Lorenzo Valla (1405-1457) è comunemente riconosciuto come uno dei più illustri e raffinati umanisti italiani del XV secolo, sostenitore di una nuova corrente di pensiero in aperta opposizione alla scolastica medievale. In realtà, pur optando per una prospettiva filologica che indubbiamente inciderà nella tradizione rinascimentale e pur polemizzando con il metodo scolastico, Lorenzo Valla non può dirsi certo indipendente dall’orizzonte culturale del medioevo. Egli rifiuta lo scollamento dalla realtà prodotto dalle dispute accademiche, senza per questo partecipare di quell’orientamento che confluirà poi nel platonismo fiorentino. Quello di Valla è piuttosto un contributo critico, tipico del retore, che si oppone all’incompetenza di chi travisa il senso originario dei testi e che richiama l’uomo alla dimensione della vita pratica, affidando alla retorica il compito di sviluppare tale dimensione mediante il criterio della elegantia linguistica. La filologia di Valla diviene così contemporaneamente storiografia, dal momento che consente un’effettiva comprensione del passato, e filosofia, perché introduce una corretta comprensione delle parole e delle categorie con cui si esprime il pensiero umano.
L’applicazione della filologia e l’importanza attribuita alla parola anche in materia filosofica hanno l’obiettivo, in Valla, di reagire ai dibattiti accademici interni alle università, che avevano ridotto la filosofia a mero esercizio di una logica formale incapace di aderire alla realtà. Priva di una conoscenza adeguata delle lingue classiche, la scolastica medievale aveva inoltre dato luogo a fraintendimenti ed equivoci creando un linguaggio artificiale che non era più in grado di rapportarsi al vero.
La riflessione di Valla propone una sostanziale revisione del linguaggio attraverso l’analisi grammaticale dei fondamenti concettuali dei termini logici aristotelici: egli giunge a sostenere che i concetti primi di ens, aliquid, unum, verum, bonum non sono altro che particolarità espressive di un’unica parola realmente concreta: res. I termini astratti rinviano solo ad aggettivi e questi, a loro volta, sono destinati esclusivamente a qualificare la cosa e non a esprimerne la sostanza: unico trascendentale è la res, in quanto non indica una determinazione particolare dell’ente a differenza dei predicati di sostanza, azione e qualità.
Il linguaggio diviene autentico criterio di verità e la retorica, attraverso la lezione di Quintiliano (35 ca.-96 ca.), diviene lo strumento privilegiato di tutte le scienze, dalla filosofia, alla storiografia, alla teologia. Non più confinata alla sfera di ciò che è semplicemente persuasivo, la retorica assorbe in sé non solo l’insieme dei discorsi concernenti probabilità e credibilità, ma anche le argomentazioni apodittiche (ossia “dimostrative”) necessarie proprie della dialettica. In tale prospettiva, la filologia, intesa come scienza storica in grado di accertare la validità conoscitiva del linguaggio (anch’esso considerato nella sua storicità), fonda un nuovo modello di conoscenza basato sulla riconquista della dimensione terrena. Il De falso credita et emendita Constantini donatione (1440), con il quale Valla dimostra la falsità del documento con cui Costantino avrebbe donato il potere temporale sulla parte occidentale dell‘impero al pontefice, è un chiarissimo esempio di una corretta lettura dei classici e dell’applicazione della filologia così delineata.
La cosiddetta “donazione di Costantino” (Constitutum Constantini) è uno dei più celebri falsi della storia. Il testo fu composto, presumibilmente attorno alla metà dell’VIII secolo, negli ambienti della cancelleria pontificia: esso si presenta come il documento con il quale l’imperatore romano Costantino (280 ca.- 337) avrebbe donato a papa Silvestro e ai suoi successori l’autorità temporale sulle terre occidentali dell’impero. Il Constitutum fu ampiamente utilizzato dai pontefici per sostenere le rivendicazioni politiche e giuridiche della Chiesa, finché Niccolò Cusano e soprattutto Lorenzo Valla non ne dimostrarono inoppugnabilmente la falsità attraverso un rigoroso esame filologico.
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Ritratto e suggestioni antiquarie
Quella di Valla, tuttavia, non è solo una denuncia dell’astrattezza di un metodo filosofico troppo lontano dalla realtà: la sua critica si estende anche al culto quasi esclusivo della logica aristotelica. Spostando l’attenzione alla filosofia pratica, Valla ripropone il tema classico della felicità affrontando la questione dal punto vista epicureo. Tale ripresa viene a configurarsi come una soluzione piuttosto originale, da una parte perché segna la rivalutazione di una corrente di pensiero diversa dall’aristotelismo, dall’altra perché sostiene il diretto antagonista del rigorismo stoico e monastico.
Ciò che a Valla preme difendere è un’immagine completa dell’uomo, considerato nella sua concretezza e valutato senza pregiudizi nelle sue naturali inclinazioni, in una concezione etica che viene rintracciata nell’identificazione epicurea tra virtù e piacere; il dialogo De voluptate ne rappresenta il più chiaro manifesto teorico. Strutturato in tre libri, esso propone (nella sua prima stesura) un dibattito tra Leonardo Bruni (1370-1444), sostenitore dell’etica stoica che considera le passioni errori che la ragione può emendare, il Panormita (1394-1471), che esalta il piacere come causa e fine ultimo delle azioni umane, e Niccolò Niccoli (1364-1437), rappresentante della cristianità chiamato a prendere posizione tra stoicismo ed epicureismo. Proprio nell’intervento di quest’ultimo risiede l’originalità del dialogo, che sta non tanto nel confrontare le due famose etiche ellenistiche, quanto piuttosto nella considerazione del cristianesimo come una forma di edonismo: tra l’aspirazione dell’epicureo e la fede del cristiano esiste una fondamentale continuità basata sul perseguimento del piacere, uno tutto terreno e mondano, l’altro di natura celeste e ultraterrena. Nel corso del dialogo, infatti, Niccoli respinge come vuota e ingannevole la moralità stoica, riconoscendo al piacere il fine ultimo della morale cristiana, fondata sulla promessa della beatitudine celeste (i piaceri ultraterreni diventano la più alta manifestazione della voluptas). Contro ogni pratica ascetica che mutila l’uomo della sua parte corporea, la felicità viene dunque intesa come la piena realizzazione nell’uomo di tutte le potenzialità che l’esistenza offre.
Ciò che preme al filologo è fondare un’etica il più possibile conforme alla natura e alle inclinazioni umane. Per questo e in tale orizzonte teorico avviene la rivalutazione del piacere, perché anche i più alti valori dello spirito rispondono allo stimolo naturale dell’utile e del piacevole.
TESTO
T4: Lorenzo Valla, Il piacere e la virtù
LETTURE
Leonardo Bruni: uomo, Dio e mondo alle soglie del Rinascimento
Inteso modernamente, cioè come codice realizzato in più copie identiche dello stesso testo, il libro nasce grazie alla stampa, in Occidente, intorno alla metà del Quattrocento.
Tra le condizioni storiche che favoriscono la nascita e il successivo dilagare del libro stampato ricordiamo: l’esistenza di un materiale scrittorio adatto e relativamente a buon mercato come la carta; il dinamismo tecnologico dell’epoca; l’aumento della domanda di libri da parte della Chiesa, dell’università e del mondo laico; le accresciute esigenze di amministrazioni, banche, contabili, cancellerie, per brevi testi d’ufficio; lo sviluppo della libera impresa economica, nel quale si inserisce anche lo stampatore.
Nota da tempo, la tecnica dell’incisione di matrici lignee viene utilizzata nella seconda metà del XIV secolo per la fabbricazione di piccole immagini devote su carta, ad uso privato dei fedeli.
Gli albori della stampa a caratteri mobili sono ancora in buona parte avvolti da un alone di mistero. Comunque, non sembra più in discussione la paternità dell’invenzione, assegnata a Johannes Gensfleisch zur Laden zum Gutenberg (1400 ca.-1468). Membro del patriziato della città di Magonza, forse (ma è lecito dubitarne) orafo come suo padre, Gutenberg trascorre a Strasburgo almeno dieci anni della sua vita (1434-1444), durante i quali si impegna, in società con altri, in varie produzioni industriali. Una di queste è con tutta probabilità la stampa a caratteri mobili, vale a dire una catena produttiva che consiste innanzitutto nel decomporre il testo, cioè immaginare di ridurlo alle lettere che lo compongono, poi nel fabbricare un gran numero di tipi metallici delle singole lettere. Successivamente si ricompone il testo in una forma e si mantengono insieme i caratteri così composti a formare la pagina, senza che si separino o si spostino. Si inchiostra poi la forma con un inchiostro grasso, che non venga assorbito dalla carta e si pressa insieme il foglio di carta e la forma tipografica con un torchio da stampa.
Gli innumerevoli problemi tecnici di questa impresa occupano Gutenberg per vari anni e vengono da lui risolti soltanto nei primi anni Cinquanta del Quattrocento. Il Calendario turco, del dicembre 1454, è forse il primo libro stampato completo rimasto. Da questi testi rudimentali, tutti attribuibili con buona probabilità a Gutenberg, si distingue nettamente per qualità il primo capolavoro della tipografia, la Bibbia di Gutenberg (o delle 42 righe), stampata già, almeno in parte, nell’ottobre del 1454. La prima opera fornita di colophon indicante editore, luogo e data di stampa (14 ottobre 1457) è invece il famoso Salterio di Magonza, sontuoso capolavoro realizzato magistralmente in tricromia da Fust e Schöffer.
Il sacco di Magonza del 1462 mette in ginocchio la città, provocando la diaspora di molti dei prototipografi. Questo episodio accelera la diffusione della stampa in Europa, che da allora in poi sarà rapidissima. La geografia della stampa risponde a varie esigenze di carattere economico: prima fra tutte la prossimità di un congruo bacino di utenza e possibilmente di una cartiera.
Tra il 1460 e il 1470 aprono stamperie in una dozzina di località; oltre che in Germania, troviamo stampatori tedeschi anzitutto in Italia: a Subiaco, poi a Venezia e a Foligno. Nel 1470 anche a Parigi è attiva una stamperia. Nel 1480 sono presenti stamperie in oltre 110 città europee, alla fine del secolo in circa 240. La maggior parte di esse sono in Italia, dove spicca a lungo Venezia per numero di stampatori e qualità dei prodotti: la Hypnerotomachia Poliphili, stampata nel 1499 da Aldo Manuzio (1450-1515), era considerato il più bel libro del tempo.
È nel XVI secolo che l’innovazione dispiega pienamente i suoi effetti: la disponibilità di una varietà di titoli impensabile in precedenza incoraggia confronti e combinazioni stimolando il “distanziamento” critico e la creatività intellettuale; la “standardizzazione” favorisce gli scambi culturali a distanza, nella certezza dell’uniforme riferimento bibliografico; la quantità di stampati si rivela unico vero antidoto alla perdita irreparabile dei testi.
LETTURE
Il libro
Nello smascheramento delle posizioni dello stoico, Valla ha come evidente bersaglio polemico il De consolatione philosophiae di Severino Boezio, di cui il De voluptate esprime una critica esplicita ai primi quattro libri. Il De libero arbitrio rappresenta invece una polemica contro il quinto libro della stessa opera, in cui Boezio aveva offerto una singolare soluzione del rapporto tra prescienza divina e libertà dell’uomo: nell’eterno presente divino, gli atti liberi dell’uomo vengono previsti come liberi, e quelli necessari come necessari, senza nessun condizionamento da parte di Dio sulle scelte umane. A tale posizione Valla rimprovera un esagerato intellettualismo e un indebolimento, se non addirittura una negazione, della provvidenza divina. Tuttavia, il tentativo dell’umanista di salvaguardare e armonizzare i due termini del problema finisce per non conseguire apprezzabili risultati e l’annosa questione della libertà dell’uomo, data l’onniscienza divina, rimane priva di spiegazioni e giustificazioni.
LETTURE
Severino Boezio
Vol.1
Del resto, considerare la prescienza di Dio come causa non necessitante (se Dio conosce il futuro è perché lo prevede e non perché lo determina) non è una soluzione dimostrabile e pertanto Valla opta, anche in questo caso, per un ribaltamento del punto di vista: approfondire la teologia, la scienza delle cose divine che si fonda su un terreno dominato dalla sola probabilità, non ricopre in fondo alcun vantaggio per l’uomo. È sufficiente la certezza dell’utilità dell’amore e della carità. Quello di Valla è, in conclusione, un appello all’umiltà e all’accettazione del mistero; un richiamo alla religiosità intesa come esercizio della carità e della fede che non mancherà di far avvertire la propria influenza su Lutero e Calvino.