Numerosi storici della scienza, nella prima metà del XX secolo, sostengono che il Rinascimento abbia segnato una battuta d’arresto o addirittura un arretramento rispetto ai grandi progressi che gli studi di cosmologia, fisica, astronomia, matematica, ottica, medicina e biologia hanno registrato nel tardo medioevo. Secondo questi storici l’avvento dell’umanesimo ha infatti spostato l’attenzione dallo studio della natura alle belle lettere, alle arti e a una filosofia interessata prevalentemente alle tematiche etico-politiche, spesso fin troppo sensibile alle suggestioni del mito, della magia, dell’esoterismo.
Le ricerche condotte da studiosi come Marie Boas, Eugenio Garin, Paolo Rossi, Charles B. Schmitt e Cesare Vasoli hanno ormai definitivamente confutato questa tesi. Grazie a questi studiosi sappiamo oggi che il XV secolo, lungi dal rappresentare una fase di stagnazione, vede invece una vera e propria “rinascita” delle scienze. Abbiamo al tempo stesso imparato a riconoscere che il termine scientia assume in quel periodo una molteplicità di significati, che vanno approfonditi evitando ogni approccio anacronistico, tenendo ben presenti due elementi fondamentali. In primo luogo, nel XV secolo si parla di scientia per riferirsi ad attività intellettuali assai diverse fra loro anche e soprattutto a causa della pluralità di ambiti culturali, istituzionali e sociali in cui tali attività vengono praticate: le università, ma anche le botteghe degli artisti, i cantieri, i laboratori dei maghi e degli alchimisti; le scuole religiose e laiche, ma anche le corti, le accademie, le biblioteche private e i circoli umanistici. In secondo luogo, e conseguentemente, distinzioni decisive per la cultura moderna e contemporanea, come quella fra le “scienze esatte” e le “pseudoscienze”, risultano ancora del tutto inapplicabili, di modo che discipline come l’astrologia, le arti divinatorie, la fisiognomica, l’alchimia e la magia vengono ancora in genere, pur se con molte controversie, annoverate fra le “scienze”. Comunque si vogliano valutare le conquiste e i limiti della scienza di quest’età di transizione, bisogna certamente riconoscere che è impossibile parlare di “stagnazione” per un’epoca in cui Bartolomeo Diaz, Cristoforo Colombo, Vasco de Gama e tanti altri intraprendono grandi esplorazioni geografiche; in cui Georg Peuerbach e Regiomontano, scrivono le Theoricae novae planetarum, mentre Nicolò Leoniceno ed Ermolao Barbaro riempiono volumi interi per denunciare gli “errori” contenuti nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio; in cui si studia approfonditamente la Meccanica pseudoaristotelica; in cui escono a stampa i primi “manuali” di pediatria e geriatria e Alessandro Benedetti esorta i medici a frequentare i teatri anatomici di Padova; in cui, infine, Leonardo da Vinci osserva i più disparati fenomeni naturali, li analizza e li visualizza nei suoi meravigliosi disegni.
LETTURE
Viaggi, esplorazioni, scoperte
I grandi trattati di fisica, cosmologia, biologia e zoologia di Aristotele, adottati dalla metà del XIII secolo nelle università di tutta Europa come principali “manuali” per l’insegnamento, divengono la base di una naturalis philosophia o physica intesa come conoscenza delle cause dei fenomeni celesti e terrestri, che si ritengono spiegati quando possono essere ricondotti a manifestazioni della “natura” delle sostanze che li hanno prodotti. Ciò implica dapprima un processo induttivo, capace di risalire dai dati sensibili alla definizione della forma intellegibile della sostanza, persistente attraverso i cambiamenti; poi un processo deduttivo, mediante il quale si dimostra che gli effetti osservati sono attributi della sostanza definita.
Malgrado il moltiplicarsi di discussioni metodologiche sulla corretta relazione fra questi due momenti, di fatto nel loro concreto lavoro i filosofi naturali sembrano riservare ben poco spazio all’indagine empirica, per concentrarsi sullo studio, la spiegazione e la discussione critica di quei testi nei quali Aristotele aveva esposto i principi e offerto i primi elementi delle diverse branche del sapere naturale: la Fisica, che oltre a definire alcuni concetti-base (natura, materia, spazio, tempo ecc.), dava una classificazione dei vari tipi di mutamento, ne studiava le cause e le proprietà; il De caelo, il De generatione et corruptione e i Meteorologica, fonti di una cosmologia comprendente un modello astronomico geocentrico, una teoria degli elementi e un’analisi dei fenomeni superlunari e sublunari, con qualche rudimento di geografia generale; il De anima, i Parva naturalia e lo spurio De plantis, punto di partenza di ogni ricerca sugli esseri viventi, le loro funzioni e il principio che le determina, cioè l’anima; infine i trattati De animalibus, che costituivano la base di una zoologia prevalentemente descrittiva e classificatoria, ma ricca di informazioni morfologiche ed embriologiche.
La “scienza naturale” insegnata e praticata nelle università del Quattrocento – così come in quelle dei due secoli precedenti – coincide perciò con ciò che Aristotele aveva definito “filosofia naturale” e si presenta come un sapere essenzialmente teorico, non solo nel senso che era ricercato di per sé, senza alcuna finalità pratico-operativa, ma anche perché prescinde sia da un’analisi quantititativa, sia da una sistematica osservazione empirica dei fenomeni. Si tratta, insomma, di un sapere speculativo, che si serve prevalentemente di concetti qualitativi e resta sostanzialmente “libresco”. Ciò tuttavia non significa che ci si limiti a ripetere le idee di Aristotele, che vengono invece discusse, profondamente modificate e spesso criticate. È bene ricordare che, sin dal XIV secolo, rilevanti innovazioni teoriche e metodologiche erano state introdotte in almeno due ambiti.
In primo luogo alcuni maestri operanti a Parigi, come Giovanni Buridano, Alberto di Sassonia e Nicola Oresme, avevano sottoposto a una profonda revisione la spiegazione aristotelica delle cause del movimento locale elaborando la teoria dell’impetus: il motore attribuirebbe al mobile una forza (impetus) che opererebbe come una sorta di causa interna di moto perdurando fino al prevalere di forze contrarie. In secondo luogo pensatori inglesi come Walter Burley, Tommaso Bradwardine, Richard Swineshead (detto il Calculator), Guglielmo di Heytesbury – abitualmente detti mertoniani, perché legati al Merton College di Oxford – avevano creato un’originale tradizione di ricerca basata sull’uso di strumenti logici, semantici e matematici, che consentiva di analizzare in modo rigoroso i concetti di “movimento”, “istante”, “inizio”, “fine”. Nel corso del Trecento si sviluppa quindi una composita letteratura, costituita di trattati, di sophismata physicalia e di calculationes, che si serve di particolari “linguaggi di misura”: il linguaggio dei rapporti (proportiones); i linguaggi dell’infinito, del continuo e dei limiti (de primo et ultimo instanti, de maximo et minimo, de incipit et desinit); il linguaggio dell’incremento e del decremento delle qualità (de intensione et remissione formarum), espressione del tentativo di “quantificare le qualità”.
Sia la “nuova fisica” di Buridano e della “scuola parigina”, sia la tradizione “mertoniana” esercitano una costante influenza per tutto il Quattrocento e oltre. La dottrina dell’impetus viene ripresa da maestri parigini; da numerosi commentatori aristotelici tedeschi, spagnoli, polacchi; da un pensatore di orientamento platonico come Nicola Cusano; mentre alcuni dei più illustri maestri di logica, matematica e filosofia naturale delle università italiane, come Pietro da Mantova, Giovanni Marliani, Apollinare Offredi, Oliviero da Siena e Nicoletto Vernia, compongono trattati de primo et ultimo instanti, de maximo et minimo, de incipit et desinit e de intensione et remissione formarum. In effetti, malgrado molti umanisti abbiano sviluppato una virulenta polemica contro il tecnicismo della scienza tardomedievale, e in particolare contro i metodi dei “mertoniani”, elevati a simbolo delle degenerazioni culturali e linguistiche introdotte dei “barbari Britanni”, proprio le calculationes divengono di gran moda, sono introdotte nei programmi di studio e vengono applicate non solo in ambito fisico, ma anche medico: emblematico qui il caso del senese Bernardo Torni, che si serve delle regole “mertoniane” di proporzionalità per discutere una questione strettamente terapeutica come quella della validità dei salassi nella fase acuta di una malattia.
Ostili alle calculationes – che tuttavia conoscono un declino solo intorno alla metà del XVI secolo – gli umanisti non limitano affatto i loro interessi alle humanae litterae, alle belle arti, alla retorica e alla filosofia morale e politica. La loro passione per i classici greci e latini, la volontà di recuperare l’intera eredità della cultura antica li porta a riscoprire, editare, tradurre e diffondere non solo opere poetiche, letterarie, storiche e filosofiche, ma anche i testi più importanti della scienza greca. Due figure sono emblematiche in proposito.
La prima è quella di Nicolò Perotti, segretario e amico di Giovanni Bessarione, autore delle Cornucopiae. Sotto forma di un commentario a Marziale, questo scritto, redatto a partire dal 1478, edito nel 1489 e poi ristampato oltre 20 volte, è in realtà un dizionario di latino classico e al contempo un repertorio di idee, comprendente informazioni filosofiche, naturalistiche e mediche. Intenti enciclopedici ben più marcati e consapevoli ha Giorgio Valla. Dotato di un’ottima conoscenza del greco e di una buona formazione logica e matematica, nel 1498 egli dà alle stampe una raccolta di traduzioni dal greco veramente notevole: accanto a importanti scritti aristotelici – fra cui spicca la Poetica – vi compaiono opere di Euclide, Proclo, Galeno e, per la prima volta, di Aristarco di Samo. A queste e altre fonti Giorgio Valla attinge nello stendere il suo capolavoro, il De expetendis et fugiendis rebus, pubblicato postumo nel 1501: un’opera monumentale che presenta, disciplina per disciplina, l’intero sapere umano, soffermandosi in particolare sul quadrivio (aritmetica, musica, geometria e astronomia), sulla fisica e sulla medicina.
Lo sforzo umanistico di rimpadronirsi dell’eredità della scienza antica è fondamentale in ogni campo. In astronomia la sopra menzionata riscoperta di Aristarco di Samo apre prospettive nuove, le cui potenzialità risultano chiare ben più tardi, con Copernico e Galileo, mentre le edizioni di Euclide, Archimede ed Erone consentono importanti sviluppi della matematica. Così se uno dei più grandi matematici italiani del periodo, Luca Pacioli, si limita a offrire nella sua Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita (1494) una sintesi, peraltro utilissima, di nozioni aritmetiche, algebriche e geomeriche di ascendenza medievale, Nicolas Chuquet dà nel Triparty en la science des nombres (1484) un’importante trattazione dell’algebra che, servendosi di un’eccellente notazione, affronta problemi numerici, equazioni e calcoli assai complessi. Georg Peuerbach e Regiomontano sviluppano invece la trigonometria piana e sferica, facendone un’autonoma branca della geometria. Dotati di una solida preparazione umanistica, questi autori passano però alla storia per il loro lavoro di astronomi. Le Theoricae novae planetarum – terminate da Peuerbach nel 1454, ma completate e pubblicate da Regiomontano solo nel 1472 – annunciano fin dal titolo la volontà di superare e rimpiazzare la Theorica planetarum attribuita a Gerardo da Cremona.
La Geografia di Claudio Tolomeo, pressoché ignota ai medievali e riscoperta da Palla Strozzi e dal circolo di umanisti fiorentini discepoli di Manuele Crisolora, gioca un ruolo decisivo nel diffondere la pratica di disegnare carte su una rete di paralleli e meridiani. Non c’è bisogno di sottolineare quanto la necessità di una precisa cartografia terrestre sia sentita nel secolo dei grandi viaggi e delle scoperte geografiche. Vale invece la pena di ricordare che, fin dalle prime edizioni, le mappe che accompagnano i manoscritti dell’opera di Tolomeo vengono integrate con “nuove tavole” che includono le regioni a lui ignote, come la Scandinavia e la Groenlandia. Questo processo di aggiornamento e revisione si fa sempre più rapido, via via che i racconti dei mercanti e dei viaggiatori, nonché i resoconti degli esploratori, recano inattese informazioni su Paesi e su interi continenti prima sconosciuti.
Analoghi progressi si riscontrano in medicina, farmacologia e botanica, che sono profondamente trasformate dalle più complete e affidabili traduzioni di Ippocrate e Galeno, dalla riscoperta di Celso, dal rinnovato interesse per Teofrasto e Dioscoride. Discorso a sé merita poi la fortuna di Plinio il Vecchio. L’attrattiva che quest’opera esercita nel Quattrocento dà tuttavia origine a una crisi di rigetto. Il De Plinii et plurium aliorum in medicina erroribus di Niccolò Leoniceno (1492) e le Castigationes plinianae di Ermolao Barbaro sono i testimoni più celebri e impegnati di una vera moda culturale: denunciare gli “errori”, veri o presunti, commessi dal dotto latino nell’interpretare dati e fonti, quindi nell’identificare animali, piante, malattie e medicamenti. Non va tuttavia dimenticato che malgrado questi attacchi Plinio rimane molto popolare, specie nell’Europa centrale ove fin dai primi decenni del secolo XVI alcuni luterani pensano di utilizzare la sua opera al posto di quelle di Aristotele per l’insegnamento nelle facoltà delle Arti.
Tanto le revisioni delle mappe annesse alla Geografia di Tolomeo quanto le controversie sui meriti e i demeriti di Plinio illustrano comunque in modo esemplare come il recupero della scienza antica non si sia affatto esaurito in un esercizio filologico ed editoriale, né in una dogmatica ripetizione di conoscenze già acquisite e considerate definitive. Lungi dal seguire il mito classicista dell’imitatio, del puro e semplice culto degli antichi, quanti si propongono di diffondere le fonti del pensiero scientifico occidentale sono guidati dall’ideale dell’aemulatio, di un fecondo confronto che consenta di eguagliare e, quando necessario, di superare i modelli del passato. La funzione critica dello studioso non si esaurisce quindi nella restituzione di un testo filologicamente corretto. Diversamente dalle opere letterarie, quelle di argomento scientifico impongono di vagliare la verità delle informazioni che si rimettono in circolazione: per limitarsi a un esempio, le correzioni di Niccolò Leoniceno della Naturalis historia di Plinio nascevano dall’esplicita consapevolezza che confondere un’erba medica con un’altra poteva avere serie conseguenze terapeutiche. Lo studio dei libri antichi rimanda perciò allo studio del libro della natura e da questo confronto nascono nuovi interrogativi, nuovi problemi, nuove prospettive di ricerca.
L’invenzione della stampa porta con sé profondissime trasformazioni culturali, che investono anche le discipline scientifiche. Entro il 1500 vengono infatti pubblicati e diffusi in centinaia, talvolta (come nel caso di Plinio) in diverse migliaia di copie molti “classici del pensiero scientifico”, i maggiori documenti della scienza medievale (molti dei più importanti commenti alle opere aristoteliche di filosofia naturale, i principali scritti dei “mertoniani”), numerosi trattati e manuali di fisica, cosmologia, matematica, geografia, medicina.
Un ruolo pionieristico nella diffusione del libro scientifico fu svolto dal sopracitato Regiomontano. Rientrato a Norimberga dopo un lungo soggiorno a Roma al servizio del cardinale Bessarione, Regiomontano impianta nella sua casa una stamperia specializzata in testi di matematica e astronomia, che precedentemente nessuno aveva avuto il coraggio di produrre a causa delle difficoltà tecniche e degli alti costi derivanti dall’uso di simboli, figure e diagrammi. Il suo esempio viene ben presto seguito da altri, che comprendono come l’editoria matematica, e scientifica in genere, oltre a svolgere un’essenziale funzione culturale possa conquistarsi un suo spazio di mercato.
Le discipline matematiche vengono fatte oggetto di una crescente attenzione, non solo da parte degli specialisti, ma anche di un pubblico più vasto, fatto di mercanti e di banchieri, che con il raffinarsi delle tecniche commerciali e finanziarie, hanno sempre più bisogno di disporre di un’adeguata preparazione aritmetica; di navigatori che, con l’aiuto degli astronomi, perfezionano metodi per trovare la latitudine determinando l’altezza del Sole sopra l’orizzonte; di architetti, ingegneri e “artigiani superiori” che, nel progettare fortificazioni e macchine militari, miniere e canali di irrigazione, orologi e strumenti nautici, affrontano con metodi matematici problemi statici, balistici o idraulici di crescente complessità; di pittori, costretti ad approfondire le leggi dell’ottica e i principi della geometria per sviluppare la tecnica della prospettiva. Ciò rimanda a un fenomeno più vasto, ossia la feconda circolazione di idee realizzatasi dal Quattrocento fra filosofi naturali, artisti e tecnici.
Le cause di questo fenomeno sono sia culturali sia sociologiche. Fra le prime è essenziale ricordare gli ideali umanistici della vita attiva e dell’impegno civile, che facilitano il riconoscimento di una dignità teorica a quelle attività (le “arti meccaniche”) che la cultura medievale ha spesso considerato vili e indegne di un uomo libero e colto. Fra le seconde, spicca il ruolo assunto da figure nuove, prive della tradizionale formazione universitaria, ma mosse da un’insaziabile curiosità. In effetti nel corso del Quattrocento entrano in scena, accanto e talora contro le università, nuovi centri di ricerca e di insegnamento (le corti, le biblioteche, i circoli umanistici, le botteghe degli artigiani e degli artisti), frequentate da uomini spesso privi di titoli accademici, ma capaci di coniugare competenze intellettuali e abilità manuali, di muoversi con invidiabile disinvoltura nei campi più disparati. Così Filippo Brunelleschi, celebre come architetto, è anche ingegnere, idraulico e matematico; Leon Battista Alberti, moralista e fine prosatore latino, scrive di architettura, urbanistica e topografia, oltre a inventare vari strumenti di misura; Paolo dal Pozzo Toscanelli, astronomo e matematico di valore, esercita la medicina e si occupa di geografia e cartografia.
Simbolo della straordinaria versatilità degli studiosi del Rinascimento è, indiscutibilmente, Leonardo da Vinci. Qui egli ci interessa solo in quanto offre una testimonianza unica dell’emergere, nel corso del Quattrocento, di una nuova concezione del sapere, che rimette in questione la distinzione – abbastanza netta nella cultura medievale – fra “scienza” e “arte”; rifiuta di contrapporre la contemplazione disinteressata del vero alla ricerca dell’utile; combatte ogni forma di dogmatismo, ogni culto delle “autorità”, ogni concezione elitaria ed esoterica della conoscenza. Nelle migliaia di fogli che, in un inestricabile groviglio di disegni, calcoli e annotazioni verbali, documentano il costante, pur frammentario impegno di Leonardo nell’approfondire i fenomeni naturali, ritornano infatti alcuni motivi che, adeguatamente rielaborati, costituiscono alcune delle principali parole d’ordine di coloro che, nel XVII secolo, avrebbero gettato le fondamenta della scienza moderna: la fiducia nella possibilità di spiegare i fenomeni fisici in termini puramente razionali, senza alcun ricorso a interventi magici o soprannaturali; l’idea che la natura sia un sistema ordinato e inesorabile di cause, che “non rompe sua legge” ma segue una “mirabile necessità”; la polemica contro “chi disputa allegando l’autorità”, e “non adopra lo ’ngegno, ma più tosto la memoria”; la tesi che gli “omini inventori” contribuiscono al progresso delle conoscenze ben più dei “trombetti e recitatori delle altrui opere”; infine l’esigenza di coniugare ragione ed esperienza, osservazione e riflessione teorica. Certo sarebbe anacronistico vedere “precorrimenti” del metodo galileiano nella tesi di Leonardo, largamente diffusa già nella cultura medievale, secondo cui “nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienzie matematiche”; è però difficile non cogliere la modernità della sua insistenza sul ruolo degli strumenti di misura, sull’utilità euristica dei modelli artificiali, sull’idea che solo i risultati degli esperimenti, ripetuti per scongiurare errori soggettivi, sia in grado di porre “silenzio alla lingua de’ litiganti”.