A fine maggio io e William tornammo in Inghilterra, esausti e sconcertati. Ritrovammo i nostri figli a Ockham Park e riportammo la famiglia nella residenza di Londra, dove riprendemmo la nostra vita, che Medora aveva disturbato e complicato con un gesto distratto della mano. William tornò a occuparsi dei lavori nelle proprietà e, con meno entusiasmo, della sua carriera politica. Io mi dedicai ai miei doveri di madre, agli impegni sociali e agli studi matematici.
Ma in un angolo del cervello c’era sempre la consapevolezza dei peccati di mio padre. Nei momenti più impensati della giornata mi trovavo a riflettere sul mio sangue cattivo, e quando i bambini si comportavano male immaginavo che scorresse anche in loro. Ora riconoscevo mio padre nei suoi personaggi poetici più tormentati – Manfredo e Childe-Harold, Selim e Don Giovanni – e mi chiedevo come avessi fatto a lasciarmi sfuggire i segni della sua angoscia che pure erano facilmente riconoscibili nelle lotte e nella sofferenza dei protagonisti.
Avevo detto a mia madre che credevo che mio padre avesse peccato con la sorellastra non perché amava il peccato, ma perché gli piaceva sfidare le convenzioni, ribellarsi alla società, andare contro le regole alle quali sottostavano le persone normali. Quella stessa tendenza aveva tormentato e fatto soffrire anche me tutta la vita, ma riflettendo sui cuori infranti e sulle vite rovinate che mio padre aveva lasciato sul suo cammino, decisi che non avrei seguito le sue orme. Se era nella mia natura ribellarmi, avrei imbrigliato quella forza e l’avrei usata per sfidare il mio fato. Avrei salvato me stessa e redento mio padre.
Decisi di diventare una grande matematica come mio padre era stato un grande poeta, per compensare in qualche modo il genio che aveva usato nel modo sbagliato. Se mi aveva trasmesso almeno una piccola porzione del suo genio, l’avrei usato per rivelare grandi verità e principi. Ero convinta che mi avesse affidato quel compito, e avvertii un’ondata di sicurezza e soddisfazione quando mi dissi che stavo compiendo una missione sacra per riscattarlo.
Questa era la mia ambizione, ma fin da principio incontrai un ostacolo rappresentato dal mio nemico di sempre, la malattia. Nessuno dei miei vecchi rimedi mi diede sollievo, e mi misi in cerca di trattamenti nuovi, trovando un certo sollievo nel mesmerismo e, dietro consiglio del dottor Locock, nel laudano. Ancora adesso sorrido ripensando all’estasi dolce che mi diedero quelle preziose gocce, al senso di caldo conforto che mi avviluppò, alla cessazione di dolore e preoccupazioni. A volte il trattamento mi causava problemi di stomaco o mi impediva di concentrarmi sui miei studi, ma quando ero sotto l’effetto della medicina non mi importava più.
Il laudano addolciva certamente la frustrazione, l’ansia e la gelosia che provai quando mia madre fece ritorno da Parigi, non da sola, ma con Medora e Marie. «Ormai la considero come una figlia adottiva» mi aveva scritto mia madre prima di salpare, e aveva chiesto se mia sorella e mia nipote potevano stare con noi finché avesse trovato loro una residenza adatta. William era molto contrariato, ma era un uomo troppo generoso per rifiutare un tetto a un parente, anche se non riuscivamo a determinare con precisione che tipo di parentela fosse in questo caso. Però insistette perché Medora continuasse a presentarsi come la vedova Aubin.
Cercammo di mantenere il massimo riserbo sul suo arrivo, ma Medora non capiva il nostro desiderio di segretezza; si sentì offesa, e ci manifestò la sua scontentezza con i musi lunghi e i commenti acidi. Mia madre non mi aveva avvertita di questo aspetto del carattere della mia sorellastra. Compativo quella povera bambina, Marie, che non aveva mai messo piede nel suo paese natio e non parlava la lingua, e per amor suo ero disposta a farle restare da noi quanto avessero voluto. Tuttavia provai grande sollievo quando mia madre trovò per loro una grande dimora elegante a Moore Place, una proprietà a Esher, una decina di chilometri a nordest di Ockham Park. Con mio grande stupore mia madre si trasferì da loro, spiegando che qualcuno doveva fare da paciere tra la madre e la figlia che, a quanto pareva, si detestavano cordialmente. Con il passare del tempo la perfidia di Medora e le sue continue lamentele divennero eccessive anche per mia madre, la quale decise di affidare Marie ad amiche fidate, zitelle che si occuparono della sua educazione, mentre lei tornò a casa a Fordhook.
Moore Place divenne casa di Medora e sede della battaglia contro zia Augusta, che restava a distanza e combatteva con la figlia vendicativa solo per posta. Con il supporto costante di mia madre, Medora aveva fatto causa a sua madre per il lascito, ma solo in maggio la faccenda venne finalmente risolta. Il giorno in cui mia zia avrebbe dovuto comparire in tribunale, cedette il documento, e Medora entrò in possesso della tanto agognata fonte di reddito. Invece di ringraziare mia madre per tutto quello che aveva fatto per lei, Medora si lamentò dicendo che le tremila sterline non le sarebbero bastate. Avrebbe voluto un processo perché desiderava esporre sotto gli occhi di tutti il pessimo trattamento al quale l’aveva sottoposta sua madre.
Ora, invece, quella denuncia pubblica le sarebbe stata preclusa, e non le importava se il processo avrebbe rovinato la reputazione di mia madre, la mia e quella di William. Profondamente delusa, Medora si rivoltò allora contro mia madre, insultandola con violenza inusitata. «Nessuno mi ha trattato tanto male da quando ho smesso di vivere con tuo padre» mi disse con voce tremante quando mi precipitai a Fordhook rispondendo alla sua richiesta urgente. «Non avrei dovuto accettare le sue manifestazioni di affetto e confidenza. Cercherò di dimenticarle. A me basta sapere di essere stata sua amica e di avere vegliato su di lei. Non le ho mai chiesto niente in cambio».
Non aveva dovuto chiederle nulla, capii, perché Medora le aveva già dato ciò che mia madre desiderava più di tutto: un mezzo per vendicarsi di Augusta. Compresi che la generosità di mia madre non era mai stata motivata da gentilezza e pietà, ma dal desiderio di vendetta. Non c’era da stupirsi che un complotto nato da disprezzo e collera fosse finito male per tutte le persone coinvolte. «Tua madre avrebbe dovuto lasciare quella disgraziata a Parigi» brontolò William, ed ero d’accordo con lui. Anche se aveva vinto agli occhi della legge, Medora rifiutava di lasciare l’Inghilterra finché non avesse ottenuto ciò che secondo lei le spettava: che giustizia fosse fatta, e altro denaro da parte di sua madre. Mia madre non voleva più avere a che fare con lei, e ritenni di non avere altra scelta se non di intervenire al posto suo. Alla fine convinsi Medora a tornare in Francia in compagnia di una domestica francese, che assunsi io e che pagò William. Era un sacrificio che valeva la pena di compiere. Avremmo tutti tirato un sospiro di sollievo con Medora oltremanica.
Finalmente in luglio potei annunciare a mia madre delle buone notizie. «Non ho dubbi sul fatto che la nave di Medora sia salpata ieri sera» annunciai. «Oggi dovrebbe fare bel tempo per la traversata. C’è un bel vento che la porterà sull’altra sponda, ciò che tutti desideriamo. Sono felice che questa faccenda si sia conclusa. Nell’ultima mezz’ora che ho trascorso con lei ieri sera, mi ha tenuto un discorso sulla sgradevolezza della dipendenza, e mi ha minacciato di gettarsi tra le braccia del primo uomo che riuscirà a convincere a sposarla. Mi auguro che questo suo progetto la renda più felice dell’ultimo».
Con grande sollievo rivolsi la mia attenzione a Hester, che consideravo davvero una sorella, e che meritava il mio aiuto ora che aveva bisogno di me. Si era innamorata di Sir George William Craufurd di Burgh Hall, il terzo baronetto e pastore di Scremby, Lincolnshire, uno scapolo di quarantacinque anni. Volevano sposarsi, ma William si opponeva strenuamente e per una ragione ridicola: Sir George era molto robusto, e mio marito detestava irrazionalmente la gente grassa. Era sempre il primo a dirlo quando ero ingrassata, ferendomi, anche se non posso negare che i suoi commenti sarcastici mi incoraggiassero a restare magra. Ma il suo pregiudizio mi pareva una ragione molto stupida per proibire alla sorella di sposare un uomo che era dolce, la adorava e aveva un’ottima situazione. Promisi a Hester di fare tutto il possibile per far ragionare William, ma temevo segretamente di non riuscire a influenzarlo. Una volta, anni fa, pensavo fossimo uniti, una accanto all’altro, mano nella mano, rivolti verso lo stesso orizzonte lontano. Ora mi sembrava che fossimo spalla contro spalla, e che guardassimo in direzioni diverse, io stringendo un libro, lui a braccia conserte. Non era solo per amore di Hester che mi preoccupavo della distanza che ci separava, ormai.
Quando non difendevo Hester, riempivo le ore con la matematica, la scienza e con un rinnovato interesse per la musica, oltre a una nuova passione per il teatro. Il mio amore per la musica e l’arte drammatica giunse a tali livelli che William cominciò a lamentarsi che si trattasse di una nuova, violenta mania, e temeva che abbandonassi matematica e scienze per attività più frivole. Non ero d’accordo con il suo giudizio sulle arti, e il ricorso al fastidiosissimo termine “mania”, tanto amato da mia madre e dal dottor King, mi esasperava. Non avevo intenzione di permettere a nuovi interessi di eclissare le passioni principali della mia vita, quindi mio marito, sempre più intrattabile, non aveva bisogno di preoccuparsi. Anche così, fui costretta a scrivergli molte lettere per rassicurarlo in merito perché se ne convincesse.
Come potevo contemplare l’abbandono di scienze e matematica quando tante scoperte e invenzioni entusiasmanti vedevano la luce quasi ogni giorno? C’era il telegrafo elettrico, naturalmente, che avevo visto per la prima volta esposto a Exeter Hall, che mandava dei messaggi in regioni distanti quasi alla velocità del pensiero. Il sistema ferroviario a vapore, con le locomotive enormi, rumorose e potenti, trasportava i passeggeri in più località più velocemente che mai, rendendo i viaggi facili, confortevoli e stimolanti. Non tutti condividevano la mia opinione. Se io consideravo la ferrovia un’invenzione grandiosa e fantastica, il mio caro amico Mr Dickens la vedeva come una minaccia che seminava terrore e distruzione nella campagna un tempo serena, e cominciò a chiamarla «mostro trionfante».
Anche la locomotiva a vapore, per quanto ingegnosa, correva il rischio di essere eclissata da una tecnologia più recente quando i fratelli Samuda introdussero la “ferrovia pneumatica”, basata sul principio della propulsione tramite la pressione atmosferica, usando un sistema di pistoni, tubi e pompe per spingere i vagoni lungo i binari alla velocità sconcertante di quaranta chilometri all’ora. I suoi vantaggi rispetto al sistema a vapore, tra cui la maggiore efficacia nell’attraversare delle montagne, fece grande impressione su di me, e il viaggio fu così emozionante che feci non uno, ma due giri in occasione della dimostrazione pubblica.
Le scoperte nell’ambito del mondo naturale erano sconvolgenti come quelle in campo tecnologico. L’amico di Mr Babbage, Charles Darwin, era tornato da un viaggio di cinque anni intorno al mondo per studiare la geologia e la storia naturale, e aveva compiuto osservazioni interessanti e raccolto numerosi campioni. Alle serate di Mr Babbage parlò di una teoria che stava sviluppando basata sulle sue osservazioni, qualcosa che chiamava “selezione naturale”. La trovavo affascinante e profondamente rivoluzionaria, ma in privato io e Mr Babbage ci trovammo d’accordo sul fatto che quando avesse pubblicato i suoi risultati, molti detrattori lo avrebbero senz’altro denunciato come eretico.
Forse ancora più intriganti furono per me gli esperimenti di Michael Faraday su elettricità e magnetismo. In seguito saremmo diventati ottimi amici, perché il mio interesse crescente per l’elettricità mi costrinse a ricreare alcuni dei suoi esperimenti, ma lui mi confessò che la matematica non gli interessava molto, quindi non provava per il mio lavoro lo stesso interesse che avevo io per il suo. Lo prendevo spesso in giro per questo, con divertimento di entrambi.
Io e Mr Faraday eravamo destinati a trovarci in disaccordo sul fascino della matematica, perché io come sempre ne ero prigioniera. Una volta, mentre riflettevo sulle bizzarre trasformazioni che potevano subire molte formule, ripensai alle storie che Miss Thorne mi aveva raccontato tanto tempo prima. «Spesso mi tornano in mente certi folletti e fate delle favole» scrissi in una lettera a Mr De Morgan, «che sanno passare da una forma all’altra; anche gli spiriti e le fate della matematica sono dispettosi, ingannevoli e birichini come quelli del mondo della fantasia». Purtroppo il mio insegnante non fu divertito dalle mie fantasticherie più di quanto non lo sarebbe stata mia madre.
Anche quando non parlavo di fate, Mr De Morgan era talvolta sconcertato da certi argomenti che mi affascinavano. Tutta estate ero stata assorbita dai numeri immaginari, curiosità matematiche come la radice quadrata di un numero negativo. Tali creature non erano né positive né negative, ma qualcosa di differente, e anche se si comportavano diversamente dai numeri normali, potevano sempre essere manipolati secondo le regole più semplici dell’aritmetica. Mi ricordavano le fate che erano emerse dal loro mondo soprannaturale per svolazzare in un giardino inglese, entità ultraterrene che restavano con noi qualche tempo prima di scomparire di nuovo.
La mia contemplazione dei numeri immaginari, le equazioni complesse che producevano e la nuova forma di geometria bidimensionale che tali equazioni creavano mi spingevano a chiedermi se questa non potesse diventare dimensionale, e poi di nuovo estendersi in un’altra regione sconosciuta, e via di seguito, all’infinito. Quando ne parlai a Mr De Morgan, questi rispose, tagliando corto, che aveva già ragionato sulla faccenda e non era arrivato a nessuna conclusione. Intendeva dire che, se un uomo della sua intelligenza non aveva trovato una soluzione, significava che non ce n’erano, ma segretamente non ero d’accordo con lui, e continuai a rifletterci per conto mio.
Fu un’estate di meraviglie per me, ma le mie gioie matematiche e scientifiche si fermarono, o almeno subirono una cupa battuta d’arresto alla fine di agosto. All’inizio di quel mese Lord Melbourne aveva ricevuto un voto di sfiducia in Parlamento, e il 30 agosto diede le dimissioni. Il governo Tory tornò al potere, e Sir Robert Peel divenne di nuovo primo ministro. Provai pena per il cugino di mia madre, che immaginai fosse molto deluso dal risultato del voto, ma non mi dispiacque per la mia famiglia, perché Lord Melbourne aveva già fatto molto per noi e non mi aspettavo niente di più. Per Mr Babbage, invece, ero preoccupata, perché sapevo che avrebbe considerato il ritorno al potere di Sir Robert Peel come un duro colpo per le sue macchine.
La volta successiva in cui ci vedemmo, fui sollevata trovando Mr Babbage tutto sommato di buonumore. «Ho ancora qualche carta da giocare» mi assicurò, e alla soirée della settimana successiva scoprii qual era la più importante: vi parteciparono anche il duca di Wellington e il principe Alberto, il marito della regina Vittoria. La grande intelligenza del principe Alberto era ben nota, e mi sentii piena di gioia e speranza osservando Mr Babbage, cortese e affascinante, che accompagnava gli ospiti d’onore in salotto a vedere la Dama d’Argento, poi nell’altra sala a osservare il modello da dimostrazione della Macchina differenziale, e infine in laboratorio a esaminare la versione incompleta della macchina a grandezza naturale e i disegni e gli appunti per la Macchina analitica. Forse questo colloquio avrebbe finalmente procurato a Mr Babbage i finanziamenti che lui e le sue macchine meritavano e di cui avevano tanto bisogno.
In ottobre, un altro sviluppo positivo mi diede nuove speranze. Luigi Federico Menabrea, il professore di meccanica e costruzione dell’università di Torino che Mr Babbage aveva incontrato alla conferenza di scienziati italiani due anni prima, pubblicò un trattato sulla Macchina analitica sulla prestigiosa rivista Bibliothèque Universelle de Genève. Io e William partecipammo al ricevimento che Mr Babbage organizzò per festeggiare la pubblicazione, e i suoi più cari amici brindarono a ripetizione in suo onore, congratulandosi con lui e dichiarando che certamente il governo inglese non avrebbe più potuto ignorare la sua opera. «Il vostro maggiore problema sarà aggiungere una nuova stanza al vostro laboratorio per farci stare la Macchina analitica» disse Mr Faraday.
«Stavo pensando che invece vorrei abbattere il muro tra il salotto e la sala da pranzo per costruirla qui!» esclamò Mr Babbage, e scoppiammo tutti a ridere. Fu una serata allegra, piena di speranza e di attese. Io e William tornammo a casa quella sera dicendoci che il paese sarebbe stato trasformato da quella meravigliosa macchina, e per la prima volta la prospettiva parve più concreta.
Poco dopo Mr Babbage mi scrisse con un’ottima notizia: il duca di Wellington e il principe Alberto avevano saputo del trattato. L’approvazione della comunità scientifica e le osservazioni sull’opera di Mr Babbage li convinse a organizzare un incontro tra Mr Babbage e il primo ministro Peel.
«È il suo momento» esultai, entrando a passo di danza nello studio di William e dandogli la lettera. «Ha l’appoggio del principe e del duca. Se riesce a convincere il primo ministro, la costruzione della Macchina analitica può cominciare nel giro di pochi giorni! Tra un anno potrebbe essere finita!»
«Babbage dovrebbe fare attenzione a comportarsi nel miglior modo possibile» disse William, scorrendo la lettera. «Questo non è il momento di chiedere qualcosa a Peel. L’ho visto ultimamente, ed è chiaro che è esausto e oberato dai problemi. Il popolo è in difficoltà, non solo nelle città ma anche nei paesi e nelle fattorie. Con la fame e i tumulti da sedare, credo che una macchina costosa da finanziare non sia tra le sue priorità, soprattutto se non ha grande simpatia per Babbage».
«Mr Babbage capisce che tutto sta nell’avere dalla sua parte il primo ministro» dissi, ma mentre lo dicevo cominciavo ad avere i primi dubbi. «Userà certo tutto il suo tatto e rispetto. Sa essere cordiale, appassionato e convincente quando vuole».
Non dissi ciò che William già sapeva: quando Mr Babbage non voleva, poteva essere musone e lamentoso, e inimicarsi le persone che in altre occasioni avrebbero potuto appoggiarlo.
Con il passare delle ore, venerdì 11 novembre, immaginai cosa stesse facendo Mr Babbage mentre si preparava per la riunione. Ora è nel suo studio a organizzare i documenti, pensai alle undici; adesso sta consumando un pranzo sostanzioso per rimettersi in forze. Alle tredici lo immaginai salire in carrozza e dirigersi negli uffici del primo ministro, poi, troppo agitata per pensare ad altro, mi misi a camminare avanti e indietro, sperando e pregando che andasse tutto bene. Dovetti trattenermi dal recarmi all’1 di Dorset Street, nel suo salotto, per aspettare il suo ritorno.
Ebbi sentore che l’incontro non fosse andato come avevo sperato quella sera a cena, quando un ospite, il mio amico Charles Wheatstone, un inventore e fisico che aveva contribuito a creare la prima applicazione pratica del telegrafo in Europa, disse di avere visto Mr Babbage in giro per Westminster nel tardo pomeriggio. «Camminava con passo spedito» disse Mr Wheatstone, «con aria accigliata, senza cedere il passo a nessuno, il viso rabbuiato».
Mi preoccupai ulteriormente quando passò un altro giorno senza notizie. Venimmo a sapere da amici comuni che l’incontro era stato un disastro, ma serbai le speranze finché non ricevetti la sua lettera, un resoconto quasi minuto per minuto della riunione che confermò le mie peggiori paure.
Inesplicabilmente Mr Babbage fin da subito aveva assunto un atteggiamento ostile, quasi che l’obiettivo fosse costringere il primo ministro a piegarsi al suo volere invece di persuaderlo con le buone, ricorrendo a motivazioni razionali. Anziché spiegargli chiaramente, in poche parole, la differenza tra i due apparecchi e i loro vantaggi pratici, si dilungò su come la gelosia e la cattiveria di certi uomini al governo lo avesse danneggiato. Mentre aveva enfatizzato che la Macchina analitica era superiore alla differenziale, non era riuscito a spiegare perché la prima andasse finanziata quando la seconda non era ancora stata completata.
Quando ne aveva avuto abbastanza, il primo ministro lo aveva interrotto osservando che, per sua stessa ammissione, Mr Babbage aveva reso inutile la Macchina differenziale inventandone una migliore. Babbage lo aveva incenerito con lo sguardo. «Ritengo di essere stato trattato con grande ingiustizia dal governo. Ma siccome siete di un’opinione diversa, non posso farci nulla». A quel punto si era alzato, gli aveva augurato buona giornata e se n’era andato senza tante cerimonie.
La lettera di Mr Babbage mi lasciò senza parole; non riuscii neppure a preparare William alla lettura, limitandomi a porgergliela e a lasciarmi cadere sulla sedia più vicina. «Babbage è uno stupido» disse dopo averla letta. «Non ha fatto nulla per ingraziarsi l’uomo più potente d’Inghilterra, l’unico in grado di dargli esattamente quello di cui ha bisogno».
«Perché si è messo sulla difensiva, perché quel caratteraccio?» mi lamentai. «E questa è la sua versione dell’incontro. Non oso pensare a quella di Sir Robert Peel».
Con un sospiro, William piegò la lettera e me la riconsegnò. «Mi dispiace dirtelo, ma il tuo Babbage ha appena compromesso la sua ultima e migliore possibilità di ottenere un finanziamento».
Pensai alla Macchina differenziale che si copriva di polvere in laboratorio, agli appunti e ai disegni della Macchina analitica che sarebbero ingialliti con gli anni, all’inchiostro che sbiadiva, ai bordi che si arricciavano, e volevo piangere. «Forse, a meno che… William, hai mai pensato di provare a diventare primo ministro?»
William proruppe in una risata soffocata. «Mai. Buon Dio, Ada, non è quella la soluzione».
«Lo prenderesti in considerazione?»
«No, a meno che non fosse la regina a chiedermelo personalmente. E forse neanche in quel caso. Tesoro, un uomo che vuole diventare primo ministro solo per finanziare i progetti scientifici di un amico non merita quel posto».
«Immagino di no» convenni sconsolata. «Non so cosa dirgli. Sono sicura che gli serva un incoraggiamento in questo momento, ma sono così esasperata che mi verrebbe solo da prenderlo per le spalle e scuoterlo. Se l’incontro fosse stato con Lord Melbourne, sono sicura che Mr Babbage sarebbe stato simpatico e cordiale».
«È il peggior nemico di se stesso» dichiarò William, e non potevo che dichiararmi d’accordo. Per portare a termine una delle sue macchine, Mr Babbage avrebbe avuto bisogno di un grosso aiuto da parte dei suoi più cari amici, capaci di difendere i suoi interessi meglio di quanto sapesse fare lui.
Poco dopo ci ritirammo a Ockham Park per le vacanze di Natale, e mi venne così risparmiato un incontro imbarazzante con Mr Babbage. Gli scrissi però una lettera piena di solidarietà e incoraggiamenti, e chiesi a William e a Hester di rileggerla prima di spedirla, per assicurarmi che non contenesse nessuna frase di recriminazione. Ero così delusa che dovevo spesso ricordare a me stessa che non erano i miei finanziamenti a essere stati rifiutati, né le mie macchine a non essere costruite. Io ero semplicemente un’interessatissima osservatrice e amica. Mr Babbage non mi doveva delle scuse per ciò che aveva fatto, ma come amica io gli dovevo la mia lealtà e il mio appoggio.
Due giorni dopo il mio ventisettesimo compleanno, ricevetti una lettera di Charles Wheatstone che mi porgeva i suoi auguri e mi chiedeva se poteva farmi visita il più presto possibile per discutere di una faccenda di grande interesse scientifico. Gli risposi invitandolo, e quando arrivò, la settimana successiva, non stavo più in me dalla curiosità.
Mr Wheatstone era un omino discreto che aveva due anni più di William, con un viso tondo, radi capelli biondi e occhi azzurri vivaci. Cresciuto a Gloucester, era figlio del proprietario di un negozio di musica, e gran parte dei suoi primi esperimenti e delle prime invenzioni era appunto legata agli strumenti musicali. Era stato il primo a riconoscere che il suono viaggiava sotto forma di onde invisibili. Era piuttosto riservato in pubblico, ma conversava volentieri e ascoltava con attenzione gli altri in gruppetti più sparuti. Eravamo diventati amici grazie all’amore condiviso per la musica, e potevamo discutere per ore sulla scienza del suono e le relazioni tra musica e matematica.
«Avete visto il nostro amico Mr Babbage recentemente?» gli chiesi dopo che io e William gli avemmo mostrato la sua stanza e ci fummo accomodati in biblioteca in attesa della cena.
«Non da quel pomeriggio a Westminster» replicò Mr Wheatstone. «La ragione per cui desideravo vedervi, però, riguarda lui».
Non so perché, ma ne ero sicura. «Sono felice di aiutarlo come posso».
«Conoscete i Scientific Memoirs di Richard Taylor?» domandò. «È una pubblicazione nuova, che si propone di dare alle stampe la traduzione dei saggi scientifici più importanti pubblicati nelle riviste estere».
«Sì, lo leggo, di tanto in tanto».
«Mr Taylor mi ha incaricato di cercare degli articoli per la sua rivista» disse. «Il trattato di Menabrea sulla Macchina analitica di Mr Babbage è precisamente il genere di articolo che desidera pubblicare. Sapendo che parlate non solo perfettamente francese, ma che conoscete la Macchina analitica quasi quanto Mr Babbage, ho concluso che siete la persona più qualificata per tradurlo in inglese».
«Oh, mio Dio!» esclamai.
«Lady Lovelace, se accettate avrete la mia gratitudine e quella di Mr Taylor, ma fareste anche un grande piacere a Mr Babbage» proseguì. «Molti dei nostri concittadini, che potrebbero finanziare il suo lavoro se lo capissero, non sono in grado di leggere l’eccellente trattato di Menabrea. Se avessero a disposizione una versione inglese, questo potrebbe influenzare molte persone a suo favore».
«Certo che lo farò» dichiarai. Come potevo rifiutarmi, quando avevo desiderato per tanto tempo l’opportunità di rendermi utile? «Sono lusingata che abbiate pensato a me».
«Il vostro è stato il primo e unico nome che mi è venuto in mente».
«Questo dimostra quanto siate perfetto nel vostro lavoro di ricercatore di nuovi contributi» lo canzonai. «Datemi tutti i particolari, la data di consegna della traduzione e tutto il resto, e comincerò subito a lavorare». Lanciai un’occhiata a William, che mi fece un sorriso orgoglioso. «O forse aspetterò dopo cena».
Non appena Mr Wheatstone partì mi misi all’opera. Anche se la scrittura del signor Menabrea era scorrevole e chiara, non volevo limitarmi a una traduzione letterale, ma catturare la poesia delle sue spiegazioni e aggiungere chiarezza dove il suo testo mi pareva oscuro. Non intendo certo sminuire l’autore originale, ma Mr Wheatstone aveva ragione nel dire che solo Mr Babbage conosceva la Macchina analitica meglio di me, e vi erano certi dettagli tecnici che capivo meglio del signor Menabrea.
Accantonai la traduzione a malincuore per le vacanze di Natale, e naturalmente i miei soliti impegni di moglie, madre e contessa mi impedirono di lavorare al ritmo che avrei voluto, ma in febbraio avevo terminato una traduzione fedele, poetica e perfetta del trattato di Menabrea. Ero molto orgogliosa del risultato, e quando mi recai a Londra per consegnare il manoscritto a Mr Wheatstone, lo pregai di dirmi se avesse avuto bisogno di nuovo dei miei servizi.
Quando uscii dagli uffici fu per me un momento lieto e triste insieme, l’incarico ormai terminato, le mani vuote, il cuore colmo. Non vedevo l’ora che la traduzione venisse pubblicata, e osavo sperare che un giorno avrei pensato a quel momento come all’inizio della mia vera carriera matematica. Sarei stata un’autrice, mi dissi, e a quel pensiero non riuscii a celare un sorriso. Mi chiesi se mio padre avesse provato lo stesso entusiasmo misto a impazienza quando seppe che la sua prima poesia stava per essere pubblicata.
Pernottai a Saint James’s Square invece di tornare immediatamente a Ockham Park, e fu una notte splendida, il mio primo assaggio di pace, tranquillità e beata solitudine da anni. Il pomeriggio successivo feci visita a Mr Babbage, dopo avere mandato una domestica a informarsi se riceveva ospiti. Era stato malato, avevo saputo, ma non si trattava di nulla di grave, e da settimane non organizzava una delle sue soirée né faceva vita mondana. Non sapeva che avevo lavorato alla traduzione per i Scientific Memoirs di Taylor, e desideravo fargli la sorpresa portandogli una copia del trattato di Menabrea in inglese, scritta con la mia calligrafia più bella.
Trovai Mr Babbage con poca voce e un po’ pallido, ma allegro e molto contento di vedermi. Mi offrì un tè in salotto, e ci raccontammo le novità reciproche dall’autunno precedente. Nessuno dei due fece parola dello sventurato incontro con Sir Robert Peel.
«Ho una sorpresa per voi» dissi, sorridendo, e gli porsi il pacchetto avvolto nella carta, che fino a quel momento aveva educatamente finto di non notare. «Sono stata una fatina matematica molto impegnata quest’inverno, anzi, une petite fée très occupée a fare incantesimi con la mia penna».
«Che cos’è?» chiese, togliendo il manoscritto dall’involto. Lo sfogliò e un sorriso di meraviglia e soddisfazione gli illuminò lentamente il volto. «Ma Lady Lovelace, è incredibile. L’avete scritto solo per me? Perché sembra pronto per la pubblicazione».
«Non è solo per voi. È per tutti coloro che avranno l’accortezza di comprare il numero dei Scientific Memoirs di Taylor in cui verrà pubblicato». Gli spiegai la richiesta di Mr Wheatstone, aggiungendo modestamente che ero stata la sua prima scelta come traduttrice.
«Ma certo, evidentemente. Chi meglio di voi?» Poi prese un’aria pensierosa. «Ma Lady Lovelace, invece di tradurre il trattato di Menabrea, perché non avete scritto un saggio voi stessa, visto che è un argomento che conoscete tanto bene?»
«Perché…» Esitai. «Perché non è quello che Mr Wheatstone mi ha chiesto, e confesso che l’idea non mi è neanche venuta».
«Ho capito». Mr Babbage si accigliò. «Allora forse potreste aggiungere qualche nota vostra alla traduzione».
«Che genere di note?»
«Le vostre osservazioni. Delle note che chiariscano gli aspetti della Macchina analitica non spiegati da Menabrea, e i dettagli corrispondenti alle modifiche che ho apportato nel frattempo». Mi guardò speranzoso. «Credo che migliorerebbero notevolmente la traduzione, no?»
«Sono d’accordo» dissi, «ma non pensate…»
Mi interruppi, imbarazzata nell’esprimere i miei dubbi. A parte Mary Somerville, che era un’eccezione straordinaria, le donne non pubblicavano quasi mai degli articoli nelle riviste scientifiche di un certo livello. Quando scrivevano di scienza, lo facevano per rendere comprensibili le scoperte e le idee degli scienziati uomini alle donne interessate all’argomento ma incompetenti. Mr Babbage stava suggerendo qualcosa di completamente diverso: un saggio scientifico originale scritto per un pubblico di scienziati uomini.
Era inimmaginabile, eppure era esattamente l’impresa scientifica che avevo desiderato compiere fin da quando, da bambina, avevo sognato la Volologia, la Grande Opera che avrebbe fatto avanzare la comprensione umana e inserito il mio nome tra quello di grandi scienziati, filosofi e matematici della mia generazione.
«Lady Lovelace?» mi incalzò Mr Babbage.
«Credo che sia un’ottima idea» dichiarai con un sorriso, «e penso di essere la persona ideale per provarci».