Come era stata felice quando avevo compiuto il primo passo essenziale verso l’adempimento di quel dovere sposando William! Come sarebbe stata euforica sapendo che ero incinta!
Alcuni giorni dopo mi arrivò la sua risposta da Southampton, dove alloggiava in un villino in affitto in riva al mare con una delle Furie, Miss Montgomery. Aprii la lettera con impazienza, aspettandomi di assaporare la sua gioia e i suoi complimenti, e avvertendo una punta di soddisfazione pensando al fatto che la perfida Miss Montgomery sarebbe stata infine costretta a dimostrarsi contenta, suo malgrado, quando mia madre avrebbe condiviso con lei la buona notizia.
Carissima Ada,
se quello che sospetti è vero, aspettati un profondo malessere per alcune settimane; forse sarai anche depressa, ma se lo tieni a mente, questa sventura che altrimenti avrebbe potuto apparirti reale ti sembrerà semplicemente la conseguenza di cause fisiche. Devi prenderti cura della tua schiena, e sarà difficile farlo in presenza di altri senza suscitare commenti sgradevoli, perché saranno sempre pronti a immaginarne la causa.
Meno gli altri saranno al corrente, meglio è, finché non sarà più possibile nasconderlo.
Continuai a leggere, incredula, le righe successive che parlavano del suo ultimo malanno, che sembrava migliorare giacché era riuscita quel mattino a mangiare un poco di porridge, e della malattia di Mrs Montgomery, che non era grave quanto quella di mia madre sebbene si lamentasse molto più di lei.
Non ero mai riuscita a interessarmi alla loro rivalità tra malate, e quel giorno la trovai particolarmente irritante. Dov’erano le congratulazioni e gli auguri? Dov’era l’orgoglio per il fatto che avessi compiuto il mio dovere, o che lo avrei compiuto tra breve? Dov’era la soddisfazione nel sapere che tra pochi mesi avrebbe avuto tra le braccia il suo primo nipote? Dov’erano, tra l’altro, i vezzeggiativi che mi ero abituata a trovare nei saluti, invece del semplice “Ada”? Almeno ero ancora “Carissima”, ma quello lo scriveva anche alle persone che le stavano antipatiche, quindi non mi dava alcun conforto. Né apprezzavo la sua freddezza nell’accogliere la notizia come un semplice dato di fatto anziché come un’ipotesi da confermare, o le sue cupe previsioni di depressione e dolori alla schiena.
«Non la capisco» protestai con William mentre cenavamo tardi in sala da pranzo, le finestre aperte per lasciare entrare l’aria fresca della sera, già frizzante, carica della promessa dell’autunno. «Quanto le sarebbe pesato scrivere: “Mia cara figlia, mi hai reso felice con questa bellissima notizia. Non vedo l’ora di baciare mio nipote. Spero che tu stia bene, ti raccomando di riposare e di mangiare meglio che puoi. Tua madre, entusiasta e orgogliosa” eccetera?»
«Sono sicuro che intendeva dire quello».
«Non c’è nulla nella sua lettera a suggerirlo».
Sospirò e tagliò l’anatra arrosto a pezzettini. «Forse è tanto ansiosa di avere un nipote che preferisce non illudersi finché il medico non avrà confermato il tuo stato. E può essere preoccupata della tua salute e delle difficoltà del parto. Anch’io lo sono, del resto. Quello che interpreti come brusco e freddo probabilmente è solo un atteggiamento razionale e pacato».
Incredula, posai la forchetta e lo fissai. «Prendi sempre le sue difese. Penso che adori a tal punto mia madre che, se non fosse per la necessità di avere degli eredi, avresti preferito sposare lei invece di me».
I suoi occhi scuri e penetranti fissarono i miei per un attimo, ma finì con calma di masticare, deglutire e bere un sorso di chiaretto. «Capisco che le donne nella tua condizione delicata siano soggette a sbalzi d’umore strani e spesso esasperanti» disse imperturbabile. «Lo tengo a mente, e ti perdono questo commento del tutto inappropriato, che non è da te».
Lo guardai a bocca aperta, esterrefatta: mi sembrava una versione maschile di mia madre. Avevano le stesse vedute per quasi ogni cosa, soprattutto per quello che riguardava me. Non c’era da stupirsi che andassero tanto d’accordo. Mi chiesi per un istante se non sarebbe stato meglio sposare qualcuno che mia madre non amasse, qualcuno di più incline a prendere le mie difese, ma amavo William e accantonai subito quei pensieri sleali.
Cercando di adottare la stessa calma razionale che William aveva dimostrato, aspettai un giorno prima di rispondere alla lettera di mia madre. Prima di impugnare la penna, decisi di partire dal presupposto che mio marito aveva ragione e che la freddezza di mia madre derivava dal fatto che non era sicura che fossi incinta. Evitando di esternare la mia delusione per la sua mancanza di entusiasmo di fronte alla mia buona notizia, la informai che sarei stata presto visitata dal medico della famiglia King, che mi aspettavo confermasse la mia diagnosi. Nel frattempo, i sintomi descritti nella lettera precedente, una nausea continua in particolare, si erano intensificati, e sembravano scaturire tutti da quell’unica causa felice. Sottolineai “felice”, sperando che anche lei la considerasse tale.
Arrivò presto la sua risposta dal villino di Southampton, ma il tono era decisamente rassegnato, non certo lieto. «Credo da quello che mi dici sui disturbi allo stomaco che il tuo destino sia segnato» scrisse mia madre. «Finora ho mantenuto un atteggiamento di perfetta neutralità sull’argomento. Se è scritto che tu debba assumerti le tue responsabilità di madre, non dubito che ti procureranno benessere, se condotte nel modo giusto. Penso anche che a tuo marito piacerà avere un bambino con cui giocare».
Mi rincuorava vedere che aveva finalmente accettato che dalla mia condizione sarebbe scaturito un minimo di gioia, anche se si limitava all’immagine di William che faceva giocare un bambino sorridente. Ero tentata di buttare giù qualche parola caustica a proposito della sua «perfetta neutralità», ricordandole che produrre un erede era lo scopo stesso del mio matrimonio, come mi aveva sempre insegnato, ma siccome io e William intendevamo andare a trovarla a Southampton la settimana successiva, provocarla non mi avrebbe procurato nessuna soddisfazione duratura.
Scrissi invece alla madre di William e alle sue tre sorelle, e nei giorni seguenti ricevetti tre risposte cordiali e felici. Da Emily non seppi nulla, ma la gioia di Hester compensò abbondantemente il silenzio della sorella maggiore. «Verrò a prendermi cura di te nel periodo del parto» promise, «o subito dopo, per aiutarti a riprenderti, o entrambe le cose, o nessuna delle due, come preferisci. Spero che tu stia bene e spero che il bambino assomigli a te e non a quel mio bruttissimo fratello (glielo puoi dire, tanto lo sa che scherzo)».
Dubitavo fortemente che William avesse detto a mia madre della mia delusione, perché sarebbe parso un rimprovero, ma alla fine di settembre le sue lettere suggerirono che stava gradualmente accettando l’idea della mia gravidanza. Era una fortuna, perché suo nipote sarebbe nato in maggio, che le piacesse oppure no. Per quanto riguardava me ero allegra ed emozionata quasi sempre, pur soffrendo di qualche crisi di ansia, come ogni madre in attesa.
La data della nostra visita si avvicinava, e mentre io e William percorrevamo i centoventi chilometri a sud di Londra, verso la costa dell’Hampshire, non sapevo di che umore sarebbe stata mia madre, se indifferente o furiosa. Invece, quando giungemmo al suo cottage, ci salutò abbracciandoci affettuosamente e mi chiese, piena di attenzioni, come mi sentissi. «Entra, Ada» mi rimproverò, come se mi fossi esposta a una tempesta di neve senza scarpe e senza cappello. Mi accompagnò a una poltrona comoda, della quale non sentivo nessun bisogno perché ero stata seduta per ore, ma ero troppo sorpresa per rifiutare.
Ci disse che Miss Montgomery era partita il giorno prima per andare a trovare una nipote a Swindon, una novità per la quale esultai interiormente, perché accresceva in modo considerevole le probabilità che la visita si svolgesse in un clima cordiale. Ci aggiornammo sulle novità di famiglia e, poiché il tono di mia madre rimaneva risolutamente gradevole, mi rilassai e cominciai a godermi il panorama della Manica e il sole che entrava dalle finestre.
«Ho annullato il viaggio in Grecia» annunciò mia madre a cena quella sera, un pasto semplice con cibo leggero e sano che conveniva perfettamente al mio stomaco sottosopra.
«Non volevate ispezionare le vostre proprietà?» chiese William, e mi resi conto a un tratto che mio marito conosceva i suoi progetti molto meglio di me. Qualche mese prima mia madre aveva parlato vagamente dell’idea di recarsi in Europa dopo il matrimonio, ma non si era ancora decisa tra Malta, Eubea o Svizzera, dove sperava di informarsi meglio sul metodo educativo di Hofwyl. Non ne avevo più saputo nulla, ma a quanto pareva aveva tenuto più informato William.
«Mio cugino Edward Noel è il mio agente sul posto, e tiene tutto sotto controllo. E poi» aggiunse, toccandomi una mano, «se ci andassi, non potrei quasi certamente tornare in tempo per assistere alle presentazioni del giovane signorino alla famiglia. E non vorrei perdermelo per niente al mondo».
«Quando arriverà il momento» confessai, esterrefatta ma riconoscente, «mi sentirò meglio se saprò che sei nei paraggi».
«Anch’io, ma ci assicureremo che tu sia seguita dai medici migliori». Sorrise con affetto a entrambi. «Come sarà bello e intelligente il figlio di due genitori come voi. Sarà la delizia di tutti quelli che gli stanno intorno».
«“Signorino”? “Figlio”?» le fece eco William sorridendo.
«Sì. Sapete, ho deciso che avrò un nipote maschio». Stringendomi la mano mi lanciò uno sguardo inquisitore, e il mio primo istinto fu di promettere che avrei fatto del mio meglio. «Avete pensato ai nomi?»
Io e William ci scambiammo un’occhiata, e dissi cauta: «Abbiamo delle idee, ma ci restano dei mesi per decidere».
«Byron, forse» disse mia madre, come se l’idea le fosse appena venuta. «Non c’è altro modo per preservare il nome».
«È proprio il nome che preferirei se fosse un maschio». Io e William ci avevamo pensato ma lo avevamo scartato con rammarico, immaginando che mia madre non sarebbe mai stata d’accordo. «Anne Isabella per una bambina, anche se la chiameremmo Annabella, come la sua omonima».
«Che bei nomi» disse mia madre, orgogliosa. Rivolgendosi a William aggiunse: «Sono sicura che devo ringraziare te per questo onore».
«Al contrario» disse lui, «è stata un’idea di Ada».
Mia madre annuì sorridendo, ma non pareva convinta.
Con il passare dei giorni cominciai a chiedermi, un po’ stizzita, perché mia madre non preferisse chiamare il primogenito William, giacché l’ammirazione reciproca tra lei e mio marito, tanto evidente nelle loro lettere, ora aumentava e traboccava come l’impasto del pane lasciato lievitare in un recipiente troppo piccolo.
Ultimamente William aveva deciso di emulare mia madre aprendo una scuola industriale nella città di Ockham sul modello della sua di Ealing Grove. Aveva visitato la scuola vicino a Fordhook poco dopo il ritorno dalla luna di miele, e per le due settimane successive lui e mia madre si erano scritti spesso a proposito delle varie filosofie dell’educazione e di pedagogia. Quando aveva annunciato le sue intenzioni ero stata fiera di lui, e felice di sapere che avevo sposato un uomo generoso che teneva ai suoi affittuari e lavoratori poveri. Di lì a breve, però, avevo cominciato a nutrire dei timori, perché la loro corrispondenza occupava molte delle ore che prima William trascorreva con me.
Nello scegliere l’edificio adatto, il preside, gli insegnanti e il piano di studi, William si era affidato interamente a mia madre. Sarebbe stato sciocco non trarre vantaggio dalla sua esperienza quando lei si era detta disposta ad aiutarlo; ugualmente, però, avrei preferito che chiedesse anche la mia opinione di tanto in tanto, perché avrei potuto dargli dei suggerimenti utili, in particolare in matematica. Mi sentivo esclusa, come se fossi stata mandata di sopra nella stanza dei bambini con la governante mentre gli adulti parlavano di faccende importanti in biblioteca.
William aveva quasi undici anni più di me e mia madre solo tredici più di lui, quindi trovavo naturale che condividessero opinioni e interessi che non mi appassionavano. Però mi offendeva che consultasse mia madre sulla fondazione di una scuola, la gestione delle sue tenute, le fattorie, gli affittuari e molte altre faccende. Avevo solo diciannove anni, ma ero Lady King, sua moglie, una persona intelligente e colta, e volevo che il mio parere gli interessasse quanto quello di mia madre.
Dopo quattro giorni con noi a Southampton, William tornò a Ockham per esercitarsi nelle manovre con la Milizia del Surrey, una delle responsabilità in qualità di lord che preferiva, mentre io restai con mia madre. Era la prima volta che io e William ci separavamo da quando ci eravamo sposati, tre mesi prima, e mi mancava terribilmente. Mi distraevo leggendo, studiando matematica, scrivendo a Mrs Somerville e a Fanny Smith, e facendo lunghe passeggiate in paese e lungo la spiaggia.
Nonostante queste piacevoli distrazioni, mi sentivo sola senza William. Gli scrivevo tutti i giorni, ma mi rispondeva di rado. Mia madre mi ricordò che era occupato con la milizia e aveva poche opportunità di prendere in mano la penna, ma sapendo con che frequenza avesse scritto a mia madre anche quando era stato impegnato con le sue proprietà, non riuscivo a non sentirmi abbandonata. «Se potessi immaginare quanta gioia dà al tuo Uccellino una tua lettera, lunga o breve che sia, ne saresti felice» gli scrissi sconsolata la seconda settimana di ottobre. «L’Uccellino è riconoscente anche per poche righe del suo caro Corvo».
Aspettavo con ansia delle notizie, non solo di casa ma anche da Londra. «Mi chiedo come se la cavi Mr Babbage con le sue macchine» dissi un giorno, triste, dopo che mia madre ebbe controllato la posta senza trovare nulla per me. Non vedevo Mr Babbage e non avevo sue notizie fin da prima del matrimonio. Quanto mi mancavano la sua allegra compagnia e le conversazioni appassionanti con lui! Speravo proprio che sarei riuscita a partecipare a qualcuna delle sue interessanti serate prima che la mia condizione diventasse evidente e fosse inopportuno che mi mostrassi in pubblico in compagnia di altri uomini.
Una mattina di sole mi organizzai per andare a cavallo e cavalcai per un’ora e mezza. Quando tornai al cottage, stanca e senza fiato ma felice, trovai mia madre che camminava nervosa in salotto. «Devi essere più prudente» mi rimproverò mentre mi toglievo guanti e cappello. «Un’attività eccessiva potrebbe farti perdere il bambino».
«Un’inattività eccessiva potrebbe farmi perdere la ragione» ribattei, sforzandomi di conservare il buonumore. «Il bambino è ancora molto piccolo, mamma. Non gli succederà niente».
«Non è un buon motivo per correre rischi inutili».
Promisi con riluttanza di andare solo al passo con i cavalli di Southampton che non conoscevo bene, ma rifiutai di promettere di rinunciare a cavalcare finché potevo.
Non appena ci fummo accordate su quello, mia madre iniziò a sollevare obiezioni sulle mie lunghe passeggiate. «L’esercizio fisico è pericoloso nelle tue condizioni» dichiarò, e quando presi un leggero raffreddore lo citò come prova del fatto che dovevo trascorrere le mie giornate coricata, con i piedi sollevati. Le sue attenzioni continue mi fecero quasi rimpiangere la sua indifferenza.
L’ultimo giorno della mia visita stavo preparando i bagagli in camera mia e mia madre entrò con una scatola di cartone. «Mi chiedevo se avessi spazio per questo» esordì, con un’espressione serena e imperturbabile.
«Occupa molto spazio, quindi dipende da che cos’è» dissi scherzosamente, ma quando me lo tese senza una parola posai la sottogonna che stavo piegando, presi la scatola e sollevai il coperchio. Conteneva un portacalamaio di argento lucido ed ebano, la cui lunghezza era il doppio della larghezza e della profondità, con due calamai col tappo, un recipiente per la sabbia, un cassetto per penne e spazzoline. Anche se era evidentemente stato pulito e lucidato amorevolmente, mostrava segni di usura, e capii subito che era appartenuto a mio padre.
Quando alzai gli occhi da quel tesoro per interrogare con lo sguardo mia madre, lei incrociò le braccia e sostenne la mia occhiata con tutta calma. «Era di Lord Byron» disse. «Tua zia Augusta l’ha ricevuto poco dopo la sua morte, e all’inizio di quest’anno me l’ha dato per ringraziarmi di avere aiutato sua figlia Medora…» Fece un gesto impaziente, a indicare che non intendeva parlarne ora. «Credo che starebbe benissimo nel tuo nuovo studio di Ockham Park, se ti facesse piacere averlo».
«Certo che mi farebbe piacere» risposi con un filo di voce, posando la scatola sul letto e prendendo in mano il calamaio con delicatezza per esaminarlo meglio. Possedevo pochissimi ricordi di mio padre: l’anellino di smeraldo, il medaglione con la ciocca di capelli castani e quasi nient’altro. Chissà, magari aveva intinto la penna in quel calamaio per scrivere un grande poema: i primi canti di Childe-Harold, forse, o le opere precedenti, i poemi che aveva composto prima del suo esilio in Europa. L’aveva senz’altro usato anche per scrivere delle lettere, per corteggiare mia madre, per fare programmi con il suo editore, per chiedere mie notizie.
«Abbine cura» disse mia madre, voltandosi per uscire.
«Certo» dissi. «Lo custodirò come un tesoro».
Il suo cenno di commiato, leggermente accigliato, mi fece capire che non desiderava che mi ci affezionassi troppo. Era una reliquia non solo di mio padre ma anche di suo marito, che le aveva fatto molto male. Per tutta la mia vita aveva interpretato ogni forma di interesse o di affetto per lui come una tacita approvazione. Esigeva da me, e da tutte le persone di sua conoscenza, che scegliessimo con chi schierarci.
Una mattina fredda e piovosa di metà ottobre partii per Ockham, e al mio arrivo William mi accolse con tanto affetto e tanta sollecitudine per la mia salute e il nostro bambino che lo perdonai per non avermi scritto spesso quanto avrebbe dovuto.
«Pensi che presto potremo andare a Londra?» chiesi quella sera, dopo avere fatto di tutto per metterlo di buonumore. «Mi mancano Mr Babbage e Mrs Somerville, e credo che mi si stia atrofizzando il cervello per la mancanza di stimoli intellettuali. Se il frenologo di mia madre mi esaminasse la testa ora, sono sicura che troverebbe nuove sporgenze e rientranze nei punti sbagliati».
William rise, perché anche se non lo avrebbe mai ammesso al cospetto della mia stimata madre, condivideva il mio scetticismo per la frenologia. «Non so quando potrò liberarmi» disse. «Ho parecchio da fare a Ockham prima di tornare ad Ashley Combe».
«Devi tornare là?»
«Certo, tesoro». Mi diede un bacio. «La luna di miele è finita, ma le migliorie devono continuare».
«Posso venire con te?»
«Mi piacerebbe averti con me, Uccellino, ma non dovresti arrischiarti a compiere un viaggio tanto scomodo nelle tue condizioni».
«Ero già in queste condizioni quando siamo tornati a casa dalla luna di miele» gli feci notare, nascondendo una punta di fastidio dietro un sorriso canzonatorio.
«È vero, ma allora non lo sapevamo». Mi posò delicatamente una mano sulla pancia, che aveva a malapena cominciato a gonfiarsi. «E considerato che l’alternativa sarebbe stata lasciarti in quel posto isolato per il resto della gravidanza e finché tu e il bambino non foste stati abbastanza in forze per affrontare il viaggio di ritorno, non avevamo scelta».
Sapevo che non sarei mai riuscita a persuaderlo a permettermi di accompagnarlo ad Ashley Combe, ma speravo almeno di avere più fortuna per Londra. «Tesoro, ho bisogno di compagnia e attività intellettuale. Non vorrai che diventi una mogliettina noiosa, vero?»
«Non potresti mai diventare noiosa». Mi baciò di nuovo e mi guardò con affetto divertito. «Perché non inviti Mr Babbage e Mrs Somerville qui a trovarti?»
Mi sentii rincuorata. «Posso?»
«Certo. Proponilo anche a Woronzow e alle sue sorelle, se vuoi. Falli venire tutti insieme e organizza una festa, oppure separatamente per essere certa di avere sempre qualcuno qui con te».
Subito dopo colazione, il mattino successivo, mandai gli inviti e cominciai ad aspettare ansiosamente le risposte. Mrs Somerville mi rispose alcuni giorni più tardi per confermare che lei e le figlie sarebbero state felici di venire non appena fossero riuscite a organizzarsi, forse verso la fine di ottobre. Anche Woronzow accettò, e dopo qualche scambio di lettere fissammo come data sabato 28 novembre. Poco dopo Mr Babbage scrisse per dire che era felice dell’invito, e che pensava di poter venire nel Surrey all’inizio di dicembre.
Quando fu tutto organizzato e le date furono trascritte nel mio diario, la mia felicità si ridimensionò, perché sebbene avessi quelle visite in previsione, la prima era a più di due settimane di distanza, e la nostalgia degli amici era tanta.
Sapevo che mia madre e mio marito si sarebbero trovati d’accordo nel dichiarare che avrei dovuto riempire le giornate con attività e studi utili. Avevo molti doveri in quanto padrona di Ockham, naturalmente, e stavo ancora cercando di capire meglio quali fossero. Ripresi la mia corrispondenza matematica con Mrs Somerville, decisa a progredire più che potevo prima che l’arrivo del bambino interrompesse gli studi fino a una data ignota, ma non per sempre, speravo. Studiavo matematica ogni giorno, concentrandomi sulla trigonometria e le equazioni cubiche e biquadratiche e leggendo il Trattato analitico sulla trigonometria piana e sferica di Dionysius Lardner. Cantavo anche con il maestro e suonavo l’arpa per almeno un’ora al mattino e al pomeriggio, spesso anche di più, e trovavo gioia e consolazione nella musica.
Con il passare dei giorni autunnali, per insistenza di mia madre e di mio marito più che per desiderio mio, mi feci fare il ritratto dalla celebre artista Margaret Carpenter, che aveva studiato alla Royal Academy e aveva vinto diverse medaglie alla Society of Arts. Posai ai piedi della scalinata del nostro salone, come se fossi appena scesa dal mio boudoir, diretta a un ballo. Indossavo un abito elegante di seta color avorio con una sopragonna granata bordata d’oro, con una scollatura ampia e maniche a sbuffo, strette al gomito, i capelli raccolti in uno chignon e una fascia di filigrana d’argento e diamanti attorno al capo. Avrei voluto portarli più lunghi ai lati per far apparire più stretto il viso, ma Mrs Carpenter insistette perché raccogliessi i capelli in alto. Avrei anche desiderato indossare i miei abiti da lady, ma mia madre mi dissuase, affermando che avrebbero nascosto la mia figura snella, mi avrebbero invecchiata di almeno dieci anni e sarebbero apparsi troppo formali. «E poi non li hai mai indossati in pubblico» aveva scritto. «Se li usassi per il ritratto, ti si potrebbe accusare di desiderare troppo ardentemente una nuova incoronazione, il che verrebbe preso come un atteggiamento sleale nei confronti del re e della regina attuali».
Non volevo certo che il mio ritratto mi attirasse un’accusa di tradimento, così optai per l’abito di seta avorio, che era stato uno dei miei preferiti da quando William mi aveva detto che mi stava d’incanto. Ma anche se non me l’avesse detto, il modo in cui il suo viso si illuminava di desiderio quando lo mettevo mi diceva tutto ciò che mi serviva sapere.
Quando Mrs Carpenter mi mostrò gli schizzi preparatori, capii che quell’abito era stato la scelta giusta. Aveva catturato alla perfezione il drappeggio morbido della stoffa sul corpo, e sapevo che avrebbe dato ai colori una sfumatura così luminosa e reale che gli osservatori si sarebbero quasi aspettati di sentire il fruscio della seta. I capelli erano eleganti, il collo lungo e aggraziato, e dovetti ammettere che era stato saggio ascoltare i suggerimenti dell’artista anche per l’acconciatura. L’unico elemento che stonava – e questa volta era colpa della natura, non dell’artista – era il mio mento un po’ sporgente, ma non era mai stato da me sprecare troppo tempo a guardarmi allo specchio e lagnarmi dei miei difetti. Ero fin troppo sollevata di non essere diventata scialba come aveva predetto Miss Chaloner.
Allora non lo sapevo, ma quello non era il solo ritratto, e neppure il più importante, che avrebbe occupato i miei pensieri negli ultimi mesi del 1835.
Nella prima settimana di dicembre William partì per Ashley Combe per sorvegliare i lavori nella torre dell’orologio e nei giardini acquatici, e invece di trascorrere il compleanno da sola fu deciso che sarei andata da mia madre a Fordhook. William mi mancava, ma fu stranamente piacevole tornare a casa nei panni di donna sposata, e ancora più strano che considerassi Fordhook casa mia, dopo essermi sempre rifiutata ostinatamente di farlo da ragazza. Meglio ancora, Fordhook era vicino a Londra e potei andare in città a trovare Mrs Somerville e le sue figlie e partecipare a una delle soirée di Mr Babbage.
«La vita da sposata vi dona, Lady King» disse Mr Babbage quando ci vedemmo nel suo salotto. «Non vi ho mai visto più radiosa».
Sorrisi perché, sebbene non avessi ancora rivelato il mio segreto al di fuori della famiglia, e il mio abito voluminoso nascondesse i pochi indizi finora visibili, il suo sguardo mi fece capire che aveva indovinato. «Grazie, Mr Babbage. La vita da sposata mi piace, in effetti».
«Studiate ancora matematica e scienze o le vostre incombenze alla testa di Ockham Park vi occupano dalla mattina alla sera?»
Sentii una fitta di dispiacere pensando a tutte le ore che un tempo avevo dedicato ai miei studi, a quante belle serate avevo trascorso in quella stanza a parlare di nuove scoperte scientifiche e meraviglie meccaniche. «Il matrimonio non ha ridotto la mia passione per quegli argomenti» dissi, «né la mia volontà di continuare a occuparmene, ma ha senz’altro ridotto il tempo che posso consacrare loro».
Annuì comprensivo, e mi rattristai pensando che, nel giro di qualche mese, la maternità avrebbe ridotto ulteriormente le ore a mia disposizione. Poi però mi dissi che Mrs Somerville era riuscita a conciliare maternità e matematica, quindi non doveva essere impossibile. La mia amica era così generosa che mi avrebbe senz’altro aiutata in quel campo nuovo e sconosciuto.
Poco dopo il mio ventesimo compleanno io e William ci ritrovammo a Ockham Park e ci preparammo a trascorrere lietamente il nostro primo Natale insieme. «Non è strano pensare che l’anno scorso in questo periodo non ci conoscevamo neppure?» dissi incrociandolo nell’ingresso, dove controllavo le domestiche che disponevano le decorazioni; lui stava portando in casa frasche di sempreverdi per adornare le mensole dei camini. «E adesso eccoci qui, alla vigilia delle feste di Natale, siamo sposati e aspettiamo un bambino».
«Incredibile quanto possa accadere in un anno» disse, sporgendosi per darmi un bacio da sopra una montagna di rami odorosi.
Avevamo invitato mia madre, la madre di William e le sue sorelle, ma mia madre era ancora indisposta e progettava di trascorrere il Natale a Brighton con Miss Carr. Dei King, solo le sue sorelle Hester e Charlotte sarebbero venute, così invitai Mr Babbage e la famiglia Somerville, e con mia grande gioia accettarono. Poco dopo la conferma di questi inviti, William mi informò che lui e mia madre avevano anche organizzato la visita del dottor King alcuni giorni prima di Natale. Trovai strano il periodo ma non ebbi nulla da obiettare, perché il dottore mi era sempre piaciuto. Forse mia madre e mio marito volevano semplicemente che confermasse che stavo bene e che il bambino cresceva senza problemi.
Il 20 dicembre arrivò il dottor King, e sebbene l’aria fosse glaciale e uno strato sottile di neve ghiacciata coprisse il terreno, i sentieri erano sgombri e ci permisero di camminare e discorrere come avevamo fatto tanto spesso a Fordhook. Mi chiese del mio umore, che non era mai stato migliore, e delle mie preoccupazioni sulla futura maternità, che erano numerose, ovviamente, ma nulla che mi paresse innaturale o estremo. «Sono molto contento di trovarvi tanto in forma» dichiarò il dottor King con calore mentre tornavamo verso casa, ma ebbi l’impressione di cogliere una punta di diffidenza nella sua voce. Rimasi perplessa; forse era sorpreso che mi fossi rivelata una moglie migliore di quanto lui e la consorte – soprattutto la consorte – avessero immaginato.
Il pomeriggio successivo, un giorno grigio e burrascoso, in cui ogni raffica di vento portava l’odore della neve in arrivo, sedevo accanto al camino leggendo un capitolo particolarmente complesso della Trigonometria di Lardner quando William apparve sulla soglia del mio studio. «Ciao, tesoro» disse. «Il regalo di Natale di tua madre è appena arrivato. Vuoi venire a vederlo?»
Sorrideva, ma aveva l’aria vagamente inquieta. «Che cos’è?» chiesi, posando il pesante libro e alzandomi.
«Vedrai» disse, porgendomi il braccio.
Mi appoggiai a lui, nascondendo la mia apprensione improvvisa. Lo strano atteggiamento del dottor King, l’evasività di mio marito… qualcosa bolliva in pentola, e sospettavo che tutti, in casa, sapessero di cosa si trattava.
William mi accompagnò in salotto, dove il dottor King stava controllando l’operato di due lacchè che aprivano una grossa cassa rettangolare. «Piano» li istruì William mentre toglievano il coperchio e ne estraevano un oggetto sottile, piatto, avvolto in un panno protettivo.
Quando i servitori tolsero il tessuto, lasciai il braccio di William e mi avvicinai. Le dimensioni dell’oggetto mi furono più chiare, e capii che si trattava di un dipinto. L’ultimo strato di mussola venne tolto, e rimase solo un rivestimento di velluto verde a nascondere la tela e la cornice. Mi parve di sentire un vago odore di tabacco e di udire il ticchettio delle palle da biliardo, ma si trattava semplicemente di un ricordo del passato, che mi riportava con la memoria a casa, a Kirkby Mallory.
Mi fermai davanti al quadro, che i due servitori tenevano sollevato in mezzo a loro all’altezza dei fianchi, spostando lo sguardo da Lord King a me e di nuovo a lui.
«Posso vedere cosa mi ha mandato mia madre?» chiesi a nessuno in particolare, e quando non ebbi risposta mi voltai verso William e sollevai le sopracciglia con aria interrogativa. Lui annuì.
Sollevandomi in punta di piedi tolsi il drappo di velluto verde e feci un passo indietro. Vidi il ritratto di un uomo, un uomo bellissimo con la mascella forte, la fossetta sul mento e labbra carnose e sensuali. Aveva baffi sottili e curati e i capelli scuri, nascosti quasi per intero sotto un turbante di seta, un lembo del quale gli scendeva sulle spalle: il copricapo tipico di una terra straniera. Impugnava una spada cerimoniale, e gli occhi erano scuri ed espressivi, il viso parzialmente di profilo mentre guardava in lontananza alla sua destra; a un tratto immaginai quel dipinto appeso sopra il camino accanto al ritratto che Mrs Carpenter mi aveva fatto, e i due visi, tanto simili negli occhi, nei capelli, nel mento e nella mascella, si guardavano…
«Ada?»
Distolsi lo sguardo dal ritratto di mio padre e mi trovai accanto William, accigliato, con la mano tesa e un’espressione preoccupata. Il mio sguardo passò da lui al dottor King, e a un tratto capii perché era stato convocato a Ockham Park: temevano tutti la mia reazione quando avessi visto il volto di mio padre per la prima volta. Mia madre e il dottor King dovevano avere detto a William che bambina impressionabile ero stata, incline alle manie e alle malattie isteriche. Chissà come avrei reagito quando il ritratto mi sarebbe stato svelato in modo tanto drammatico: avrei potuto svenire, o scoppiare in singhiozzi disperati, o soffrire di un nuovo attacco di paresi.
Era una prova, e solo apparendo perfettamente calma e razionale l’avrei superata.
Mentre pensavo disperatamente a quale fosse la reazione giusta, capii che il dottor King avrebbe riferito ogni dettaglio del mio comportamento a mia madre, della quale dovevo considerare i sentimenti conflittuali e contraddittori verso mio padre. Dovevo esserle grata, dimostrando che rispettavo e apprezzavo l’importanza di quel regalo, ma non rivelare un’emozione eccessiva, che avrebbe indicato che l’immagine romantica di mio padre mi aveva fatto dimenticare i suoi crimini nei confronti di mia madre. Dovevo onorarne il genio pur condannandone la crudeltà. Era un equilibrio difficile da mantenere, ma del resto con mia madre lo era sempre stato.
«Che ritratto meraviglioso» dissi quando riuscii a parlare. Rivolgendomi al dottor King chiesi: «È somigliante?»
«Molto» rispose, avvicinandosi.
«E il costume?»
«Albanese». Il dottor King indicò il turbante e la spada. «Lord Byron lo acquistò durante il Grand Tour del Mediterraneo nel 1809. L’artista è Thomas Phillips, e pare che si tratti di uno dei pochi ritratti che Lord Byron approvò».
«È splendido». Mi parve innocuo elogiare le doti artistiche senza indugiare sul carattere del soggetto. «L’opulenza dei tessuti, i giochi di luci e ombre, l’espressione di Lord Byron sono resi a meraviglia. Se non mi sbaglio i miei nonni avevano esposto questo ritratto a Kirkby Mallory, anni fa».
«Esatto» confermò il dottor King. «Vostra nonna ve l’ha lasciato, con l’accordo di farvelo avere solo al vostro ventunesimo compleanno. Siccome però ora siete sposata, vostra madre ha deciso di darvelo».
«Generoso da parte sua, un pensiero molto gentile». A William dissi: «Dove pensi che dovremmo metterlo, tesoro? Dobbiamo assolutamente appenderlo prima della prossima visita di mia madre perché capisca che abbiamo apprezzato il suo regalo».
Mentre William proponeva alcune soluzioni, guardai con la coda dell’occhio il dottor King che mi osservava con aria di approvazione, annuendo soddisfatto. Apparentemente i miei commenti avevano sortito l’effetto voluto. Avevo superato la prova così bene che non si erano neppure accorti che mi fossi avveduta della prova stessa, né che quell’esame mi avesse dato fastidio. Mi vedevano solo moderatamente contenta e interessata al regalo, senza intuire le emozioni profonde, sconvolgenti che quel ritratto suscitava in me, la strana sensazione di appartenenza e affinità, la nostalgia malinconica e il dolore sordo della perdita, l’amore inesplicabile, il fremito appena percepibile della collera, chissà contro chi o contro cosa, poi.
Avendo portato a termine la sua missione, il dottor King partì il giorno successivo, ma poco dopo arrivarono i Somerville, Mr Babbage e Hester, Charlotte e la madre per trascorrere le feste con noi. Passammo un Natale gioioso e piacevole e accogliemmo l’anno nuovo con allegria, tra canti e giochi, cibi e vini squisiti, piacevoli ricordi di festività passate, e grandi speranze e aspettative per l’anno a venire. Furono le vacanze natalizie più belle che avessi mai trascorso.
Mi dispiacque salutare i nostri ospiti in gennaio, ma mi tenni occupata per tutto l’inverno studiando matematica, corrispondendo con gli amici e preparando la camera e il corredino del piccolo. Alla fine di aprile io e William ci trasferimmo nella nostra casa di Saint James’s Square per il parto, e ricordando che mia madre aveva annullato il suo viaggio all’estero per non perdersi l’arrivo del nipote, William le scrisse per invitarla a stare da noi nell’attesa dell’evento ormai imminente. Se preferiva restare a Fordhook, propose di mandarle un messaggero con la notizia non appena mi fossero cominciate le doglie.
«Sono stata molto contenta di avere notizie da King» scrisse per tutta risposta mia madre, «ed è stato gentile da parte sua invitarmi, ma digli pure che non desidero ricevere un annuncio notturno del primo atto del tuo spettacolo. Preferisco essere avvertita al momento del finale piuttosto che durante il preludio».
«Non gliel’avrei chiesto, ma aveva detto che non voleva perderselo per niente al mondo!» esclamò William interdetto, quando gli lessi la lettera ad alta voce.
Sorrisi per nascondere la delusione. «Forse assistere alla nascita di un nipote è una delle tante esperienze più piacevoli in teoria che in pratica».
«L’avvertirò comunque in anticipo» decise William. «Qualunque cosa dica adesso, al momento opportuno potrebbe desiderare essere al tuo fianco».
Lo guardai con le sopracciglia alzate, stupita che volesse contravvenire a un suo ordine esplicito. Ero curiosa di sapere come sarebbe andata a finire.
Quando arrivò il momento tanto atteso, però, ero troppo presa dai dolori per chiedere a William in quale circostanza avesse avvertito mia madre, ma fu la mia cara cognata Hester a tenermi la mano e ad asciugarmi la fronte allorché il mio bambino venne alla luce il 12 maggio 1836, in occasione di un’eclissi di sole. Dopo, mentre lo tenevo tra le braccia, con William inginocchiato accanto che mi baciava, sorridendo orgoglioso al figlio ed erede, decidemmo che quell’evento celestiale era un segno del futuro glorioso e felice che aspettava lui e noi tutti.