Il brano che segue è un esempio classico dell’approccio disincantato di Machiavelli alla politica. L’uomo combatte usando le leggi e la forza, prerogativa, quest’ultima, del mondo animale. Ciò richiede che l’uomo politico si renda a sua volta un po’ animale, imitandone i comportamenti. In particolare, egli deve saper alternare e dosare la forza del leone e l’astuzia della volpe. È soprattutto l’astuzia a suggerire al principe di manifestare cinque principali qualità morali: pietà, fedeltà, umanità, integrità, religiosità, senza che questo comporti la necessità di agire in conformità a esse.
Il Principe, XVIII
da Niccolò Machiavelli, Il Principe e le opere politiche, Garzanti, Milano - 1976
Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede1, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere il secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire2 a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.
1. Leggi: “mantenere la parola”.
2. Leggi: “allevati, educati”. Il centauro, essere mitologico per metà uomo e per metà cavallo, diventa l’emblema della necessità per il Principe di avere comportamenti sia umani che violentemente animali.
Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam3 non l’hai ad osservare a loro. […] Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. […]
A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità4, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.
Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione.
3. Leggi: “anche tu”.
4. Ossia: pietà, fedeltà, umanità, integrità, religiosità.
Nei Sei libri dello Stato (1576) viene presentata da Bodin la celebre definizione di sovranità, intesa come quella facoltà di emanare delle leggi senza essere sottoposti a esse. Tale prerogativa è indivisibile e non può essere limitata né spartita – proprio in quanto chi è sovrano, per definizione, non può essere a sua volta governato –, e non può, pertanto, che essere attribuita a una sola persona. Sovranità, tuttavia, non coincide con il puro arbitrio: il sovrano, infatti, non è in grado di porsi al di sopra delle leggi di natura né può violare le leggi di Dio, da cui egli stesso ha ricevuto il potere che esercita.
I sei libri dello Stato
da Jean Bodin, I sei libri dello Stato, UTET, Torino - 1984
Chi è sovrano […] non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi, e cancellare o annullare le parole inutili in essa per sostituirne altre, cosa che non può fare chi è soggetto alle leggi o a persone che esercitino potere su di lui. Per questo la legge dice che il principe non è soggetto all’autorità delle leggi: e anche in latino la parola legge significa il comando di chi ha il potere sovrano. [...] Come il papa, secondo i canonisti, non può mai legarsi le mani, così non può legarsele il principe sovrano, neanche se lo voglia. Perciò alla fine degli editti e delle ordinanze vediamo le parole “poiché tale è il nostro piacere”, perché sia chiaro che le leggi del principe sovrano, siano pure fondate in motivi validi e concreti, non dipendono che dalla sua libera volontà.
Quanto però alle leggi naturali e divine, tutti i principi della terra vi sono soggetti, né è in loro potere trasgredirle, se non vogliono rendersi colpevoli di lesa maestà divina, mettendosi in guerra contro quel Dio alla cui maestà tutti i prìncipi della terra devono sottostare chinando la testa con assoluto timore e piena reverenza. Insomma, il potere assoluto dei principi e delle signorie sovrane non si estende in alcun modo alle leggi di Dio e della natura. Colui5 che ha meglio di altro compreso che cosa sia potere assoluto e che ha fatto inchinare al suo e principi e sovrani, diceva ch’essa consiste nella facoltà di derogare alle leggi ordinarie: non certo però alle leggi divine e naturali.
5. Papa Innocenzo IV.
Utopia, l’opera composta nel 1516 in forma di dialogo tra Moro stesso e il viaggiatore Itlodeo, espone una visione dell’“ottima repubblica”, nella quale ogni forma di conflittualità è esclusa grazie alla possibilità di ciascuno di poter godere di quanto necessario alla propria vita.
Utopia
da Tommaso Moro, L’Utopia o la migliore forma di repubblica, Laterza, Roma-Bari - 1993
Ma torniamo alla vita in comune dei cittadini. Come ho già detto, il più anziano è a capo della famiglia e servono le mogli ai mariti e i figli ai genitori e in tutto i minori ai più grandi. Ogni città è divisa in quattro parti eguali, e al centro di ogni parte c’è mercato di tutte le cose; quivi, in determinati locali si portano i prodotti di lavoro di ogni famiglia e nei magazzini vengono ripartite separatamente le varie specie di prodotti.
Da qui attinge qualsiasi padre di famiglia tutto ciò di cui lui o i suoi abbisognano e, senza danaro, senza prestazione alcuna, ottiene tutto ciò che chiede. E per qual motivo gli si dovrebbe rifiutare qualcosa, quando c’è abbondanza di tutto non solo, ma non c’è paura che qualcuno chieda più del bisogno? E perché supporre che possa chiedere il superfluo chi è sicuro che non gli mancherà mai nulla? È la paura di venir a mancare, evidentemente, che rende bramosi e rapaci, e ciò è dei viventi di ogni sorta, mentre, fra gli uomini, ciò è prodotto soltanto dall’orgoglio tirannico, che mette la propria vanagloria nel superare gli altri ostentando il superfluo. Ma nelle istituzioni degli Utopiani non c’è posto alcuno nemmeno per l’ombra di tale colpa.
Si riporta qui la discussione di Erasmo delle posizioni luterane circa il libero arbitrio. Il grande umanista assume una posizione che tenta di conciliare grazia e libertà: l’uomo è come un bambino che potrà camminare sulle sue gambe solo se inizialmente retto in piedi dal genitore. La grazia è la causa originaria che, posta all’inizio dell’azione umana, la rende possibile, mentre liberi sono lo sviluppo e il compimento dell’azione stessa.
Saggio o discussione sul libero arbitrio
da Erasmo da Rotterdam, Martin Lutero, Libero arbitrio, Servo arbitrio: passi scelti, a cura di F. De Michelis Pintacuda, Torino, Claudiana - 2004
A mio avviso si poteva benissimo riconoscere l’esistenza del libero arbitrio pur evitando quella fiducia eccessiva nei nostri meriti […]. Ciò è rappresentato, ai miei occhi, da quella dottrina1che attribuisce alla grazia il primo impulso che viene a eccitare l’anima, pur lasciando alla volontà umana una certa responsabilità nello svolgimento dell’azione e sempre con l’aiuto della grazia divina. Ora, siccome nell’azione umana ci sono tre parti: l’inizio, lo sviluppo, e il compimento, essi concedono alla grazia i due estremi momenti e non fanno intervenire il libero arbitrio che nel momento dello sviluppo.
1. È una dottrina che Erasmo ricava dalla lettura delle Sacre Scritture, in cui passi incentrati sul primato della Grazia si alternano ad altri in cui emerge una visione della capacità dell’uomo di scegliere tra il bene e il male.
Così due cause concorrono alla stessa azione, cioè la grazia divina e la volontà umana; ma la grazia è la causa principale, la volontà è la causa secondaria che non può nulla senza la principale mentre questa, cioè la grazia, è autosufficiente; così come il fuoco brucia per virtù sua naturale, benché Dio sia la causa essenziale che sottintende l’azione del fuoco e senza la quale il fuoco perderebbe tutta la sua efficacia se essa venisse a mancargli.
Si vede pertanto come, in virtù di questo accordo, l’uomo dovrebbe fare omaggio intero della sua salvezza alla grazia divina, dato che la parte che è riservata al libero arbitrio è sì poca cosa e per di più esso trae ancora la sua origine dalla stessa grazia di Dio che ha, tanto per cominciare, creato il libero arbitrio, prima ancora di liberarlo e guarirlo.
Lo scritto, composto nel 1520, esprime in 30 articoli la concezione di Lutero. Negatore del libero arbitrio, egli poggia la sua tesi non tanto su motivi antropologici o naturalistici, quanto sui testi evangelici e in particolare sull’opera di san Paolo, per evidenziare il primato esclusivo della fede sulle opere. È dalla sola fede, infatti, dono della grazia divina già espressasi nella rivelazione delle Scritture, che può sopraggiungere la salvezza dell’uomo.
Della libertà del cristiano
da Martin Lutero, Scritti politici, vol. 1, UTET, Torino - 1959
Dopo che l’uomo ha appreso e sentito per mezzo dei comandamenti la sua impotenza, viene colto dall’angoscia pensando come adempiere bastevolmente ad essi; essi infatti debbono venire adempiuti: diversamente egli sarà dannato; egli allora è fieramente sconfortato ed è divenuto un niente ai propri occhi, perché nulla trova in sé per cui farsi pio. È allora che subentra l’altra Parola, la promessa divina, e dice: se vuoi adempiere ai comandamenti ed esser libero dai desideri malvagi e dal peccato, come impongono ed esigono i comandamenti, ecco, credi in Cristo, nel quale io ti prometto ogni grazia, giustizia, pace e libertà, e se credi le otterrai, e se non credi non le otterrai. Ciò che non ti è concesso con tutte le opere della legge, che sono molte e tuttavia a nulla ti giovano, ti sarà invece facile ed immediato con la fede. Infatti io ho riposto tutto nella fede, cosicché chi la possiede possiederà tutte le cose e sarà beato, ma chi non la possiede non avrà niente. Dunque la promessa divina concede tutto ciò che i comandamenti esigono, e adempie a ciò che in essi è scritto, perché ambedue provengono da Dio, e comandamento e esecuzione, ed Egli solo può comandare, ed Egli solo può adempiere. Per questo la promessa di Dio è la Parola del Nuovo Testamento e ad esso appartiene.
[...] Vediamo dunque che per un cristiano è sufficiente la fede e non necessitano più le opere buone per essere pio; e se non abbisogna più di buone opere è senza dubbio dispensato e sciolto da tutti i comandamenti e le leggi; e se ne è sciolto, egli è libero. Questa è dunque la libertà del cristiano, la nostra fede, la quale fa non che viviamo oziosi o commettiamo il male, bensì che non abbisognamo di buone opere per raggiungere la pietà e la beatitudine.
Montaigne prende le distanze da ogni intento formativo o educativo verso l’uomo proponendo come unico approccio possibile quello descrittivo. Ma anche la descrizione non è esente da problemi, perché dell’uomo è possibile offrire solo una descrizione imprecisa e provvisoria. Tutta quanta la realtà è infatti mutamento e transizione incessante. Un discorso può aspirare a una pretesa di verità solo accettando di poter parlare di cose singolari e assumendosi il rischio della contraddizione.
Del pentirsi
da Michel de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano - 1996
Gli altri formano l’uomo; io lo descrivo, e ne presento un esemplare assai mal formato, e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è. Ma ormai è fatto. Ora, i segni della mia pittura sono sempre fedeli, benché cambino e varino. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e per il movimento generale e per il loro proprio. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole.
Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com’è, nell’istante in cui m’interesso a lui. Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da una età all’altra o, come dice il popolo, di sette in sette anni, ma di giorno in giorno, di minuto in minuto. Bisogna che adatti la mia descrizione al momento. Potrei cambiare da un momento all’altro, non solo per caso, ma anche per intenzione. È una registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie: sia che io stesso sia diverso, sia che io colga gli oggetti secondo altri aspetti e considerazioni. Tant’è che forse mi contraddico, ma la verità, come diceva Demade1, non la contraddico mai. Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei2; essa è sempre in tirocinio e in prova.
1. Personaggio citato da Plutarco nella Vita di Demostene, affermava di essersi spesso contraddetto, ma mai a svantaggio dello Stato.
2. Ossia: non continuerei ad analizzarmi e a pormi domande, perché sarei in una posizione stabile.
Il breve testo che segue è tratto dal Commentariolus, un sommario del più celebre De revolutionibus orbium coelestium. Vi sono contenuti i fondamenti del nuovo sistema astronomico elaborato da Copernico, nella forma di sette postulati. Il principio di fondo è l’assunzione dell’uniformità e circolarità dei moti celesti, a partire dal presupposto, che Copernico condivide con l’astronomia antica, della perfezione del mondo celeste.
Commentariolus, Abbozzo sommario delle ipotesi sui movimenti celesti
da Niccolò Copernico, Opere, a cura di Francesco Barone, UTET, Torino - 1979
Io vedo che i nostri avi hanno ammesso un gran numero di sfere celesti, soprattutto per salvare, secondo il principio di uniformità, i moti apparenti degli astri. Sembrava loro, infatti, oltremodo assurdo che un corpo celeste assolutamente rotondo non si muovesse sempre uniformemente. Ma essi si erano resi conto che poteva capitare che anche per composizione ed unione di movimenti regolari un corpo può sembrare muoversi in qualche direzione. E ciò Callippo ed Eudosso non poterono risolvere, usando i circoli concentrici, né poterono con essi rendere conto di tutti i fenomeni del movimento degli astri erranti, non solo di quelli che riguardano le loro rivoluzioni, ma anche del fatto che essi ci sembrano ora salire in alto, ora scendere, cosa non spiegabile col sistema concentrico. Perciò migliore idea sembrò quella di spiegare tutto ciò con eccentrici ed epicicli e in questo furono finalmente d’accordo la maggior parte degli studiosi.
Tuttavia, ciò che da Tolomeo e da molti altri qua e là su tali questioni fu tramandato, sebbene fosse matematicamente accettabile, non sembrava per questo non dare origine a dubbi e difficoltà. Questo sistema infatti non bastava e bisognava che sì immaginassero anche alcuni circoli equanti, con i quali però appariva che il pianeta non si muoveva di moto uniforme, né sulla sua sfera deferente, né intomo al suo centro. Per cui una tale spiegazione non pareva sufficientemente compiuta né sufficientemente conforme ad un criterio razionale. Essendomi pertanto reso conto di questo, andavo spesso meditando se per caso non si potesse trovare un più razionale sistema di circoli con i quali fosse possibile spiegare ogni diversità apparente; circoli, s’intende, mossi tutti in sé stessi con moto uniforme, come richiede la regola del movimento assoluto. E dopo aver affrontato un problema certo molto difficile e quasi insolubile, mi venne in mente, infine, il modo in cui esso poteva essere risolto con mezzi meno numerosi e più convenienti dei precedenti, purché venissero ammesse alcune assunzioni o, come anche le chiamano, assiomi, che sono nell’ordine, le seguenti:
Primo postulato: Non c’è un solo centro di tutti i circoli o sfere celesti.
Secondo postulato: Il centro della terra non è il centro del mondo, ma solo il centro della gravità e della sfera lunare.
Terzo postulato: Tutte le sfere ruotano attorno al sole, che quindi è in mezzo a tutte; perciò il sole è il centro del mondo.
Quarto postulato: Il rapporto della distanza tra il sole e la terra con l’altezza del firmamento, è tanto più piccolo di quello tra il raggio della terra e la distanza di questa dal sole, che, nei confronti dell’altezza del firmamento, tale distanza è impercettibile.
Quinto postulato: Qualsiasi movimento appaia nel firmamento non appartiene ad esso, ma alla terra. Pertanto la terra, con gli elementi contigui, compie in un moto diurno un intero giro attorno ai suoi poli fissi, mentre il firmamento resta immobile, inalterato con l’ultimo cielo.
Sesto postulato: Qualunque movimento ci appaia del sole, non appartiene ad esso, ma dipende dalla terra e dalla nostra sfera, insieme alla quale noi ruotiamo intorno al sole come qualsiasi altro pianeta, e così la terra compie più movimenti.
Settimo postulato: Per i pianeti appare un moto retrogrado e un moto diretto; ciò in realtà non dipende da loro, ma dalla terra; pertanto, il moto di questa sola basta a spiegare tante irregolarità celesti.
Premesse così tali cose, tenterò dunque di mostrare brevemente come si possa salvare l’uniformità dei movimenti in una maniera ordinata. [...] Nella spiegazione dei circoli, esporremo qui le misure dei raggi delle sfere, dalle quali chi non sia del tutto digiuno di matematica capirà facilmente quanto tale sistema di circoli corrisponda sia ai dati numerici dei calcoli sia alle osservazioni. Si accetti perciò anche questa prova di grande importanza nella mia spiegazione dei circoli, affinchè non si creda che io, assieme ai pitagorici, abbia asserito a caso la mobilità della terra.