Das Buch Paragranum (Il libro di Paragrano), composto ed elaborato a più riprese entro il 1530 e pubblicato postumo nel 1565, è una difesa serrata del sistema teorico e medico elaborato da Paracelso. L’opera si incentra sulle cosiddette “quattro colonne” su cui si fonda la medicina – ossia Filosofia, Astronomia, Alchimia, Virtù. Nel passo riportato, tratto dal capitolo “Il vero fondamento della medicina, ovvero la filosofia”, l’autore invita il medico-filosofo allo studio diretto della natura, quasi esortandolo a farsi dettare da essa le cagioni della malattia e i suoi rimedi, piuttosto che dallo studio dell’individuo umano. L’uomo, infatti, è un simulacro della natura composto dai suoi stessi elementi, e la natura stessa può essere considerata causa e rimedio della malattia. Ne segue la critica a una medicina incentrata sui cosiddetti quattro umori: cholera, flegma, melancholia e sanguis, accusata di non considerare l’interazione continua tra l’organismo singolare e la natura.
Paragrano, cap. I,
da Paracelso, Paragrano, SE, Milano - 2002
Secondo la mia opinione filosofica la natura è la malattia stessa, e dunque essa sola sa che cos’è la malattia. Essa soltanto è la medicina, essa conosce le infermità dei malati. […] Esiste forse un maestro più valente della natura stessa? Essa possiede la conoscenza di queste cose e ce ne dà un’intellezione visibile, da cui il medico attinge le sue cognizioni. Se dunque soltanto la natura possiede il sapere, dovrà essere la natura a predisporre la ricetta, e questa sua arte sta chiaramente innanzi al medico. Da essa deriva l’arte, non dal medico. E dunque il medico deve procedere con perfetto intendimento partendo dalla scuola della natura. […]
Se il fondamento della medicina si trovasse nell’uomo, le malattie dovrebbero conformarsi alla natura e all’intelletto del medico ed esisterebbero tanti medici quante sono le genesi delle malattie. […] Il medico deve seguire la malattia, come fa la vacca con la mangiatoia. Con ciò si afferma che il medico deve prendere le mosse dalla natura, e non dalla speculazione. Ora, la natura è visibile, mentre invisibile è la speculazione; ma è il visibile a fare il medico, non già l’invisibile; il visibile dà la verità, l’invisibile non dà nulla. Tutto quello che è invisibile nell’uomo, si presenta come visibile1. […]
Sono costretto ancora una volta a enunciare il motivo di contrasto che da gran tempo mi divide da coloro che sono la parte a me avversa: il fatto cioè che essi negano all’impressione e all’influsso dei frutti e dei minerali ogni importanza per la medicina e li sostituiscono con la loro speculazione sugli umori, contestando che una filosofia o un’arte esterna possano essere utili al corpo nelle sue necessità. E a causa di questa incomprensione hanno escogitato i quattro humores, per essere messi in condizione di sapere, partendo da essi, quel che necessita al medico, ossia le cause e le proprietà delle malattie. Tutto questo va d’accordo come la zanzara e l’elefante. Niente, infatti, che non sia conoscibile nel mondo esterno, cagiona qualche effetto nel corpo. Non devi farti ostacolare dalle forme e dalla configurazione del corpo, giacché risiede qui il fondamento che tu devi conoscere: ed è per questo che non devi cercare alcun altro fondamento.
Secondo Telesio, la conoscenza della natura dipende esclusivamente dai sensi e non si ottiene attraverso ragionamenti o speculazioni. Ed è proprio l’evidenza sensibile a rivelare i principi naturali: due qualità incorporee, come il caldo e il freddo, capaci di penetrare e permeare ogni cosa, e un principio materiale, che di tali qualità subisce le affezioni.
De rerum natura
da Bernardino Telesio, De rerum natura, ristampa anastatica, Hildesheim - 1971
Tanto il calore quanto il freddo sono incorporei, poiché il calore che emana dal sole – o anche dal nostro fuoco – e il freddo che emana dalla terra evidentemente non si propagano per mezzo di alcuna cosa corporea. Entrambi penetrano in profondità in tutte le cose, anche nelle più dense e nelle più profonde, e si introducono uniformemente in qualsiasi parte e in qualsiasi punto di esse, cosicché non rimane alcun loro punto che non sia completamente e uniformemente occupato dal calore e dal freddo sopraggiungenti. Il che non potrebbe assolutamente accadere se essi fossero corporei. Tuttavia la terra non è costituita dal solo freddo.
Allo stesso modo né il sole, né le altre stelle, né qualsiasi altra parte del cielo – insomma, nessun ente che sia costituito dal calore – sono costituiti unicamente dal calore, bensì sono costituiti anche da una massa corporea. [...] E poiché in nessun luogo si percepisce alcuna azione del calore o del freddo che possa essere prodotta dal puro calore o dal puro freddo senza che essi ineriscano ad una massa corporea, sicuramente deve essere aggiunta anche la massa corporea alla costituzione degli enti di natura, dei quali ricerchiamo i principi e le essenze costitutive. Quindi bisogna porre tre principi di tali enti: due nature agenti, cioè il calore e il freddo, e una massa corporea. E questa è ugualmente conforme e conveniente a entrambe le nature: atta a espandersi, a dilatarsi, a condensarsi, a contrarsi, a ricevere quella particolare disposizione dalla quale o il calore o il freddo sono favoriti. [...] Quindi da Dio fu creata la massa affinché le nature agenti e operanti penetrassero e sussistessero in essa e le conferissero ciascuna le proprie facoltà e attitudini [...] in modo che da essa sorgessero il cielo, la terra e gli altri enti.
Il brano esprime la visione panteistica bruniana dell’universo uno, privo di distinzioni e differenziazioni. Il cosmo, proprio in quanto infinito, non conosce divenire, movimento o mutamento. Sono piuttosto le cose singolari, in quanto determinazioni del cosmo, ad assumere solo alcune delle caratteristiche della materia universale, e quindi a mutare.
De la causa, principio e uno
da Giordano Bruno, De la causa, principio e uno, Principato, Messina - 1923
Dunque, l’individuo1 non è differente dal dividuo2, il simplicissimo da l’infinito, il centro da la circonferenza. Perché dunque l’infinito è tutto quello che può essere, è immobile; perché in lui tutto è indifferente, è uno; e perché ha tutta la grandezza e perfezione che si possa oltre ed oltre avere, è massimo ed ottimo immenso. Se il punto non differisce dal corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo dal minimo, sicuramente possiamo affirmare che l’universo è tutto centro o che il centro de l’universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella. […]
Ma mi direste: perché dunque le cose si cangiano? la materia particulare si forza ad altre forme? Vi rispondo, che non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo; perché quello comprende tutto lo essere e tutti i modi di essere: di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere; e non può attualmente aver tutte le circostanze e accidenti, perché molte forme sono incompossibili in medesimo soggetto, o per esserno contrarie o per appartener a specie diverse; come non può essere medesimo supposito individuale sotto accidenti di cavallo e uomo, sotto dimensioni di una pianta ed uno animale3.
1. Leggi: i corpi semplici, indivisibili.
2. Leggi: i corpi composti, quindi divisibili.
3. Una cosa singolare non può contenere gli attributi a un tempo di un uomo, un cavallo, una pianta ecc., mentre la materia universale li contiene tutti.
Il modello campanelliano dell’“ottima repubblica” è articolato secondo l’ontologia delle tre primalità. Pon, Sin e Mor, i tre prìncipi posti sotto l’autorità di un principe-sacerdote (il Metafisico), raffigurano rispettivamente Potenza, Sapienza, Amore.
La città del Sole
da Tommaso Campanella, La città del sole, Laterza, Roma-Bari - 1997
Ospitalario: Per tua fè, dimmi tutto il modo del governo, ché qui t’aspettavo.
Genovese: È un principe sacerdote tra loro, che s’appella Sole, e in lingua nostra si dice Metafisico: questo è capo di tutti in spirituale temporale, e tutti li negozi in lui si terminano.
Ha tre prìncipi collaterali: Pon, Sin, Mor, che vuol dir: Potestà, Sapienza e Amore.
Il Potestà ha cura delle guerre e delle paci e dell’arte militare; è supremo nella guerra, ma non sopra Sole; ha cura dell’offiziali guerrieri, soldati, munizioni, fortificazioni ed espugnazioni. Il Sapienza ha cura di tutte le scienze e delli dottori e magistrati dell’arti liberali e meccaniche, e tiene sotto di sé tanti officiali quante son le scienze: ci è l’Astrologo, il Cosmografo, il Geometra, il Loico, il Rettorico, il Grammatico, il Medico, il Fisico, il Politico, il Morale; e tiene un libro solo, dove stan tutte le scienze, che fa leggere a tutto il popolo ad usanza di Pitagorici. E questo ha fatto pingere in tutte le muraglia, su li rivellini, dentro e di fuori, tutte le scienze. Nelle mura del tempio esteriori e nelle cortine, che si calano quando si predica per non perdersi la voce, vi sta ogni stella ordinatamente con tre versi per una. […]
Il Amore ha cura della generazione, con unir li maschi e le femine in modo che faccin buona razza; e si riden di noi che attendemo alla razza de cani e cavalli, e trascuramo la nostra. Tien cura dell’educazione, delle medicine, spezierie, del seminare e raccogliere li frutti, delle biade, delle mense e d’ogni altra cosa pertinente al vitto e vestito e coito, e ha molti maestri e maestre dedicate a queste arti.
Il Metafisico tratta tutti questi negozi con loro, ché senza lui nulla si fa, e ogni cosa la communicano essi quattro, e dove il Metafisico inchina, son d’accordio.
Ospitalario: Or dimmi degli offizi e dell’educazione e del modo come si vive; si è republica o monarchia o Stato di pochi.
Genovese: Questa è una gente ch’arrivò là dall’Indie, ed erano molti filosofi […]. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna.
Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l’amor proprio; ché, per sublimar a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro e insidioso e ippocrita, si è impotente. Ma quando perdono l’amor proprio resta il commune solo […] è bello a vedere, che tra di loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune; e molto guardano gli offiziali, che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l’hanno.
Nel dialogo che segue, tratto dal De admirandis (1616), il filosofo libertino Giulio Cesare Vanini denuncia la natura della religione come finzione, utile di volta in volta ai sacerdoti per esigere sottomissione e ai politici per garantirsi l’obbedienza dei sudditi e la conservazione del potere.
De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis
da Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere, a cura di F.P. Raimondi e M. Carparelli, Bompiani, Milano - 2010
ALESSANDRO: In quale religione gli antichi filosofi ritennero che Dio fosse venerato con sincera devozione?
GIULIO CESARE: Nella sola Legge della Natura. Perché la stessa Natura, che è Dio (infatti è il principio del moto), scolpì tale legge negli animi di tutti i popoli. Le altre religioni, invece, non erano – a loro dire – se non finzioni ed illusioni. Queste poi non sono state introdotte da qualche demone maligno (perché la loro esistenza, secondo i filosofi, appartiene al mondo della favola), una sono state escogitate dai prìncipi per ammaestrare i sudditi e in seguito sono state dai sacerdoti sacrificatori, sempre a caccia di onori e di oro, confermate non con i miracoli, ma con la sacra scrittura, il cui testo originale non si trova in alcun luogo. I libri sacri, d’altro canto, narrano di miracoli compiuti e promettono le giuste ricompense per le buone e cattive azioni, non in questa, ma nella vita futura affinchè la frode non possa essere scoperta. Infatti, chi mai fece ritorno dall’altro mondo? Così il rozzo popolino è costretto all’obbedienza per il timore del Supremo Nume che tutto vede e compensa ogni azione con castighi e premi eterni. [...]
ALESSANDRO: Mi sorprende che i romani, padri della sapienza, si assoggettarono a tante superstiziose favolette.
GIULIO CESARE: Non c’è da meravigliarsi perché solo il popolino, che è facilmente ingannato, accettava quella religione. Le persone più in vista e i filosofi, invece, non si lasciarono affatto trarre in inganno. Essi trattavano la religione non come fine, ma come mezzo per conseguire un fine che poi era la conservazione e l’allargamento dell’Impero (perché si tratta di scopi che non si possono raggiungere se non con il pretesto di una religione). Infatti, a coloro che morivano per lo Stato promettevano premi eterni, come ora accade presso i Turchi. Inoltre, stabilivano che si dovessero venerare come divinità gli uomini e così questi, combattendo valorosamente per la patria, aspiravano a diventare dèi. Ed invero i romani annoveravano tra gli dèi gli eroi fortissimi e facevano uso di sacrifici, come lo spargimento del sangue, per accendere nei giovani il senso della vendetta contro i nemici. Così gli spartani innalzavano statue di dèi armati affinchè i giovani pregassero armati gli dèi e non in ginocchio e con gli occhi pieni di lacrime (segno di animo debole). I filosofi, poi, si rendevano conto che tutte queste cose erano favole, tuttavia per timore del pubblico potere erano costretti al silenzio. Aristotele, quando seppe che dall’inquisitore ateniese gli era stata inferta la stessa morte di Socrate, abbandonò Atene. E a chi gliene chiese il motivo rispose: “Perché gli Ateniesi non pecchino una seconda volta contro la filosofia”.
ALESSANDRO: Ma se la religione dei pagani era falsa, perché era piena di tanti e così grandi miracoli, di prodigi e di portenti?
GIULIO CESARE: Chiedilo a Luciano. Egli ti risponderà che tutte queste cose non furono altro che imposture dei sacerdoti.