Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564 da Giulia Ammannati e da Vincenzo, noto musicista. Nel 1580 entra alla facoltà di arti dell’università di Pisa, con lo scopo di intraprendere studi di medicina. A Pisa studia la filosofia aristotelica, ma abbandona gli studi senza conseguire la laurea. Segue corsi privati di matematica nei quali approfondisce Euclide e Archimede. Privo di una qualifica accademica, Galilei impartisce lezioni di matematica e tiene conferenze pubbliche, tra cui una sull’Inferno di Dante. Le sue competenze matematiche cominciano a essere note ai contemporanei: nel 1589 è nominato lettore di matematica all’università di Pisa e ai primi anni di insegnamento risalgono gli studi raccolti sotto il titolo De motu, in cui Galilei sostiene una teoria archimedea del peso e confuta la distinzione aristotelica tra corpi leggeri e pesanti.
Insoddisfatto delle condizioni dell’insegnamento pisano, nel 1592 Galilei si trasferisce a Padova. Qui lo stipendio non è alto e l’insegnamento richiesto è ancora su temi tradizionali. Tuttavia, Venezia, con il suo Arsenale, gli fornisce condizioni ben più stimolanti di Pisa per ampliare le proprie competenze e metterle in pratica. Galileo impartisce lezioni private di matematica applicata a giovani nobili destinati alla carriera militare e fornisce consulenze tecniche alla Repubblica di Venezia, su temi quali la costruzione delle navi e l’idraulica. Nel 1597 inventa un compasso geometrico-militare, che consente di eseguire operazioni aritmetiche e geometriche, inclusi la misura dei calibri, ossia dei diametri di oggetti sferici (in particolare le palle di cannone che, in base alla loro dimensione, necessitano di una diversa carica esplosiva), e il rilevamento del territorio.
Il compasso galileiano ha un gran successo e Galilei trae notevoli profitti dalla sua vendita. A questi anni risale la stesura del trattato dal titolo Le mecaniche, in cui l’autore riconduce il funzionamento delle macchine semplici alla bilancia, spiegandolo in termini di pesi e delle loro velocità intorno al centro. L’architettura militare, le fortificazioni e la geografia sono oggetto delle lezioni impartite da Galilei ai giovani nobili nonché di trattati che lo scienziato pisano compone negli anni di Padova. Sempre nel 1597, scrivendo a Keplero per ringraziarlo del dono di una copia del Mysterium cosmographicum, Galilei professa apertamente la propria adesione al sistema copernicano. In quegli anni Galileo si dedica anche allo studio del pendolo. Si racconta che, ancora studente, osservando le oscillazioni di una lampada nel duomo di Pisa, egli avrebbe per la prima volta intuito la legge dell’isocronismo del pendolo: essa stabilisce che il tempo impiegato dal pendolo per compiere un’oscillazione rimane lo stesso e non dipende dall’ampiezza dell’arco che esso descrive. Altro oggetto di studio è la caduta dei gravi: su questo tema elabora una prima teoria matematica che nel 1604 trasmette all’amico Paolo Sarpi, con la quale stabilisce la proporzionalità tra gli spazi percorsi dal grave e il quadrato dei tempi.
Benché secondo alcuni testi Galileo sia considerato l’inventore del cannocchiale, egli è solo il primo a farne un uso scientifico appropriato. Nel 1608 circola la prima notizia dell’invenzione di un cannocchiale, ma in Olanda viene usato soltanto per osservare le navi da lontano. Nel 1609, in Inghilterra, Thomas Harriot osserva la superficie della Luna e ne disegna una mappa. Nell’agosto 1609 Galileo costruisce un telescopio e lo dona alla Repubblica di Venezia, ricevendo in cambio un congruo aumento di stipendio. Nei mesi successivi (nell’inverno 1609-1610) Galileo compie le prime osservazioni della Luna usando un telescopio a circa venti ingrandimenti. La superficie della Luna gli appare simile a quella della Terra, con montagne e valli: un forte argomento contro il principio aristotelico dell’immutabilità dei cieli. Nello stesso periodo Galileo osserva i quattro maggiori satelliti di Giove e successivamente ne determina con precisione i periodi (il tempo impiegato dal satellite a compiere un’orbita completa). Nel marzo 1610 pubblica il Sidereus nuncius, dedicato a Cosimo II de’ Medici, in onore del quale chiama i satelliti di Giove “astri medicei”. Nell’estate dello stesso 1610 lascia Padova per Firenze, dove è nominato “Filosofo e Matematico” del granduca. Il Sidereus nuncius contiene osservazioni della superficie della Luna, che Galileo descrive come “diseguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra”. Galilei osserva nuove stelle e scopre che la Via Lattea “non è una parte più densa del cielo atta a riflettere i raggi delle stelle e del sole”, come s’era creduto fino ad allora, ma “un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi”, come egli stesso spiega nel Sidereus nuncius. Le osservazioni delle stelle indicano non solo che esse sono di grandezza variabile, ma che sono distribuite a distanze enormi. Galilei osserva inoltre le fasi di Venere, incompatibili con il sistema tolemaico.
Nel 1611 Galileo si reca a Roma “per far toccar con mano ad ogn’uno tutte le novità delle mie osservazioni”; vi incontra il padre gesuita Clavio e il 14 aprile 1611 partecipa a un incontro a San Pancrazio con scienziati gesuiti, Federico Cesi e altri membri dell’Accademia dei Lincei. L’incontro, dedicato alle recenti osservazioni astronomiche, è l’inizio di un’azione di promozione delle proprie scoperte nella città santa; azione che inizialmente ha successo, poiché i gesuiti approvano, anche se con quache riserva, il lavoro dello scienziato pisano. Il 25 aprile del 1611 entra a far parte dell’Accademia dei Lincei, che eserciterà un ruolo importantissimo nella carriera scientifica galileiana.
Le accademie scientifiche seicentesche nascono come sviluppo delle accademie rinascimentali, le cui attività concernevano soprattutto le arti, le lettere e la filosofia. L’ideale baconiano di una scienza fondata sulla collaborazione e sul ricorso sistematico alla sperimentazione si realizza in varie accademie e società scientifiche europee, delle quali fanno parte, e spesso con un ruolo di primo piano, i maggiori scienziati del secolo, quali Galilei, Huygens, Borelli, Boyle, Hooke e Newton. È grazie alle accademie che si forma la consapevolezza degli uomini di scienza di far parte di una comunità che condivide le stesse finalità e che si caratterizza per un comune progetto scientifico da realizzare. Esse favoriscono la collaborazione tra scienziati e introducono nuovi contenuti e metodi di indagine, in particolare la ricerca sperimentale e l’uso di strumenti scientifici. Infine, è dalle accademie che hanno origine i primi periodici scientifici, che determinano un nuovo modo di comunicare la scienza.
Una delle prime accademie scientifiche è l’Accademia dei Lincei, attiva a Roma nei primi tre decenni del Seicento. Nel 1603, Federico Cesi, membro di una delle più potenti famiglie romane, insieme ad altri tre giovani dà vita a un sodalizio che ben presto si struttura in accademia; essa adotta come emblema una lince con il motto sagacius ista, che allude all’osservazione diretta della natura, cui i quattro giovani intendono dedicare le proprie energie. L’Accademia dei Lincei si dà uno statuto, delle regole di affiliazione e sviluppa una fitta rete di contatti tra studiosi non solo italiani, ma anche di altri paesi europei. Dell’Accademia entrano a far parte alcuni dei più noti naturalisti e scienziati italiani: Giambattista della Porta, Ferrante Imperato, Galileo Galilei, Fabio Colonna, Nicolò Antonio Stelliola. L’Accademia dei Lincei si fonda sulla collaborazione scientifica e prevede incontri periodici tra i suoi membri, le cui ricerche si incentrano su molteplici temi: filosofia, botanica, chimica e astronomia. I Lincei svolgono un ruolo particolarmente rilevante nella produzione delle opere scientifiche galileiane, in particolare dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (1613) e de Il saggiatore (1623). Grazie ai loro legami con la Curia romana, Cesi e alcuni Lincei cercano (senza successo) di rendere accette alle gerarchie ecclesiastiche le teorie copernicane sostenute da Galilei.
L’altra accademia scientifica italiana del Seicento, anch’essa legata all’opera di Galileo, è l’Accademia del Cimento, di cui fanno parte alcuni discepoli dello scienziato pisano. Nasce nel 1657 per volontà di Leopoldo de’ Medici e di suo fratello il granduca Ferdinando e ha tra i suoi principali membri il già citato Giovanni Alfonso Borelli, Francesco Redi e Vincenzo Viviani. Il motto dell’Accademia – “provando e riprovando” – vuole sottolineare il carattere sperimentale delle ricerche condotte dall’associazione. La vocazione sperimentale del Cimento è rafforzata dalla necessità di evitare che le ricerche tocchino questioni teoriche sospette alle autorità religiose, come l’atomismo e la cosmologia eliocentrica.
Nel 1612 emergono a Firenze le prime esplicite manifestazioni di dissenso teologico nei confronti delle teorie copernicane. L’anno successivo, presso la corte del granduca, sono sollevate obiezioni contro Copernico. Dell’episodio Galilei è informato da Benedetto Castelli, che insegna matematica nello studio pisano. Galilei decide di chiarire il proprio punto di vista su scienza e Scrittura con una lettera all’amico Castelli, lettera che circola in forma manoscritta. A questa fanno seguito altre due lettere sull’argomento, indirizzate a Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena.
Galileo afferma la separazione tra teologia e scienza e la compatibilità del copernicanesimo con le Scritture. Secondo lo scienziato pisano, i Testi Sacri non errano, ma possono errare i loro interpreti, e l’errore più grave è quello di fermarsi al significato letterale della Bibbia, che comporterebbe l’attribuzione a Dio di passioni umane. Galileo insiste sulla necessità di un’interpretazione diversa da quella letterale, in particolare nel caso delle dispute su questioni naturali nelle quali la Scrittura non può avere un’autorità superiore alla natura. Secondo Galileo, i Testi Sacri hanno lo scopo “di insegnarci come si vadia al cielo, non come vadia il cielo”. Sia la Scrittura (in quanto dettata dallo Spirito Santo), sia la natura (come fedele esecutrice degli ordini divini) procedono direttamente dal Verbo divino. Ma vi è una differenza: la Scrittura – scrive Galileo nella lettera a Cristina – deve adattarsi alle limitate capacità di intendimento del popolo, mentre la natura è “inesorabile ed immutabile” e non adatta le proprie ragioni e modi d’operare alla capacità degli uomini. Quindi, quel che le “sensate esperienze” e “certe dimostrazioni” ci mostrano della natura non può essere messo in dubbio da luoghi della Scrittura che, presi alla lettera, sembrerebbero sostenere il contrario. In relazione all’episodio biblico (Giosuè, X) secondo cui Giosuè comanda al Sole di fermarsi per aver più tempo nel compiere la sua vittoria sui cinque re amorriti, considerato un argomento contro la mobilità della Terra, Galilei non si limita a sancire l’autonomia della scienza dalla teologia, egli si sforza di provare che la teoria copernicana è assai più concorde col testo sacro di quanto non sia quella tolemaica. La lettera a Castelli circola e acuisce le tensioni: un domenicano, Tommaso Caccini, attacca Galilei in una predica a Firenze del 21 dicembre 1614; nel 1615 il domenicano Niccolò Lorini denuncia Galileo alla Congregazione dell’Indice.
ESERCIZIO
E5: Galileo Galilei
TESTO
T2: Galileo Galilei, La scienza e le Scritture
Nel 1615 interviene il cardinale Bellarmino, autorità della Chiesa romana in campo teologico, sostenendo che il sistema copernicano si debba intendere solo come ipotesi astronomica, non come esposizione della realtà fisica del mondo. Nel 1616 il Sant’Uffizio delibera che la proposizione “Il Sole è centro del mondo e per conseguenza immobile di moto locale” è “stolta ed assurda in filosofia e formalmente eretica”.
La proposizione che “la Terra non è il centro del mondo, né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno” è anch’essa stolta e assurda in filosofia ed “erronea riguardo alla fede”. Bellarmino ammonisce Galileo a non sostenere il sistema copernicano e gli intima di non difenderlo né insegnarlo oralmente o per iscritto. Il De revolutionibus di Copernico è messo all’Indice, “finché non sarà corretto”.
Le misure anticopernicane deliberate dalla Congregazione dell’Indice costringono Galileo a un lungo silenzio sul sistema copernicano, ma egli non manca di partecipare al dibattito astronomico di quegli anni.
Nel 1623 pubblica Il saggiatore, dedicato al neoeletto papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, uomo di lettere e amico di Galileo. In quest’opera Galileo polemizza con l’astronomo gesuita Orazio Grassi sulle comete e propone una teoria atomistica della materia, secondo la quale sono reali solo le proprietà di tipo geometrico-meccanico, mentre le qualità sensibili (caldo, freddo, dolce, amaro) sono dovute all’emissione di piccolissime particelle da parte dei corpi in cui noi crediamo che dette qualità risiedano, particelle che interagiscono con i nostri organi sensoriali, dando quindi origine alle qualità sensibili. La conseguenza di questa interpretazione è che, se si toglie l’individuo dotato di sensi, le qualità spariscono. In effetti, spiega Galileo, queste ultime sono puri nomi. Nel Saggiatore Galileo presenta la celebre immagine del libro della natura scritto con caratteri matematici e quindi decifrabile solamente per mezzo di essi. In contrapposizione agli aristotelici, Galileo attribuisce alla matematica il ruolo di fondamento della fisica.
TESTO
T3: Galileo Galilei, Qualità primarie e secondarie
Con Galileo Galilei si apre la rivoluzione scientifica vera e propria, contemporaneamente a una rinnovata riflessione metodologica, in un unico impulso rinnovatore destinato a travolgere, in pochi anni, tutto l’impianto della filosofia naturale aristotelica. Come spesso accade nella storia delle idee, i singoli elementi della svolta sono già presenti nella cultura precedente: la rinascita della matematica e lo studio delle sue applicazioni pratiche, l’attenzione per il lavoro degli artigiani e per le loro macchine, l’importanza degli esperimenti e dell’aspetto empirico della ricerca. Ma Galileo riesce a unire questi variegati elementi in modo indissolubile e senza più alcun compromesso di scuola.
A esser decisiva, in Galileo, è soprattutto l’idea che la matematica debba esser ricercata e messa alla prova nell’esperienza, e nel senso che questo sperimentalismo acquisirà in lui. Sperimentare, per lui, significa isolare dei fenomeni specifici, ricostruibili in laboratorio, per estrarre da essi le leggi matematiche fondamentali della materia. L’esperimento galileiano deve essere semplice, perché le leggi della natura sono semplici e generali, ripetibile, falsificabile, quantificabile: tutti caratteri che denotano da allora ogni esperimento scientifico degno di questo nome.
La svolta galileiana nasce dal superamento delle barriere poste da Aristotele e dall’aristotelismo tra matematica e fisica: la prima scienza esatta ma astratta, la seconda dotata di oggetti reali ma proprio per questo destinata all’imperfezione e all’approssimazione conoscitiva. La matematica, per Galileo, svolge un ruolo determinante da vari punti di vista:
(1) costituisce il modello del ragionamento vero;
(2) fornisce il linguaggio della scienza, e gli oggetti stessi su cui esso verte;
(3) costituisce l’essenza reale delle cose naturali.
Nel rivendicare il primo punto, Galileo si colloca nel contesto di un movimento largamente presente nella cultura cinquecentesca, inclusi certi settori dell’aristotelismo (si pensi a Cristoforo Clavio, 1538-1612, influentissimo autore della Ratio studiorum dei collegi gesuiti e risoluto sostenitore del primato della matematica tra le scienze). Anche il secondo punto non è del tutto incompatibile con un’impostazione tradizionale del sapere scientifico, purché ci si limiti a ipotizzare dei modelli matematici astratti utili per poter meglio comprendere i processi fisici reali. Per arrivare al terzo occorre invece staccarsi definitivamente da quel retroterra. Ed è questo il passo compiuto da Galileo nel Saggiatore (1623), laddove egli asserisce, prima, che l’universo è un libro “scritto in lingua matematica”, e, poi, che le uniche caratteristiche concepibili della “materia, o sostanza corporea” sono le sue caratteristiche geometriche e quantificabili, e non quelle che appaiono immediatamente alla nostra sensibilità soggettiva (odori, sapori, colori). Le “sensate esperienze” di Galileo sono dunque tali soltanto se permettono di superare l’apparenza sensibile per andare a trovare, sperimentalmente, la radice matematica delle cose, per giungere a quei rapporti eterni di grandezze e misure nel conoscere i quali l’intelletto umano equipara quello divino. Un teorema matematico, infatti, non può essere più vero (intensive – cioè quanto a valore di verità) per Dio che per l’uomo: l’unica differenza è che Dio conosce tutti i rapporti possibili tra le cose e ha quindi una conoscenza di estensione infinita (extensive) e incommensurabile con quella umana. La limitatezza dell’intelletto umano rende perciò indispensabile la ricerca sul campo, l’analisi dei dati, la ripetuta osservazione dei fenomeni e la ricerca delle loro cause.
Alla redazione del Saggiatore contribuiscono membri dell’Accademia dei Lincei, che aveva stabilito buoni rapporti con il cardinale Barberini, prima ancora della sua elezione a pontefice. Proprio questa nomina, anzi, fa nascere in Galileo e nei Lincei la speranza di una maggior libertà di discussione sul sistema copernicano. Galileo riprende quindi il progetto di un trattato di cosmologia, che aveva già in mente nel 1610 e che successivamente aveva deciso di intitolare Dialogo sul flusso e reflusso dei mari. Galileo ritiene di aver scoperto una prova sperimentale decisiva a favore della mobilità della Terra: il fenomeno delle maree. La scelta finale del titolo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano è voluta da Urbano VIII, che chiede di non fare allusione nel titolo e nel contenuto dell’opera al “flusso e riflusso” del mare.
Le argomentazioni a favore del sistema copernicano sono presentate apparentemente in maniera ipotetica, ma di fatto l’esito delle discussioni è chiaramente sempre a favore di Copernico. L’opera è completata nel 1630, ma è pubblicata solo due anni dopo, al termine di lunghi e complessi negoziati per ottenere l’autorizzazione della censura. Dedicato al granduca di Toscana Ferdinando II, il Dialogo è diviso in quattro giornate e ha tre interlocutori: il fiorentino Filippo Salviati (1583-1614), sostenitore di Copernico; il patrizio veneto Giovan Francesco Sagredo (1571-1620), scienziato dilettante dallo spirito acuto; Simplicio, personaggio immaginario (il cui nome ricorda il noto commentatore di Aristotele), che è sostenitore del geocentrismo e interpreta il ruolo del dogmatico aristotelico.
Dopo aver confutato, nella Giornata Prima del Dialogo, la distinzione aristotelica tra corpi terrestri e corpi celesti, nelle giornate successive Galileo tratta dei moti della Terra e di questioni di meccanica. Nella Giornata Seconda è discussa la rotazione diurna della Terra, nella Terza la rivoluzione annuale della Terra intorno al Sole, mentre nella Quarta si afferma che solo ammettendo questi due movimenti è possibile spiegare il fenomeno delle maree. Galileo confuta le obiezioni degli aristotelici affermando una nuova concezione del movimento, che si fonda sulla relatività dei moti e sulla nozione di sistema meccanico – cioè sul principio per cui non è possibile stabilire, all’interno di un sistema privo di punti di riferimento esterni, se esso sia in quiete o se si muova di moto rettilineo uniforme. Nella Giornata Seconda Salviati spiega che solo con il moto diurno della Terra sarebbe risolta una difficoltà del sistema geocentrico: la sfera celeste sarebbe in moto verso ovest, mentre i pianeti si muovono verso oriente. Galileo quindi rimuove le obiezioni contro il moto assiale della Terra, secondo le quali una pietra lasciata cadere da una torre non toccherebbe il suolo ai piedi della perpendicolare, ma in un punto spostato verso ovest e le palle di cannone sparate verso occidente avrebbero una gittata maggiore di quelle sparate verso oriente, in quanto al percorso che farebbe la palla occorre aggiungere quello del cannone, che, portato dalla Terra, si muove verso oriente. A queste obiezioni Galileo risponde per mezzo di considerazioni basate sull’inerzia e sull’indipendenza dei moti all’interno di un sistema di riferimento dato: il volo degli uccelli, così come i moti dell’aria in prossimità della Terra e altre prove addotte contro il moto della Terra sono confutate mostrando che ciò che accade sulla Terra è analogo a quel che si verifica sottocoperta in una nave in movimento che non subisce né accelerazione né decelerazione. Nella condizione ideale della nave in moto rettilineo uniforme, i moti dei passeggeri, quelli delle gocce che cadono, quello dei pesci in un vaso non sono influenzati dal movimento comune a tutto ciò che la nave trasporta.
Nella Giornata Quarta, che incorpora gran parte di uno scritto del 1616 sul flusso e riflusso del mare, è presentato infine l’argomento principale a conferma dei moti della Terra: le maree. Galileo ritiene (erroneamente) che il flusso e riflusso delle maree sia causato da accelerazioni e decelerazioni che hanno origine dalla combinazione della rotazione diurna e del moto annuo della Terra.
Il carattere inequivocabilmente copernicano del Dialogo non sfugge al papa. Galileo è convocato a Roma, dove ha luogo il processo, che si conclude il 22 giugno 1633 con la condanna “al carcere formale” a discrezione del Sant’Uffizio e l’abiura. Il carcere è rapidamente commutato in domicilio coatto, prima a Siena poi nella villa di Arcetri, dove Galileo trascorre i suoi ultimi anni.
L’esperimento mentale del “gran naviglio”, esposto nella seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi, ha la funzione di affermare il principio di relatività galileiana, in base al quale è impossibile decidere, all’interno di un sistema in cui non è possibile riferirsi a punti di riferimento esterni, se esso è in stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Infatti, nella stiva di una nave che si muova di moto rettilineo uniforme tutti i moti degli oggetti e degli esseri viventi si sommano al movimento della nave, e, per chi li osservasse all’interno della nave, essi sarebbero gli stessi nel caso in cui la nave fosse immobile. La stessa cosa avviene sulla Terra. Analogamente alla nave, il movimento del nostro pianeta da ovest verso est non influenza i moti dei corpi nell’atmosfera (l’enorme stiva in cui avvengono le nostre vite), come invece sosteneva la fisica aristotelica. Movimento uniforme e quiete sono indistinguibili senza punti di riferimento, ma solo se consideriamo la situazione ideale di un moto inerziale perfetto della nave, impossibile da realizzare nella realtà (la terra, di fatto, non è un sistema inerziale perfetto, ma lo è con una grande approssimazione). La matematica ancora una volta aiuta lo scienziato, non a fare a meno delle imprescindibili “sensate esperienze”, ma a condurre quelle “necessarie dimostrazioni” per le quali le conseguenze di una teoria possono essere tratte e in seguito verificate, sempre in modo approssimativo, nella realtà.
Ad Arcetri, Galilei, benché debilitato dalle malattie, continua a dedicarsi agli studi di meccanica e scrive una delle opere principali della scienza del Seicento, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), che vede la luce a Leida, in Olanda, al riparo dalle censure della Chiesa romana. In quest’opera Galileo tratta di meccanica e di resistenza dei materiali e stabilisce che nel moto di caduta libera uguali incrementi di velocità sono acquisiti in tempi uguali, ovvero la velocità aumenta proporzionalmente ai tempi.
Nei Discorsi la legge del moto uniformemente accelerato è espressa in modo rigoroso ed è corredata dal noto esperimento del piano inclinato. Partendo dalla stretta connessione che sussiste tra tempo e moto e dalla constatazione che il moto uniforme è quello in cui in tempi uguali sono percorsi spazi uguali, Galilei conclude che il moto uniformemente accelerato è quello in cui il mobile in tempi uguali acquista uguali aumenti di velocità. Riconduce il caso di un moto uniformemente accelerato a quello di un moto uniforme con velocità corrispondente al grado medio della velocità del moto accelerato. La definizione del moto naturalmente accelerato che troviamo nei Discorsi postula un aumento continuo della velocità a partire dalla quiete, afferma cioè che all’inizio della caduta il grave si muove con infinita lentezza e attraversa infiniti gradi di velocità in un tempo finito. Afferma che mutamenti di velocità avvengono in frazioni comunque piccole di tempo e definisce la velocità istantanea come velocità uniforme dalla durata infinitesimale.
Con i Discorsi di Galilei, come ha scritto il grande storico della scienza Ludovico Geymonat, assistiamo a un “ritorno alla scienza pura”. Ciò non toglie che le ricerche di meccanica che impegnano lo scienziato negli ultimi anni della sua vita costituiscano una legittimazione dell’astronomia copernicana, confermando le osservazioni precedentemente espresse da Galilei contro le obiezioni al moto della Terra.
Le osservazioni astronomiche condotte da Galilei e da molti altri scienziati svelano nuovi fenomeni celesti, confermando la concezione copernicana del mondo.
Nel 1609 lo scienziato italiano punta verso il cielo il cannocchiale da lui costruito e dà inizio a una nuova fase della storia dell’astronomia: osserva la superficie lunare, i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le macchie solari e la Via Lattea; studia anche Saturno, che descrive come un globo centrale e due lune, una su ciascuno dei due lati. Galileo non è l’unico a osservare i cieli con uno strumento ottico. Nel 1609, in Inghilterra, Thomas Harriot osserva la Luna con un telescopio a sei ingrandimenti e ne traccia uno schizzo.
La pubblicazione nel 1610 del Sidereus nuncius (il “Messaggero celeste”) di Galilei, con i risultati delle sue osservazioni astronomiche e le sue illustrazioni, contribuisce a creare grande interesse intorno al telescopio e ai suoi usi in astronomia. Ma non mancano reazioni ostili all’opera di Galileo, come quella dell’astronomo bolognese Giovanni Antonio Magini, che reputa le scoperte galileiane un inganno, o quella di Giovambattista Della Porta che definisce lo strumento di Galileo “una coglionaria”. Nel 1610 Giovanni Keplero, che è in corrispondenza con Galileo e di cui condivide l’adesione al copernicanesimo, pubblica una lunga lettera allo scienziato italiano col titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Keplero afferma la validità delle osservazioni celesti galileiane, ma sostiene che alcune delle tesi galileiane erano già state formulate nell’antichità. Keplero osserva i satelliti di Giove e afferma che Giove ruota intorno al proprio asse, producendo così il moto orbitale dei pianetini. Come Galileo, vari astronomi sono convinti che i moti dei satelliti di Giove si possano utilizzare per determinare la longitudine – di qui l’interesse a calcolarne con precisione i periodi. Accurate osservazioni dei pianeti medicei sono condotte dal siciliano Giovan Battista Hodierna (1587-1660) e dal bolognese Gian Domenico Cassini, che pubblica Le effemeridi dei satelliti gioviani nel 1668.
Alle osservazioni di Saturno, cui Galileo ha dato inizio, si dedicano numerosi astronomi nella prima metà del secolo. Per spiegare la sua forma vengono elaborate varie ipotesi: Gassendi osserva il pianeta dal 1633 al 1649 e suppone che abbia forma ovale, ma successivamente ipotizza che si tratti di un corpo sferico centrale con due “maniglie”, ovvero due satelliti. Ma anche Gassendi, come Galilei, sospende il giudizio, non essendo del tutto convinto di nessuna delle ipotesi formulate. L’ipotesi dei due corpi laterali è formulata anche da Johannes Hevelius di Danzica, uno dei maggiori astronomi europei del tempo e autore della Selenographia (1647). Dopo due anni di osservazioni astronomiche, nel 1657 Huygens interpreta la struttura del pianeta come un corpo centrale e un anello e determina l’inclinazione dell’anello rispetto all’eclittica, nonché il rapporto tra la dimensione dell’anello e del globo centrale. Huygens rende pubblica la propria soluzione nel Systema Saturnium (1659), opera di astronomia copernicana dedicata a Leopoldo de’ Medici.
Le osservazioni astronomiche permettono una conoscenza sempre più dettagliata del sistema solare e dei moti planetari. Le tavole astronomiche, in particolare quelle di Keplero e di Cassini, mettono a disposizione dati sempre più precisi sui moti celesti. Il principale osservatorio europeo del secondo Seicento è quello parigino, creato dall’Accademia delle Scienze e diretto da Cassini, che nel 1669 era divenuto membro della stessa Accademia. Cassini conduce sistematiche osservazioni e organizza spedizioni scientifiche: nel 1672-1673, per esempio, una spedizione guidata dall’astronomo Jean Richer raggiunge prima la colonia francese della Guiana e poi le isole di Capo Verde nel 1682. La spedizione consente di determinare la declinazione solare, ovvero l’angolo tra la posizione del Sole al mezzogiorno solare e il piano che passa per l’equatore, e raccoglie dati grazie ai quali è possibile stabilire che il periodo del pendolo (ovvero l’intervallo di tempo impiegato per compiere una oscillazione completa, per esempio da sinistra a destra e viceversa) varia con la latitudine. Sulla base di questi dati Huygens e Newton affermano che l’accelerazione gravitazionale è minore all’equatore e maggiore ai poli, il che indica che la Terra è uno sferoide ed è schiacciata ai poli.Gli Inglesi costruiscono un osservatorio a Greenwich nel 1675, grazie all’iniziativa di alcuni membri della Royal Society. L’osservatorio è diretto dall’astronomo John Flamsteed, nominato poi Astronomo Reale e incaricato di mettere a punto delle tavole dei moti celesti. Suo assistente sarà Edmond Halley, noto soprattutto per gli studi sulla cometa del 1682 che porta il suo nome.