Charles-Louis de Secondat (1689-1755) nasce nel castello di La Brède, vicino a Bordeaux. Studia al collegio oratoriano di Jully e si iscrive poi alla facoltà di Diritto di Bordeaux, dove inizia la carriera giuridica nel 1708. Dopo un soggiorno a Parigi di qualche anno (1709-1713), nel febbraio del 1714 diventa consigliere al parlamento di Bordeaux. Nel frattempo eredita dallo zio Jean-Baptiste (1635-1716) il titolo di barone di Montesquieu e la carica di presidente di sezione nel parlamento di Bordeaux e nel 1716 viene eletto membro dell’accademia di questa città. L’accademia di Bordeaux diventa un luogo stimolante di incontri scientifici; qui Montesquieu si confronta con la storia antica, in particolare con quella romana, e con i dibattiti scientifici relativi alla medicina, alla fisica o alla storia naturale. Mostra così già in questi anni un’inclinazione per alcuni temi a cui resterà costantemente legato: le questioni relative alla storia, alla politica e al loro rispettivo statuto, e quelle connesse ad argomenti scientifici e naturalistici. Queste ultime sono affrontate con gli strumenti elaborati da Cartesio e da pensatori della tradizione cartesiana quali Malebranche, Fontenelle, Rohault o Claude Perrault.
Nell’aprile del 1716 Montesquieu legge all’accademia una Dissertazione sulla politica dei romani nella religione. L’opera, influenzata dal pensiero di Machiavelli, affronta il tema squisitamente politico dell’utilità sociale della religione e quello della tolleranza religiosa, di cui i Romani avrebbero fornito un esempio ineguagliabile. Legge poi nel novembre del 1721, sempre all’accademia di Bordeaux, un Saggio di osservazioni di storia naturale, che verrà pubblicato postumo nel 1796, dove rende conto di esperimenti scientifici operati negli ultimi anni su vegetali ed animali, talvolta anche con il ricorso al microscopio. In questo saggio si ritrova anche un elogio entusiastico di Descartes: Montesquieu dichiara di essere un “cartesiano rigido” e di seguire un modello rigoroso di meccanicismo secondo il quale la pianta meglio organizzata non sarebbe che “l’effetto semplice e facile del movimento generale della materia”.
Il 1721 è anche l’anno che consacra definitivamente la fama di Montesquieu con la pubblicazione delle Lettere persiane. Questo romanzo epistolare mostra Parigi e l’Europa con gli occhi straniati di due viaggiatori persiani, Usbek e Rica, partiti da Ispahan e giunti in Francia passando per l’Italia. Il loro sguardo distaccato permette a Montesquieu di descrivere senza pregiudizi i costumi, le abitudini e le leggi della società parigina di Luigi XIV e della Reggenza, di cui denuncia le convenzioni sociali, le rivalità confessionali e l’arbitrarietà delle istituzioni. Ma, insieme alla presa di posizione contro il dispotismo, Montesquieu espone anche la propria concezione cartesiana in ambito scientifico e avanza un’ipotesi deista nell’affrontare temi religiosi. Inoltre in alcune lettere relative al popolo dei Trogloditi (lettere 11-14) Montesquieu contesta l’ipotesi di Hobbes basata su una originaria malvagità dell’uomo e, nel rivendicare una naturale socievolezza, introduce quella polemica antihobbesiana che sarà una costante del suo pensiero. In un altro nucleo di 11 lettere analizza i nessi tra religione e demografia considerando storicamente l’influenza delle diverse credenze religiose e delle loro rispettive interdizioni sulla società (si pensi all’ammissibilità o meno del divorzio o al celibato del clero), mentre nelle lettere 60 e 85 prende posizione a favore della tolleranza religiosa.
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Thomas Hobbes
Nel 1728-1729 Montesquieu intraprende un lungo viaggio che attraverso la Germania e l’Austria lo porta in Italia. Qui visita numerose città tra cui Venezia, Milano, Torino, Genova, Pisa, Firenze, Roma e Napoli e incontra personaggi di primo piano della cultura italiana quali Matteo Ripa – che fonderà pochi anni dopo a Napoli nel 1732 il “Collegio dei Cinesi”, istituto d’istruzione per missionari –, il filosofo e naturalista Antonio Conti e lo storico Ludovico Antonio Muratori, autore della monumentale Rerum Italicarum scriptores. Nel luglio del 1729 lascia Trento e l’Italia e dopo essere passato per Monaco, Hannover e Utrecht raggiunge Amsterdam e poi L’Aia. Da qui si imbarca a fine ottobre per l’Inghilterra, dove soggiornerà per più di un anno, fino ai primi mesi del 1731. L’incontro con la cultura e la società inglesi lasciano un segno profondo nella formazione politica di Montesquieu, che in una pagina delle brevi Note sull’Inghilterra, raccolte all’interno dei Viaggi, afferma che “l’Inghilterra è al momento il paese più libero al mondo” a motivo dell’equilibrio dei poteri creatosi tra il re e il parlamento.
Di ritorno dall’Inghilterra Montesquieu si dedica a un’attività di studio e di elaborazione storico-politica. Pubblica infatti un breve trattato politico intitolato Riflessioni sulla monarchia universale in Europa (1734) nel quale analizza i tentativi di costruire uno Stato unico europeo dopo la caduta dell’Impero d’Occidente. Emergono qui alcuni temi che compariranno nelle opere successive, quali la distinzione tra nazioni del Nord e del Sud, i cui diversi caratteri sarebbero l’effetto del clima, la differenza tra un governo basato sulle leggi e uno arbitrario, la condanna del dispotismo o il collegamento tra la natura di un governo e la sua estensione.
Dal 1734 Montesquieu si dedica interamente alla stesura dello Spirito delle leggi, che esce a Ginevra nell’ottobre del 1748; l’opera, ristampata nel 1749 e nel 1750, sarà riedita postuma con alcune modifiche nel 1757.
Alla pubblicazione dello Spirito delle leggi fanno seguito attacchi sia da parte gesuita nei “Mémoires de Trévoux” (aprile 1749) sia da parte giansenista nelle “Nouvelles ecclésiastiques” (ottobre 1749); a queste critiche Montesquieu risponde con la Difesa dello “Spirito delle leggi” (1750), dove respinge le imputazioni di spinozismo e di deismo. L’opera è comunque messa all’Indice nel 1751.
Lo spirito delle leggi ha numerose edizioni e traduzioni nel corso del XVIII secolo. L’opera, ampiamente discussa e commentata nel Settecento, è oggetto anche dell’attenzione di Voltaire, che nel Commento sullo “Spirito delle leggi” (1777) rende omaggio a Montesquieu pur avanzando non poche riserve critiche. Pensatori come Cesare Beccaria (1738-1794) e Gaetano Filangieri (1752-1788) riconoscono il loro debito nei confronti di Montesquieu, il cui pensiero influenza la stessa costituzione americana. Nel corso del XIX secolo l’esigenza di estendere il metodo sperimentale allo studio della società riporta Lo spirito delle leggi al centro dell’indagine di quella “scuola sociologica” che con Auguste Comte (1798-1857) e con Emile Durkheim (1858-1917) ritrova in Montesquieu un “precursore” delle scienze sociali.
Nella Prefazione a Lo spirito delle leggi, Montesquieu ricorda di avere esaminato “l’infinita varietà di leggi e di costumi” convinto che gli uomini non siano guidati dalle loro “fantasie” e che sia quindi possibile ritrovare delle leggi particolari dipendenti da altre leggi più generali.
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Voltaire
L’opera, in XXXI libri, si apre con una teoria generale delle leggi che sono definite “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” (I, 1); in questo stesso primo libro si afferma poi che “la legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra” (I, 3).
Montesquieu non si propone comunque di scrivere un semplice trattato di giurisprudenza; nella sua ricerca delle leggi che governano la società egli è piuttosto interessato a esporre un metodo di analisi e per questo non vuole trattare delle leggi in quanto tali ma dello “spirito delle leggi”, ovvero delle relazioni possibili che le leggi hanno con un complesso di fattori quali il clima, la religione, le forme di governo, gli esempi dell’antichità, i costumi, le usanze. Si tratta allora di delineare quelle cause fisiche e morali la cui unione produce quello “spirito generale” che è diverso in ogni nazione in quanto in ognuna di esse le differenti cause agiscono con maggiore o minore forza. In tal modo lo spirito generale proprio a ogni nazione condiziona e limita i legislatori i quali devono adattarsi a questo spirito stesso che non può essere mutato.
Entro questo modello concretamente storico e fattuale, Montesquieu elabora una tipologia politica che consiste nell’individuare i modelli di governo che hanno ciascuno una propria natura, ovvero una loro specifica struttura, e un proprio principio, quell’insieme di elementi psicologici e sociali legati alle passioni umane, che li muovono e fanno agire. Si distinguono così tre specie di governo: quello repubblicano, quello monarchico e quello dispotico. Il primo tipo di governo è quello nel quale “tutto il popolo, o soltanto una parte del popolo, detiene il potere sovrano” (nel primo caso si ritrova una democrazia e nel secondo una aristocrazia); il secondo tipo di governo è quello “in cui governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse e stabilite”; nel governo dispotico, infine, “uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci” (II, 1).
La repubblica democratica ha avuto degli esempi in Atene o in Roma, quella aristocratica in Venezia. La natura del governo monarchico ha bisogno di “poteri intermedi, subordinati e dipendenti” che presuppongono dei canali “per i quali scorre il potere”: il potere monarchico deve allora essere limitato da quello dei corpi di mezzo quali la nobiltà, il clero o i parlamenti. Il governo dispotico, infine, in quanto basato sulla forza e il potere di una sola persona, si allontana da ogni diritto.
Ogni forma di governo è, inoltre, condizionata da elementi geografici o climatici: la repubblica può instaurarsi solo in paesi di piccole dimensioni, la monarchia in paesi di medie dimensioni come ci sono in Europa, mentre il dispotismo regna nei vasti imperi dell’Asia. Montesquieu mette in relazione nel libro XIV le leggi con “la natura del clima”; nei libri XV, XVI e XVII ricollega al clima le leggi della schiavitù civile, quelle della schiavitù domestica e quelle della schiavitù politica, per rapportare poi nel libro XVIII le leggi “con la natura del terreno”.
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Il dibattito sulla schiavitù
Ogni regime tende a decadere o a corrompersi in concomitanza con la corruzione del suo principio, e inclina verso il dispotismo che risulta il pericolo maggiore per ogni forma di governo. Parallelamente a questa teoria della decadenza Montesquieu elabora la propria concezione della libertà politica. Se la libertà “non consiste affatto nel fare ciò che si vuole”, ma è piuttosto “il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono” (XI, 3), essa non si incarna nella democrazia ma in quelle monarchie dove regna la moderazione politica.
Il capitolo sesto del libro XI sulla costituzione inglese propone lo statuto giuridico della libertà del cittadino che si formalizza nella teoria della distinzione dei poteri; definisce inoltre i i tre poteri dello Stato, cioè legislativo, esecutivo e giudiziario. In accordo con l’esempio offerto dall’Inghilterra Montesquieu propone che questi tre poteri siano separati e attribuiti a tre organi differenti, seppure tra di loro legati. Questa limitazione costituzionale dei poteri risulta garante della libertà dei cittadini che sarebbe invece messa in pericolo dall’accumulo o dalla confusione dei poteri.
Montesquieu considera in due libri, il XXIV e il XXV, le relazioni tra le diverse religioni e lo Stato; pur criticando come assurdo e insostenibile l’ateismo – emblematicamente rappresentato da Bayle – egli mantiene nei confronti della religione un approccio storico e politico. Quest’ultima trova quindi spazio all’interno di un insieme di cause fisiche e morali ed è considerata come un fenomeno sociale che condiziona le forme di governo. Ma l’analisi del suo ruolo sociale lascia spazio anche a una esplicita difesa della tolleranza. Così si immagina che un recente auto-da-fè a Lisbona, dove viene bruciata viva una ragazza ebrea di diciotto anni, abbia prodotto un breve scritto nel quale il suo autore, anch’egli ebreo, denuncia l’assurdità e la crudeltà delle persecuzioni religiose (XXV, 13). Montesquieu condanna inoltre il tribunale dell’Inquisizione in quanto “insopportabile in tutti i governi” (XXVI, 11).
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Pierre Bayle
Le novità religiose sono comunque viste come un elemento destabilizzante per la politica; per questo Montesquieu enuncia come principio fondamentale che “quando si è padroni di accogliere in uno Stato una nuova religione, o di non accoglierla, non bisogna stabilirvela; quando vi è stabilita, bisogna tollerarla” (XXV, 10).
Il grande tema che Montesquieu affronta nello Spirito delle leggi è allora quello dello statuto delle leggi stesse e dei loro rapporti nel tentativo non solo di presentare forme e tipi di costituzione ma anche di garantire una libertà politica basata sull’equilibrio e sulla divisione dei poteri. Si tratta di un equilibrio instabile che corre costantemente il pericolo di una ricaduta nel dispotismo, ma che va comunque perseguito per garantire la libertà dei cittadini.
Nello schierarsi a favore di una libertà politica opposta a ogni dispotismo Montesquieu pone comunque al centro della propria indagine le relazioni tra storia, politica e scienza della società e opera una ricerca di quelle diverse cause morali e fisiche, storiche e naturali, che determinano il costituirsi della società stessa.
Nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), una delle sue opere più importanti, Montesquieu ricostruisce la storia romana spostando sulla realtà storica e sociale quell’indagine delle cause che negli anni Venti aveva indirizzato in particolare al mondo fisico e all’ambito naturale. Si accosta quindi alla storia dell’antica Roma con l’attitudine dell’uomo di scienza che vuole comprendere i fenomeni politici e vuole analizzare le cause che ne hanno prodotto la “grandezza” e la “decadenza”.
Così nel capitolo XVIII Montesquieu nega che sia la fortuna a dominare il mondo e afferma l’esistenza di “cause generali, sia morali sia fisiche” capaci di innalzare, mantenere o fare cadere ogni monarchia. Tutti i “fatti contingenti” sarebbero allora “subordinati a queste cause”, sì che una causa particolare, come una battaglia che fa crollare uno Stato, dipenderebbe dall’andamento generale che “reca con sé tutti i casi particolari”.
Dopo avere affermato la funzione insostituibile delle cause nell’indagine storica, Montesquieu viene poi a delineare uno “spirito generale” che agisce nella storia. Non si ritrova ancora in queste pagine quella definizione di “spirito generale” che comparirà solo nel libro XIX dell’opera maggiore, lo Spirito delle leggi, ma si enuncia comunque l’idea fondamentale dell’esistenza di un carattere comune, presente in tutte le società, che risulta da diverse cause distinte e che contribuisce a determinare il funzionamento di uno Stato.