LETTURE
Dalla verità assoluta ai gradi della certezza
Il De inventione dialectica (1479) di Rudolf Agricola è un trattato sul metodo che supera la logica nominalistica scolastica nella direzione di Platone, Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Boezio e Francesco Petrarca. Agricola costituisce un metodo universale che è diverso dal pluralismo metodico di Aristotele ed è metodo di tutte le scienze. La grammatica e la retorica le sono, infatti, sottoposte. La celebre definizione che Agricola dà della dialettica in quanto ars probabiliter de qualibet re proposita disserendi ne fa una disciplina formale. Infatti, la dialettica non dipende da nessun tipo di oggetti; è valida per tutte le arti e le scienze. Il probabiliter per Agricola equivale a “persuasivamente”. Visto che la dialettica insegna il metodo di argomentare ovvero (il che è lo stesso) di discorrere probabilmente, “i suoi limiti sembrano essere pari a tutto ciò di cui si può discutere con ragione e metodo”. Inoltre, la dialettica non sembra presupporre alcuna materia predefinita, ma “dà solo le armi con le quali veniamo preparati e istruiti per tutte le sfide”. In quanto strumento per l’invenzione di temi da proporre alla discussione, la dialettica è dunque la più importante delle arti e serve alla chiarificazione dei principi di tutte le conoscenze; è propedeutica formale, dottrina della scienza. La stessa inventio può essere formalizzata. In quanto indaga l’origine dei loci di tutte le scienze, la logica, la genuina inventio dialectica, stabilisce un sistema di riferimento per ciascun contenuto particolare e realizza la corrispondenza tra ciò che è isolato e ciò che è comune in forza di similitudini, poiché il pensiero deve poggiare su delle similitudines, se non vuole soccombere a fronte della pluralità delle cose individuali.
Il filosofo che la posterità riconobbe come l’artifex methodi, non fu però Agricola, ma Philipp Melanchthon, noto anche con il nome italianizzato Melantone (1497-1560), che nel De philosophia (1536) esigeva da studenti e studiosi che prendessero l’abitudine “di collegare tutto al metodo”; e negli Erotemata dialectices (1547) definiva il metodo, appunto, come una disposizione della parte intellettuale dell’anima che può essere predicata di un soggetto secondo l’“avere”, che è una delle dieci categorie di Aristotele. Il metodo è dunque “abito, ovvero scienza, o arte che apre una via per mezzo di certe ragioni attraverso una regione inaccessibile, che è coperta da ciottoli, con confusione di oggetti, che trova e mette ordine nelle questioni proposte”, formulazione che si basa sulla celebre definizione di sistema data da Zenone di Cizio, come comprensione di conoscenze saldissime da esercitare per un fine utile nella vita.
Le arti e le scienze si apprendono per natura, doctrina, exercitatione, recita la formula d’ispirazione platonica (Fedro, 268d) con la quale il Rinascimento affronta la questione. L’abito, chiarisce Aristotele, è una disposizione per certe azioni e passioni che possono essere proprie a un individuo, e allora l’abito è héxis (basato sul carattere e le attitudini), o a una collettività, e allora l’abito è éthos (basato sugli usi e i costumi). La capacità acquisita attraverso gli abiti è un possesso (l’incapacità una privazione) che risulta dalla ripetizione e dall’esercizio di azioni individuali, ovvero dall’esperienza e dalla pratica (Etica Nicomachea II, 1).
Pierre de la Ramée riprese il discorso sul metodo e gli abiti dove l’aveva lasciato Melantone. Obiettivo di la Ramée, nei quattordici libri delle sue Scholae Metaphysicae (1566), è rinnovare la logica di Aristotele muovendo dalla teoria platonica delle idee. Se per Platone le idee risiedono fuori della mente, per Aristotele, secondo la Ramée, le idee sarebbero solo specie e generi concepiti dalla mente e nell’anima. Il che però è una cosa parecchio curiosa, poiché “l’intelletto non solo è comune all’intero della logica, non solo alle categorie, ma anche a tutte le cose, a tutti i nomi”. Alla definizione aristotelica di metafisica come la scienza che contempla l’essere in quanto essere e i suoi aggiunti, la Ramée replica che questa definizione è più che imperfetta, poiché Aristotele ha definito la sapienza nel primo libro della Metaphysica come la scienza della cause prime, la quale, tuttavia, si completa non solo di cause, ma anche di aggiunti, che però non sono mai abbastanza completi, poiché di questa scienza vi sono molte altre cose relative alla proposizione, al sillogismo e al metodo. Del resto, la Ramée non vuole una metafisica, poiché la sua logica è già metafisica. In verità, se la Ramée da una parte sostiene il riferimento reale della logica e pertanto anche della metafisica, dall’altra è anche tra i primi a riconoscere alla mente umana il compito di tematizzare il dominio al quale fa riferimento e le condizioni operative a esso corrispondenti.
ESERCIZIO
E9: Filosofia e Riforma protestante
Contro la Ramée, ma senza citarlo direttamente, nell’Opera logica (1578) Jacopo Zabarella ribadiva che la logica, la disciplina secondo la quale nessuna parte della filosofia potrebbe essere costruita, risiede nella mente umana in quanto abito strumentale funzionale all’acquisizione della parte teoretica di tutte le altre discipline e che però anche scompare o viene identificata con le scienze individuali una volta che la si applichi ai vari tipi di sapere. Zabarella considera il methodus l’espressione più squisita dell’idea aristotelica di scienza e dice questo mostrando al contempo la vuotezza del semplice ordo espositivo. Zabarella sottolinea il carattere strumentale della logica e del metodo e rifiuta di legarli per il tramite di una relazione quale che sia alla natura rerum. Aristotelico più che ortodosso, Zabarella è più attento alla logica e alla filosofia naturale, mentre aristotelici più eclettici come Melanchthon e Francesco Piccolomini (che di Zabarella fu acerrimo avversario allo studio patavino), erano pronti a far conto sullo status extramentale delle idee per quanto riguarda i fondamenti della logica e della semantica, con gli effetti che questo poteva avere per l’etica e la vita civile – effetti dei quali si occupa ampiamente Piccolomini nei dieci libri De universa philosophia de moribus (1584). Nel De methodis (1578), Zabarella polemizzava contro la logica umanistica e però anche contro le proposte dei suoi colleghi medici, i quali, ignorantissimi di logica, preferivano che gli studenti si limitassero a conoscere la tavola del metodo enunciata da Galeno nella Isagoge premessa alla Ars parva, riedita con grande successo nell’edizione della Ars medicinalis curata da Nicolò Leoniceno, a sua volta propugnatore dell’indipendenza del metodo dalla dottrina aristotelica della dimostrazione. Nel De tribus methodis ordinatis (1508), Leoniceno presentava come metodi l’analisi galenica (doctrina resolutiva), la sintesi aristotelica (doctrina compositiva) e la platonica definizione (doctrina definitiva), ma aggiungeva una quarta via, comprensiva delle prime tre, il metodo, appunto, la doctrina ordinata, nella quale andava però distinto il modus doctrinalis, in quanto metodo per la soluzione di problemi particolari, dall’ordo doctrinae come ordine complessivo della scienza stessa.
Per Zabarella, l’ordo è l’ordine delle varie parti di una disciplina e definisce uno stadio preparatorio in quanto lavora su delle cognizioni già acquisite per sistematizzarle in accordo con le più alte capacità di comprensione della nostra anima. Il methodus invece è lo strumento logico per eccellenza, quello attraverso il quale la mente passa da asserzioni note all’inferenza necessaria di asserzioni nuove sulla base delle regole di derivazione ovvero del nesso logico che lega le conclusioni alle premesse e così aumenta il sapere. Zabarella osserva pertanto che il “metodo si distingue così dall’ordine in quanto deve necessariamente avere una forza deduttiva per mezzo della quale noi possiamo connettere qualcosa ad altre cose secondo una relazione necessaria” (De meth. II, 1). Il metodo coincide dunque con lo stesso sillogismo, con la differenza, tuttavia, che mentre il sillogismo abbraccia anche le argomentazioni dialettiche e persino quelle sofistiche, il metodo designa unicamente la dimostrazione scientifica apodittica della quale Aristotele tratta negli Analytica Posteriora. Inoltre, il metodo può essere impostato solo per due direzioni: o parte dagli effetti per salire alla causa, come nella demonstratio quia, oppure parte dalla causa per spiegare gli effetti, come nella demonstratio propter quid. Zabarella rifiuta con decisione i tentativi di conferire dignità metodica agli argomenti dialettici e retorici, che sono più deboli. Il fine della scienza autentica trova compimento muovendo da principi dei quali si è in grado di dare spiegazione fino a tornare all’esperienza problematica dalla quale ci si era mossi: “Il fine ultimo e lo scopo di tutti coloro che lavorano nelle scienze speculative è d’esser guidati per mezzo del metodo dimostrativo dalla cognizione dei principi alla perfetta scienza degli effetti derivanti da quei principi” (De meth. II, 4).
Mentre Melantone accosta la questione del metodo dal punto di vista dei Topica, Zabarella muove invece dagli Analytica. Zabarella non cita mai Melantone. Ma quando considera le definizioni dell’ordo proposte da altri, ha certamente nel mirino la definizione del methodus data da Melantone: “Sembra che tutti quelli che hanno parlato sull’ordine siano d’accordo sulla seguente definizione: l’ordine di una dottrina è un abito strumentale ovvero uno strumento intellettuale grazie al quale si insegna come disporre convenientemente le parti di una disciplina” (De meth. I, 4). La definizione non è sbagliata, ma è sicuramente imperfetta, perché implica, appunto, che “l’ordine sarebbe quello che dispone le parti di una scienza, senza chiarire la ragione secondo la quale questa disposizione può essere eseguita al fine di esser disposta bene e adeguatamente; inoltre, continuiamo a non sapere da dove venga questa disposizione; né è da dire che questa disposizione la produciamo noi a caso, senza ragioni e solo dal nostro volere arbitrario, così che di coloro che seguono un ordine e dispongono e traspongono in un modo o nell’altro le parti di una disciplina si dice abbiano un ordine. Poiché in questo modo l’ordine diventerebbe non ordine e mancherebbe piuttosto di perizia e utilità” (De meth. I, 4).
Nel Comes politicus (1601), Francesco Piccolomini sostiene contro Zabarella che l’ordine delle discipline e il modo d’insegnamento sono simili in parte, ma anche sono diversi, poiché se il modo d’insegnamento si basa sul modo della nostra conoscenza, “l’ordine delle discipline si basa sulla natura delle cose che sono trattate”. Infatti, mentre impariamo la logica noi seguiamo un ordine, ribadisce Piccolomini, “che la natura ci offre e che noi troviamo nella natura delle cose”. Piccolomini è inoltre l’ispiratore di uno dei più esaustivi trattati sugli abiti prodotto dal nostro Rinascimento, il De habitibus intellectus libri sex (1577) di Andrea Duodo, che segue il commento di Eustrazio al primo libro dell’Etica Nicomachea nel tener fermo a un’ascesa degli abiti verso l’intelletto.
Alla fine del Cinquecento, Friedrich Beurhaus, seguace di Melanchthon e la Ramée nonché fondatore del gruppo dei philipporamistae, compie un passo ultimativo contro Zabarella. Nella Defensio Petri Rami dialecticae (1588) dichiara la fondazione extramentale degli abiti. La logica è un’arte e un’arte è un sapere vero di fare le cose, pertanto è architettonica. Infatti, nell’ordine della natura, l’arte è anteriore all’abito dell’artista. Un’arte, in altre parole, ars est, etiamsi a nemine discatur; un’arte procura l’inizio di un abito, ma non è l’abito stesso. La causa non può essere l’effetto. L’arte è la causa dell’abito. Pertanto un’arte non è essa stessa un abito. Nel caso della logica, dunque, della quale si dice sia un’arte, la conseguenza sarebbe che la logica non sarebbe un abito ma un insieme di relazioni poste tra le idee platoniche. Beurhaus riduce dunque la questione alla sua forma più semplice: la logica è sì sistema extramentale, ma in quanto abito è psicologia: i precetti sono scritti nei libri, non sono nell’anima; tuttavia, non appena l’anima li legge, sono nell’anima.