Nell’opera di Giambattista Vico è presente un tema di fondo, che costituisce il nucleo di tutte le sue riflessioni: l’uomo non può avere accesso alla verità del mondo naturale, giacché questa è resa possibile solo grazie all’atto creativo di Dio. All’uomo è possibile, invece, accedere alla conoscenza del mondo storico. Il De antiquissima italorum sapientia (opera, pubblicata nel 1710, in cui Vico si propone di argomentantare la sua teoria della conoscenza) propone un capitolo in cui si affronta il rapporto tra vero e fatto, dopo aver sostenuto che il “primo vero” è in Dio, cioè nel “primo facitore”, e dopo aver assegnato alla mente divina una capacità di intelligenza infinita e compiuta delle cose, Vico lascia alla mente umana un diverso spazio: “Dio infatti raccoglie tutti gli elementi delle cose, estrinseci e intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non sieno essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi estremi delle cose, senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona” (De antiquissima italorum sapientia, 1710). La mente umana, allora, è in grado di elaborare un sistema di conoscenze applicabile a un ambito di fatti costruito e al tempo stesso conosciuto dall’uomo. La scienza, afferma Vico, “è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa: per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa” (De antiquissima italorum sapientia).
Sta qui il senso di quella che forse è la più profonda ipotesi teorica di Vico: la convertibilità di verum e factum. Il vero, oggetto della conoscenza dell’uomo, è convertibile con ciò che dall’uomo viene fatto e conosciuto. La ragione umana conosce il vero solo nella misura in cui lo produce. Tutto ciò che l’uomo costruisce nelle operazioni concettuali, nelle creazioni linguistiche e nell’esperienza storica è per lui stesso conoscibile e vero, in quanto egli stesso l’ha prodotto. Dall’assoluta impenetrabilità del vero divino discende la pensabilità di una norma che serve a riconoscere le verità prodotte dalle scienze umane. Cosi, dalla divisione tra corpo e anima, intelletto e volontà, figura e moto, ente e uno, derivano i vari ambiti del sapere: la metafisica, l’aritmetica, la geometria, la meccanica, la medicina, la logica, la morale. Dunque, l’uomo si dispone alla ricerca del sapere muovendo dalla consapevolezza dei limiti della sua mente e dall’inconoscibilità della verità divina. Il metodo che egli può usare è l’astrazione, per mezzo della quale riesce a immaginare il punto e l’uno, cioè i contenuti della geometria e della matematica (De antiquissima italorum sapientia).
Giambattista Vico nasce a Napoli il 23 giugno 1668. Notizie sulla sua vita e sulle sue opere sono ricavabili dall’Autobiografia (o Vita scritta da se medesimo, del 1728), un prezioso documento del suo itinerario intellettuale, ma anche di un genere letterario che avrebbe visto nel XVIII secolo altri illustri esempi. Suo padre Antonio era un modesto venditore di libri. Dopo aver frequentato una scuola privata di grammatica, a partire dal 1680 Vico frequenta il Collegio massimo dei gesuiti, ma ben presto lo lascia e studia da autodidatta (“la grammatica di Álvarez e le opere logiche di Pietro Ispano e Paolo Veneto”). I suoi interessi ben presto si rivolgono alla filosofia, anche se si iscrive alla facoltà di diritto dell’università di Napoli. Nel 1686 accetta l’incarico offertogli dal vescovo di Ischia Geronimo Rocca di precettore dei nipoti che vivevano nel castello di Vatolla nel Cilento. Nella solitudine del piccolo borgo approfondisce gli studi classici, leggendo e glossando testi di Cicerone, Virgilio, Orazio, Dante. Pur continuando gli studi giuridici, si dedica anche a quelli letterari, filologici e speculativi. Conseguita la laurea, lascia l’incarico di precettore e dopo avere invano tentato di superare il concorso per una cattedra di diritto presso l’università di Napoli, affronta quello per la cattedra di retorica. Proprio grazie a questo incarico abbiamo notizia dei suoi primi scritti filosofici: Vico, infatti, era chiamato ogni anno a tenere la prolusione inaugurale. Al periodo tra il 1698 e il 1708 risalgono le prime sei, che sono state poi tramandate con il nome di Orazioni inaugurali e si sviluppano intorno a un programma ben riassunto dallo stesso Vico nell’Autobiografia: “le prime tre trattano principalmente de’ fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de’ fini politici, la sesta del fine cristiano”.
Dopo il 1708, l’interesse di Vico si sposta verso un tentativo di fondazione metafisica del mondo umano, affidato a un ambizioso progetto che avrebbe dovuto articolarsi in tre parti composte da un Liber metaphysicus, un Liber physicus e un Liber moralis, nel quale sistemare rispettivamente le sue idee su Dio, il mondo e l’uomo. L’opera De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda libri tres viene edita nel 1710 relativamente, però, al solo primo libro. Il programma vichiano, che si orienta sempre di più nel senso di una ricerca della genesi e dello sviluppo dell’umanità, trova una sua prima, compiuta espressione nel Diritto universale (1722). Sul finire del 1724, il filosofo termina la stesura della cosiddetta Scienza nuova in forma negativa, opera andata perduta che non riesce a pubblicare per mancanza di finanziamenti. Per questo ne riscrive una versione più breve e autofinanziata, che vede la luce nel 1725 e alla quale viene posto il titolo di Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Nel 1728 pubblica la Vita scritta da se medesimo. Vico ora lavora a una seconda edizione della Scienza nuova che, dopo poco più di cento giorni di febbrile lavoro, vede la luce nel 1730.
Nel 1735 il re Carlo di Borbone lo nomina storiografo regio. Tra il 1735 e il 1736 Vico comincia la stesura di una nuova edizione della Scienza nuova alla quale lavora fino alla morte. Nel 1743 avvia la pubblicazione, con integrazioni e correzioni, della terza edizione del suo capolavoro, che avviene postuma nel luglio del 1744, dopo che Vico ne ha rivisto le bozze fino all’ultima notte della sua vita, tra il 22 e il 23 gennaio 1744.
Il principio della conversione verum-factum sta anche all’origine della polemica anticartesiana di Vico. Essa ruota intorno alla centralità che in Vico assume il senso comune e ciò che costituisce il suo sfondo, cioè il mondo del verosimile, il mondo della produttività umana. Proprio nel De antiquissima italorum sapientia, Vico traccia le linee di fondo della sua critica al concetto cartesiano di verità basato sulle idee chiare e distinte. Il nesso di convertibilità tra vero e fatto, ovvero il fatto che il criterio del vero umano sta “nell’averlo fatto”, impediscono che sia l’idea chiara e distinta a poter essere elevata a criterio di verità. Conseguentemente, anche la metafisica del “primo vero”, di quel vero cartesiano “esente da dubbio” dal quale deriverebbero i “secondi veri” di tutte le altre scienze, non riesce alla fine, secondo Vico, a districarsi dalle contraddizioni cui conducono sia il dogmatismo sia lo scetticismo. Al contrario, la metafisica vichiana non mette in dubbio che il primo vero sia quello divino, capace di contenere l’infinità di tutti i generi e di tutte le cause. Si tratta solo di riconoscere che il vero umano, proprio perché non è in grado di elevarsi a questa infinità, ha una sola via per individuare il criterio del vero, cioè identificarlo con la sua realizzazione. Vico parla esplicitamente di una “metafisica commisurata alla debolezza del pensiero umano”. Si tratta di una metafisica che non pretende di fornire all’uomo la gamma di tutte le possibili conoscenze, ma soltanto quelle che si producono nel fare.
LETTURE
René Descartes
Vico, sulla scia della grande tradizione moderna della scienza galileiana, ci dice che proprio la limitatezza della conoscenza umana è alla base della regola che serve alla fisica sperimentale, dal momento che in funzione di essa riconosciamo per vero in natura solamente ciò che è possibile riprodurre con adeguati esperimenti. La metafisica, nel senso appunto di una “metafisica della mente umana”, diventa il motivo fondamentale dell’opera vichiana.
La mente umana, come si è visto, è stata creata da Dio, ma essa non ha carattere di completezza e definitività. Essa, piuttosto, rappresenta il mondo dell’indeterminatezza e della possibilità. In questo contesto diventa decisivo il ruolo della storia. La mente umana non può attingere la verità assoluta, ma, attraverso la storia, può cogliere le modificazioni della coscienza umana e le articolazioni di queste modificazioni nella mente dell’uomo. Si chiarisce, in tal modo, il concetto di “storia ideale eterna”, e cioè, come si legge nell’Autobiografia, la ricerca di un “principio” che “unisse egli tutto il sapere umano e divino”.
La storia ideale eterna, se è da intendere come storia delle idee, lo è non certo nel senso della riduzione della storia a idee metafisiche, predefinite e preesistenti alla coscienza dell’uomo, ma in quello di idee costruite dalla mente umana, la cui capacità creativa muove l’agire sociale e storico dell’uomo.
La storia, per Vico, non va intesa come una progressione indifferenziata, ma si articola in fasi peculiari. Il filosofo italiano parte dall’analisi della mente per costruire una “psicologia della storia” nella quale ogni stadio del processo storico è ricondotto alla psicologia delle differenti età della vita umana. A un’infanzia segnata dal dominio degli stimoli sensoriali segue una giovinezza caratterizzata dall’immaginazione e una maturità razionale e distaccata.
In questo ciclo, i popoli passano da una preistoria animalesca all’“età degli dèi”, quindi all’“età degli eroi” e infine all’“età degli uomini”. Rimane tuttavia aperta la possibilità di regredire alla prima fase, ricominciando il percorso ciclico che ogni popolo compie secondo tempi e modi propri. Benché siano infiniti i fatti, le parole e gli individui, il modello ideale, “la storia ideale eterna” che le circostanze incarnano nel loro fluire, permane identica nella sua triplice scansione; compito della scienza storica è rintracciare tale modello.
TESTO
T14: Giambattista Vico, Le età del mondo
L’infanzia del mondo è “l’età degli dèi”: essa nasce dall’abbandono della condizione animalesca successiva al diluvio universale. Spaventato dai fenomeni naturali, che egli identifica con divinità temibili da placare con la venerazione, l’uomo abbandona il suo “erramento ferino”. Il culto contribuisce a limitare e mitigare gli istinti. Alla bruta passione della carne si sostituiscono il matrimonio e la famiglia, e l’autorità politica assume forme teocratiche e paternalistiche. Non si comunica ancora con la parola, ma si assiste alle prime forme del linguaggio gestuale. Successivamente, nella “età degli eroi”, emerge il potere di colui che riesce a imporsi su coloro che si associano per bisogno di organizzazione e per la prole. Nascono le città e i regimi aristocratici e repubblicani. Il linguaggio si evolve e si arricchisce creando raffigurazioni, personificazioni, animazioni ricche di fantasia.
Nella “età degli uomini”, infine, il linguaggio è ormai convenzione funzionale utile agli scopi sociali. L’autorità governa attraverso leggi rivolte a soggetti razionali e uguali. L’età degli uomini è il fine che la Provvidenza ha iscritto nella storia, agendo su impulsi e desideri umani che, lasciati liberi, sarebbero andati in senso contrario, ma che invece Dio ha vincolato a risultati costruttivi e storicamente progressivi. Questa eterogenesi dei fini, per cui le azioni dell’uomo possono conseguire fini diversi da quelli perseguiti dal soggetto agente, è il segno peculiare dell’intervento divino: la sua azione non è diretta né miracolosa, ma ordinaria, costante, costruttiva, una spinta interiore all’uomo stesso e che lo induce a elevarsi, realizzandosi attraverso la ragione.
L’uomo tuttavia rimane libero, esposto quindi anche alla possibilità di perdere la propria condizione storicamente acquisita quando ne spegne la tensione etica riducendo l’esercizio della ragione alla pura e sterile critica. Sono questi per Vico i presupposti del “ricorso”, vale a dire il regresso a una seconda età di barbarie e alla nuova rieducazione dell’uomo che Dio dovrà intraprendere in un ciclo ulteriore. L’arretramento non è tuttavia una necessità, ma un pericolo che l’uomo può sempre scongiurare, grazie alla comprensione della storia possibile attraverso la “scienza nuova”.
La rinnovata metafisica di Vico, che non ha più nulla ormai della tradizionale metafisica di essenze eterne e immutabili, è inscindibile dal programma che sta al centro della Scienza nuova: la “storicizzazione della ragione”. È una metafisica del genere umano, che nella storia ideale eterna non trova un luogo di immobili idee date una volta per tutte, ma la straordinaria invenzione della ragione di un universale civile (cioè la Legge). A essa poi si affianca la scoperta dell’universale storico che si dispiega nelle forme di civilizzazione e socializzazione dell’umanità, e, infine, la teorizzazione dell’universale fantastico che si manifesta nelle forme di creatività poetica e linguistica di popoli e nazioni.
La comprensione degli eventi storici, tuttavia, ha bisogno di tutti i sussidi della scienza filologica (dell’antiquaria, dell’etimologia, della cronologia), ma ha ancor più bisogno di commisurare i movimenti della storia con le strutture ideali della mente umana, con quelle strutture, cioè, dell’ordine naturale che attraversa, nel tempo, la vita degli uomini e delle nazioni. Si può cosi tornare agli essenziali tratti del concetto vichiano di “storia ideale eterna” e al ruolo che essa svolge nel rinnovato significato della metafisica.
Si definisce e si precisa sempre di più il ruolo della storia dell’uomo, dell’umanità nel suo processo di civilizzazione, e si spiega, cosi, la centralità delle forme di socializzazione e di organizzazione politico-giuridica. Ma tutto ciò diventa possibile perché, a partire dalla Scienza nuova la filosofia di Vico è diventata una sorta di filosofia senza natura, ad attestare uno spostamento di interesse verso un mondo, quello dell’uomo e della sua storia, finora trascurato o sottovalutato dai filosofi. Il principio teoretico basilare su cui poggia la nuova scienza diventa la certezza di un “mondo civile” fatto dagli uomini, e la filosofia, arricchita dal metodo filologico, può impegnarsi nella conoscenza dei “veri che gli uomini hanno fatto”. Riprendendo il concetto già espresso in apertura dell’opera Vico chiarisce, nella sezione De’ principi, che cosa egli intende quando parla di una verità che assolutamente non può essere messa in dubbio (e cioè il mondo civile come prodotto del fare umano), ma, al tempo stesso, critica il fatto che la filosofia non abbia saputo fino ad allora sviluppare tutte le conseguenze di tale verità. “Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini” (Scienza nuova, 1744).
Vico ritiene cosi possibile la “scoverta dé veri elementi della storia”, ancora una volta individuabili a partire dalla natura degli uomini e non dati una volta per tutte da una astorica mente universale (la storia ideale eterna, come sappiamo, non è separabile dal tempo storico delle nazioni). Soltanto dalla natura degli uomini derivano i costumi e da questi poi discendono i governi, i quali, a loro volta, danno vita alle leggi, sulla cui base si formano gli “abiti civili” e, infine, le costanti che caratterizzano la vita delle nazioni. Tutto ciò è certo regolato dalla provvidenza divina, ma proprio i caratteri della storia incardinati nella natura umana e nel suo esplicarsi nelle forme di incivilimento politico e sociale, fanno sì che la scienza della quale vuole ragionare Vico si presenti come una “teologia civile ragionata della provvedenza divina” (Scienza nuova, 1744).
Il problema di Vico, dunque, non è quello di negare l’universalità delle forme in cui si manifesta (attraverso l’eterna ragione) la presenza divina nel mondo, e neanche quello di sostituire a essa una diversa universalità. Si tratta, piuttosto, di muovere dalla scoperta di una universalità propria del mondo umano che, per essere compresa, ha bisogno di strumenti conoscitivi (oltre che di esperienze) che non possono essere analoghi a quelli della fisica e della metafisica. C’è sempre un ordine finalistico che sovrasta ogni cosa e che prefigura in sé le tappe del percorso che le menti umane devono seguire per innalzarsi al cielo. E, tuttavia, questo percorso passa per fasi e per “mondi” distinti. Vico appare dunque consapevole della sua scoperta, di quell’argomento “e nuovo e grande”, un nuovo e inesplorato mondo della storia e delle civiltà umane a lungo trascurato dai fisici che si sono applicati al solo mondo naturale e dai filosofi che hanno contemplato il mondo nella sua sola parte metafisica.
La Scienza nuova è aperta da una “dipintura”, nelle parole di Vico, che funge da quadro sinottico dell’intera opera e da ausilio mnemotecnico per il lettore. Al centro dell’immagine, sia simbolicamente sia concettualmente, appare la metafisica, la “donna con le tempie alate” che certo anche figuralmente sovrasta il globo terrestre, cioè il mondo della natura, ed è investita dal raggio della provvidenza che parte dall’occhio veggente di Dio. E, tuttavia, prima ancora che Vico si dia a spiegare il senso della raffigurazione, egli afferma significativamente di voler offrire al lettore in primo luogo una “tavola delle cose civili” (Scienza nuova, 1744), mostrando in tal senso la preminenza dello specifico oggetto della nuova scienza: il processo di incivilmento e socializzazione del genere umano, la genesi del concetto di auctoritas, la funzione “civile” della filosofia. D’altronde, il paragrafo sulla Idea dell’opera che apre l’edizione del 1725 aveva già messo in chiaro come il libro intendesse ragionare su una scienza “dintorno alla natura delle nazioni”, muovendo cioè dal livello di acquisita umanizzazione dei rapporti civili, dal momento che se è pur vero che l’alba dell’umanità inizia con la religione, essa si è poi definitivamente compiuta “con le scienze, con le discipline e con l’arti” (Scienza nuova, 1725). Nell’immagine del frontespizio la metafisica non si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”; nell’occhio divino essa contempla anche il mondo delle menti umane proprio al fine di dimostrare l’azione della provvidenza in quel mondo civile che è essenzialmente il mondo delle nazioni. Vico, dunque, non ha alcuna intenzione di negare il ruolo della provvidenza nella vita e nella storia dell’uomo; ma questo non significa che non possa delinearsi uno spazio di autonomia proprio del facere delle umane volontà. È tale spazio che può e deve divenire oggetto della scienza che Vico vuole fondare e prefigurare. Perciò il globo che è ai piedi della donna alata è poggiato su un solo lato dell’altare, a significare, come spiega Vico stesso, il fatto che avendo i filosofi “contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte” che non è la “più propria” degli uomini, “la natura de’ quali – invece – ha questa principale proprietà: d’esser socievoli” (Scienza nuova, 1744).
ESERCIZIO
E17: Vico
Nell’opera di Giambattista Vico è presente un’articolata teoria del linguaggio. Per il filosofo napoletano, nella storia dell’uomo il linguaggio passa attraverso diversi stadi evolutivi e si trasforma seguendo le diverse fasi di sviluppo della conoscenza umana. Nella Scienza nuova Vico distingue tre fasi nello sviluppo del linguaggio e della conoscenza.
Secondo Vico la prima lingua sacra (o di caratteri “divini”, o geroglifica), parlata all’alba della storia dell’umanità, trasmetteva contenuti attraverso immagini sensibili ed era fatta principalmente di rappresentazioni gestuali mimiche e di simboli ideografici; in quest’epoca nasceva anche la scrittura, anch’essa ideografica.
La seconda lingua, parlata nella successiva epoca storica “degli eroi”, era “simbolica”, poetica e metaforica, vale a dire consisteva in un linguaggio verbale metaforico e immaginifico, di grande libertà estetica e sintattica, adeguato alla fantasiosa immaginazione delle prime società umane.
La terza lingua, parlata nell’epoca delle società organizzate, era una lingua “pistolare”, verbale e convenzionale, vale a dire una lingua socialmente concordata e controllata, dotata per questo di una grammatica chiara e regolata.
Vico sostiene la tesi (ripresa poi da altri autori, come Condillac) di uno sviluppo della scrittura parallelo a quello del linguaggio: da geroglifica, simbolica e ideografica, la scrittura divenne rappresentazione grafica di blocchi lessicali e infine, passando per uno stadio sillabico, alfabetica. L’alfabeto è quindi per Vico il prodotto finale dell’evoluzione dei sistemi di trascrizione grafica del suono linguistico, e nasce proprio allo stadio più evoluto delle società e dell’intelletto umano.