Testi

T1Niccolò Cusano La coincidenza degli opposti

L’opera, composta nel 1460, attraverso il dialogo tra Bernardo di Krayburg, cancelliere dell’arcivescovo di Salisburgo, l’abate Vigerio e un Cardinale che espone le teorie dello stesso Cusano, indaga sull’essenza di Dio. Il termine possest – composto di posse ed est – sembra il più conveniente per esprimere tale essenza, in quanto fa riferimento alla complessa natura di Dio, tale da includere in sé potenzialità e attualità. L’esempio del gioco della trottola è particolarmente efficace per indicare la coincidentia oppositorum caratterizzante il divino, che abbraccia in sé moto e immobilità, il punto e la circonferenza.

De possest

da Scritti filosofici, a cura di G. Santinello, Bologna, Zanichelli - 1965

CARDINALE: Non erra chi dice che Dio è grandezza assolutamente massima e minima ad un tempo, il che significa grandezza infinita ed indivisibile, verità e misura di ogni grandezza finita. Come potrebbe essere maggiore di qualche altra grandezza, essa che è altrettanto massima quanto minima? E come minore di qualche altra, essa, che è altrettanto minima quanto massima? E come non sarebbe l’eguaglianza dell’essere di ogni grandezza, essa che è in atto tutto ciò che può essere?

BERNARDO: Vuoi dire che Dio è tutte le cose, in modo da non poter essere diverso da come è. Ma come l’intelletto può capire ciò? […] Desideriamo esser condotti da qualche sottile immagine, e vedere soprattutto come l’eterno sia tutte le cose insieme e totalmente nella presenza dell’eternità, per poter poi abbandonare l’esempio ed elevarci al di sopra del sensibile.

CARDINALE: Proverò. Prendiamo il gioco della trottola fatto dai ragazzi, che tutti noi conosciamo per averlo anche praticato. Il ragazzo lancia la trottola e, lanciatala, nello stesso tempo la tira a sé mediante la corda legata attorno. Quanto maggiore è la forza del suo braccio, tanto più rapida gira la trottola, cosicché, quando essa si trova nel momento del massimo moto, essa sembra star ferma e quieta. Ed i ragazzi dicono che è in quiete. Descriviamo il circolo B-C che giri attorno al punto A, come se fosse la circonferenza superiore della trottola. E vi sia un altro circolo D-E. Non è vero che quanto più velocemente il circolo mobile ruota attorno a sé, tanto meno sembra muoversi? […] Ammettiamo che il poter muoversi sia in esso in atto, cioè che esso si muova in atto tanto quanto è possibile. Non apparirebbe del tutto fermo? […]

GIOVANNI: Quando il moto arrivasse alla velocità massima, i punti B e C si troverebbero nello stesso punto del tempo col punto D del circolo fermo, senza che uno dei due punti, cioè B, fosse anteriore temporalmente a C, altrimenti il moto non sarebbe massimo ed infinito; e tuttavia non avremmo moto ma quiete, perché in nessun momento del tempo quei punti si allontanerebbero dal punto fisso D.

CARDINALE: Dici bene, abate. Il moto massimo sarebbe ad un tempo anche minimo e nullo. […]

CARDINALE: I punti opposti B C non sarebbero in quel caso sempre coincidenti con D, ed anche sempre con l’opposto di D, cioè E?

GIOVANNI: Necessariamente. […]

CARDINALE: Dunque tutto il circolo, simultaneamente, anche se fosse massimo, in ogni istante coinciderebbe con il punto D, anche se questo fosse minimo. E non solo coinciderebbe coi punti D ed E, ma con ogni punto del circolo D-E.

GIOVANNI: Sarebbe così.

CARDINALE: Mediante questa immagine si può adunque vedere a sufficienza in qualche modo come, se il circolo B-C corrisponde all’eternità e quello D-E al tempo, non ripugni che l’eternità sia simultaneamente tutta in ciascun punto del tempo e che Dio, principio e fine, sia simultaneamente tutto in tutte le cose, e così via.

T2Niccolò Cusano La dotta ignoranza

Il De docta ignorantia (1440), oltre a riprendere il motivo socratico del “sapere di non sapere” declinato in una prospettiva teologica, definisce fin dal titolo la natura e i limiti del conoscere. Gli esempi tratti dalla geometria costituiscono inoltre un motivo tipico dell’argomentazione cusaniana: come un poligono inscritto in un cerchio può, moltiplicando i suoi lati, assomigliarvi progressivamente, ma mai identificarsi con esso, così l’intelletto, che “sta alla verità come il poligono al cerchio”, può solo avvicinarsi alla verità per via di congetture, ma mai del tutto attingere a essa. L’ignoranza può quindi essere “dotta”, in quanto non è rinuncia al conoscere, bensì suo esercizio inteso come infinita approssimazione al vero.

La dotta ignoranza

da Opere filosofiche, a cura di G. Federici Vescovini, Torino, UTET - 1972

L’intelletto finito non può intendere in modo preciso la verità delle cose per via di somiglianza.

La verità non è né un più né un meno, consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che esiste come diverso dal vero: così come il circolo, il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile, non può misurare il non-circolo. L’intelletto, dunque, che non è la verità, non comprende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono sta al cerchio. Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto più sarà simile al cerchio: tuttavia non sarà mai uguale, anche se avremo moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva nell’identità con il circolo.

È evidente, dunque, che non sappiamo altro del vero se non che non è comprensibile in maniera precisa, così com’è, perché la verità si comporta con la più assoluta necessità, che non può essere né più né meno di quel che è, mentre il nostro intelletto si comporta come possibilità. La quiddità1delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza ed è cercata da tutti i filosofi, ma da nessuno trovata così com’è. E quanto più profondamente saremo dotti di questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità.

1. Leggi: “l’essenza”.

T3Coluccio Salutati Elogio della vita attiva

Viene qui presentato un elogio della vita attiva incentrato sulla sua inseparabilità dalla vita contemplativa. Distinti solo su un piano logico-concettuale, i due modi di vivere sono tuttavia perennemente intrecciati nella vita reale.

Epistole

da Filosofi italiani del Quattrocento, a cura di E. Garin, Le Monnier, Firenze - 1942

Ancorché azione e contemplazione si distinguano nel discorso, sono tuttavia mescolate, né può, chi è legato alle cose del mondo eppur faccia tutto per Dio, essere privo completamente di contemplazione; né il contemplativo, se vive tuttavia da uomo, può trascurare del tutto le cose del mondo. L’uno, infatti, avendo come fine di tutte le sue azioni Dio, come può non contemplarlo continuamente di atto in atto? E il contemplativo sarà a tal punto tutto perduto in Dio da non commuoversi sulla sventura del prossimo, da non dolersi per la morte dei congiunti, da non fremere per la rovina della patria? Chi fosse così e così si mostrasse nei rapporti umani, non dovremmo stimarlo un uomo; ma un tronco, un inutile pezzo di legno, una roccia pietrosa, un durissimo sasso, e non sarebbe imitatore di quella pienezza di perfezione che è il Mediatore di Dio e degli uomini.n

T5Marsilio Ficino L’anima copula del mondo

La Theologia platonica del 1482 è una rilettura originale del neoplatonismo e costituisce al tempo stesso la più completa espressione del pensiero di Ficino. In questo brano viene affermata la centralità dell’anima, intesa nel senso della posizione intermedia che essa occupa nei cinque piani di cui si compone la realtà: il corporeo, la qualità, l’anima stessa, l’angelo e Dio.

Theologia platonica

da Marsilio Ficino, Teologia platonica, a cura di M. Schiavone, Zanichelli, Bologna - 1965

L’anima […], quantunque sia separabile dalla materia, e per questo la si definisca atto, e sia anche aliena dalla passività del corporeo, tuttavia neppur essa è ancor puro atto1, in quanto è mobile; e se qualcosa si muove, tramite il movimento raggiunge ciò di cui prima era priva, per cui, dato che era priva di qualche cosa, ciò che è mobile ha in sé quella potenza che noi definiamo suscettiva e, per così dire, passiva. Ma dato che anche muovendosi compie qualche cosa, essa è atto e, nello stesso tempo in cui acquista qualcosa, realizza anche la sua natura di atto. L’anima risulta dunque un composto di potenza e di atto. [...]

D’altra parte deve esserci un ente medio fra l’angelo e le qualità corporee, affinché l’angelo assolutamente immobile non sia in rapporto immediato con la qualità, che è assolutamente mobile. Onde l’anima deve essere in parte immobile e in parte mobile. Fissa sarà la sua sostanza, che non muterà né crescendo, né diminuendo, né trasferendosi nello spazio; mentre sarà soggetto a flusso il suo operare che attuerà ora una cosa ora un’altra, questa in un modo e quella in un altro.

La qualità, a sua volta, si trova ad un grado inferiore a quello dell’anima essendo mutevole sia sotto il rispetto dell’essenza sia sotto quello dell’operare.

Su un grado poi inferiore a quello della qualità si trova il corpo, in quanto se la qualità viene mossa e muove – dato che muove i corpi – il corpo, per contro, quantunque mosso, non muove nulla.n

T6Marsilio Ficino Il cammino verso la bellezza divina

Nel commentario al Simposio di Platone (1469) Ficino espone la sua teoria dell’amore, inteso come quello slancio che permette l’ascesa al trascendente, e un itinerario dell’anima stessa che, attraverso la contemplazione della bellezza nei suoi gradi, può elevarsi fino alla contemplazione di Dio.

Sopra lo amore ovvero Convito di Platone

da Marsilio Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a cura di G. Rensi, Carabba, Lanciano - 1914

La medesima comparazione che è fra costoro1, è ancora tra le forme loro. La forma del corpo consiste nella composizione di molte parti: è stretta dal luogo: casca per tempo.

La spezie dell’Animo patisce variazione di tempo, e contiene moltitudine di parti: ma non è da termini di luogo stretta. La spezie dello Angelo ha solo il numero senza le due altre passioni. Ma la spezie di Dio nessuna delle dette cose patisce. Tu vedi la forma del corpo: dimmi, desideri tu oltre a questo la spezie dell’Animo vedere? Leva col pensier tuo da la forma corporale quel peso della materia che sotto vi giace: leva i termini del luogo: e lasciavi il resto: e hai già la spezie dello Animo trovata. Vuoi tu ancora trovare la spezie dello Angelo? Leva oltre a questo da quella forma non solamente gli spazii locali, ma eziandio il temporale progresso: ritieni la composizione multiplice: subito l’arai trovata. Vuoi tu la Bellezza di Dio vedere? Leva oltre a questo quella multiplice composizione di forme: lasciavi la forma in tutto semplice, e subito la spezie di Dio ti fia presente. […] Adunque il fonte di tutta la Bellezza è Iddio. Iddio è il fonte di tutto lo Amore. Considera che il lume del Sole nella acqua è come ombra, a rispetto del più chiaro lume del Sole nell’aria. Lo splendore che è nell’aria, è una ombra a rispetto di quello, che è nel fuoco. Il fulgore che è nel fuoco, è ombra a la luce del Sole, che nella ruota sua riluce. La medesima comparazione è tra quelle quattro Bellezze, del Corpo, Anima, Angelo, e Dio. n

1. Ossia: Dio, angelo, anima e corpo.

T7 Pico della Mirandola La dignità dell’uomo

La libertà dell’uomo, nella celebre Oratio de hominis dignitate del 1486, si fonda sul carattere indeterminato della natura umana. La peculiarità dell’uomo è infatti quella di avere natura indefinita ma, nello stesso tempo, di avere ricevuto da Dio la capacità di autodeterminarsi. Questo lo differenzia dalle altre creature che, generate in base a un archetipo, sono già determinate e agiscono solo in base ad esso, senza poter modificare la loro natura.

De hominis dignitate

da Pico della Mirandola, De hominis dignitate, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze, - 1942

Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania1, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità.

Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. […]

Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: “non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. […] Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.