Testi

T1 George Berkeley Esse est percipi

In questa radicale riformulazione di motivi empiristi, Berkeley, muovendo dalla centralità dell’esperienza e della sensazione, arriva a ricondurre i corpi a fasci di qualità sensibili che non hanno esistenza alcuna al di fuori del soggetto conoscente.

Trattato sui principi della conoscenza umana

da George Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Laterza, Roma-Bari - 1984

Tutti riconosceranno che né i nostri pensieri né i nostri sentimenti né le idee formate dall’immaginazione possono esistere senza la mente. Ma per me non è meno evidente che le varie sensazioni ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme (cioè, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere altro che in una mente che le percepisce.

Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva, se pensa a ciò che significa la parola “esistere” quando vien applicata ad oggetti sensibili. Dico che la tavola su cui scrivo esiste, cioè che la vedo e la tocco; e se fossi fuori del mio studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio, ovvero che c’è qualche altro spirito che attualmente la percepisce. C’era un odore, cioè era sentito; c’era un suono, cioè era udito; c’era un colore o una forma, e cioè era percepita con la vista o col tatto: ecco tutto quel che posso intendere con espressioni di questo genere. Perché per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite.

L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono.

T3 David Hume Il rapporto causa-effetto

Hume riprende un classico esempio della relazione causa-effetto: la comunicazione del movimento da una palla a un’altra che ne viene colpita. Egli riconduce tale relazione a un’inferenza della mente a seguito dell’esperienza ripetuta di un’ abituale connessione tra gruppi di fenomeni.

Trattato sulla natura umana

da David Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari - 1983

Ecco una palla di biliardo che sta ferma su di un tavolo ed un’altra palla che si muove verso di essa con rapidità; le due palle si urtano e quella delle due che prima era ferma, ora acquista un movimento. Questo è un esempio della relazione di causa ed effetto tanto perfetto quanto ogni altro di quelli che noi possiamo conoscere sia per mezzo della sensazione che della riflessione. Perciò esaminiamolo. È evidente che le due palle si sono toccate l’una con l’altra prima che il movimento fosse comunicato alla seconda e che non vi fu intervallo fra l’urto e il movimento della seconda palla.

Perciò la contiguità nel tempo e nello spazio è una circostanza richiesta perché operi una causa qualunque. È del pari evidente che il movimento che è causa precede il movimento che è effetto.

Pertanto la priorità nel tempo è un’altra circostanza che si richiede per ogni causa. Ma questo non è tutto. Facciamo la prova con altre palle qualsiasi della stessa specie in circostanze uguali e troveremo sempre che l’impulso dell’una produce il movimento nell’altra.

Ecco quindi una terza circostanza, quella cioè della congiunzione costante fra la causa e l’effetto. Qualunque oggetto simile alla causa produce sempre qualche oggetto simile all’effetto. In questa causa non posso scoprire nulla, oltre a queste tre circostanze della contiguità, della priorità e della congiunzione costante. La prima palla è in movimento e tocca la seconda; immediatamente la seconda si mette in movimento; e quando faccio la prova con la stessa o con palle simili, nella stessa circostanza o in circostanze simili, trovo che dopo il movimento e l’urto dell’una segue sempre il movimento dell’altra. Per qualunque lato io giri la cosa, e per quanto la esamini, non vi posso trovare nulla di più.

Questo è il caso che si verifica quando sia la causa che l’effetto sono presenti ai sensi. Vediamo ora su che cosa si fonda la nostra inferenza quando noi concludiamo dalla presenza di uno di essi che l’altro è esistito o esisterà. Supponiamo che io veda una palla che si muove in linea retta verso un’altra; immediatamente concludo che esse si urteranno e che la seconda si metterà in movimento.

Questa è l’inferenza dalla causa all’effetto; e di questa natura sono tutti i ragionamenti che facciamo nella condotta della vita; su ciò si fonda tutta la nostra credenza nella storia e di qui deriva tutta la filosofia, con la sola eccezione della geometria e dell’aritmetica. […]

Ne segue, allora, che tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l’effetto sono fondati sull’esperienza e che tutti i ragionamenti che derivano dall’esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. Noi concludiamo che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili.

T5 Voltaire La voce “Tolleranza” dal Dizionario filosofico

Oggetto di una delle sue opere più famose, il Trattato sulla tolleranza, il tema della tolleranza ritorna nella voce omonima del Dizionario filosofico, dove l’affermazione del valore universale della tolleranza come appannaggio dell’umanità si affianca alla critica nei confronti dell’intolleranza di coloro che si professarono cristiani.

Dizionario filosofico

da Voltaire, Dizionario filosofico, Mondadori, Milano - 1962

Che cos’è la tolleranza? È l’appannaggio dell’umanità. Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura.

Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surata, o di Bassora, il guebro, il baniano, l’ebreo, il maomettano, il deista cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero, trafficano tutto il giorno assieme: e nessuno leverà mai il pugnale sull’altro per guadagnare un’anima alla sua religione. E perché allora noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo concilio di Nicea?

Costantino cominciò col dare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì con le persecuzioni. Prima di lui, ci si scagliò contro i Cristiani solo perché essi cominciavano a comporre una specie di stato nello Stato. I Romani permettevano tutti i culti, persino quello degli Ebrei e quello degli Egizi, che pure avevano il loro disprezzo. E perché Roma tollerava questi culti? Perché gli Egizi, e gli stessi Giudei, non cercavano di distruggere l’antica religione dell’Impero, non correvano per terra e per mare allo scopo di fare dei proseliti: pensavano solo a guadagnar denaro. Ma è incontestabile che i Cristiani volevano che la loro religione fosse la dominante. Gli Ebrei non volevano che la statua di Giove fosse a Gerusalemme; ma i Cristiani non volevano che stesse neppure in Campidoglio. […] La loro opinione era che tutta la terra deve essere cristiana: essi erano dunque necessariamente nemici di tutta la terra, fino a che non riuscissero a convertirla.

Essi erano poi nemici fra di loro, su tutti i punti controversi della loro religione. Bisogna cominciare a considerare Gesù come un Dio? Quelli che dicono di no, sono anatemizzati sotto il nome di Ebioniti, i quali a lor volta anatemizzano gli altri. Alcuni di loro vogliono che tutti i beni siano in comune, come si sostiene che fossero ai tempi degli Apostoli? I loro avversari li chiamano “nicolaiti”, e li accusano dei delitti più infami. Altri tendono ad una devozione mistica? Vengon chiamati “gnostici”, e perseguitati con furore. Marcione disputa liberamente sulla Trinità? Vien trattato da idolatra.

Tertulliano, Praxea, Origene, Nevato, Novaziano, Sabellio, Donato, sono tutti perseguitati dai loro confratelli prima di Costantino; e appena Costantino ha fatto trionfare la religione cristiana, gli Atanasiani e gli Eusebiani si fanno a pezzi; e da allora in poi la Chiesa cristiana è inondata di sangue, fino ai giorni nostri. […]

Insensati, che non avete mai saputo adorare con purezza d’animo il Dio che vi ha creati! Sciagurati, che non avete mai imparato nulla dall’esempio dei Noachidi, dei Cinesi, dei Parsi, e di tutti i savi del mondo. Mostri, che avete bisogno delle superstizioni come il becco dei corvi ha bisogno delle carogne! È già stato detto, ma non c’è altro da dire al riguardo: se in uno Stato ci sono due religioni, faranno a scannarsi; se ce ne sono trenta, vivranno in pace. Guardate il sultano: egli è musulmano, e governa dei Guebri, dei Baniani, dei Cristiani greci, dei Nestoriani e dei Cattolici romani. Il primo che cerca di suscitare tumulto, viene impalato, e tutti si tengon tranquilli.

T7 Denis DiderotLa definizione di “Enciclopedia” nell’Encyclopédie

L’articolo è uno dei più importanti dell’Encyclopédie, come manifesto programmatico del pensiero dei Lumi e come esposizione dei criteri metodologici e delle questioni scientifiche ed epistemologiche connesse all’impresa dell’enciclopedia. Nel brano che segue Diderot richiama l’etimologia del termine per definirne il concetto, e insiste sul carattere collettivo dell’impresa, che anche per questo si pone come monumento storico celebrativo dei risultati raggiunti dall’umanità attraverso gli usi della ragione.

Encyclopédie di Diderot e d’Alembert

da Antologia dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, a cura di M. e M. Bonfantini, De Agostini, Novara - 1977

ENCICLOPEDIA: Questa parola significa concatenazione di conoscenze: è composta dalla preposizione greca en, “in”, e dai sostantivi kuklos, “circolo”, e paideia, “conoscenza”.

E infatti lo scopo di un’enciclopedia è quello di raccogliere le conoscenze sparse sulla faccia della Terra; di esporne il sistema generale ai nostri contemporanei, e di trasmetterlo ai posteri, affinchè l’opera dei secoli passati non sia stata inutile per i secoli che verranno, e affinché i nostri nipoti, diventando più istruiti, divengano anche con ciò più virtuosi e più felici, e noi si possa morire avendo ben meritato del genere umano. È certo difficile proporsi un compito più vasto di questo: trattare tutto ciò che entra in rapporto con la curiosità, i doveri, i bisogni e i piaceri dell’uomo. Così alcune persone abituate a giudicare la possibilità di un’impresa in base alle poche risorse che scorgono in se stesse hanno sentenziato che mai noi saremmo riusciti a compiere la nostra. [...]

Se si considera la materia immensa di un’enciclopedia, una cosa balza subito agli occhi: che essa non può essere l’opera di una sola persona. Come infatti un uomo solo, nel breve spazio della sua vita, potrebbe riuscire a penetrare e a esporre organicamente il sistema universale della natura e dell’arte umana, quando la dotta e numerosa società degli accademici della Crusca ha impiegato quarant’anni a compilare il suo vocabolario, e i nostri accademici francesi avevano lavorato sessant’anni al loro dizionario prima di pubblicarne la prima edizione? E tuttavia che cos’è un dizionario linguistico, un vocabolario, anche quando sia eseguito alla perfezione, se non un semplice elenco dei titoli che un dizionario enciclopedico e ragionato deve pienamente sviscerare e illustrare? Si potrebbe pretendere che un uomo sappia da solo padroneggiare tutte le ricchezze del sapere accumulate dal genere umano e disporle in ordine conveniente. Ma quest’opinione mi sembra fallace: non credo che a un uomo solo sia consentito di possedere e di usare tutto lo scibile; di vedere tutto con i suoi occhi e di capire tutto con la sua intelligenza.

[...] Bisogna definire tutti i termini, a eccezione dei radicali, ossia di quei termini che designano sensazioni semplici o le idee astratte più generali. Se non si vogliono fare omissioni indebite, che renderebbero il vocabolario incompleto, chi definirà esattamente il termine coniugato, se non il geometra? il termine coniugazione, se non il grammatico? il termine azimuth, se non l’astronomo? il termine epopea, se non il letterato? il termine cambio, se non il commerciante? il termine vizio, se non il moralista? il termine ipostasi, se non il teo-logo? il termine metafisico, se non il filosofo? il termine sgorbia, se non l’esperto nelle arti meccaniche?

T8 César Chesneau Dumarsais La definizione di “Filosofo” nell’Encyclopédie

La voce, redatta dal grammatico Dumarsais, delinea il ritratto di un nuovo modello di filosofo: non dogmatico né settario, scettico quanto basta per sospendere il giudizio in assenza di certezze, ma risoluto a essere utile alla società e a proporsi come esempio non solo intellettuale ma anche morale.

Encyclopédie di Diderot e d'Alembert

da Antologia dall'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, a cura di M. e M. Bonfantini, De Agostini, Novara - 1977

FILOSOFO. Non vi è cosa oggi che si possa acquistare con minore spesa della nomea di filosofo: una vita oscura e ritirata, qualche mostra di saggezza e un po’ di lettura bastano per attirare il nome di “filosofo” a persone che finiscono per onorarsene senza meritarlo [...]. Ma bisogna avere un’idea più giusta di che cos’è un filosofo; e noi ne vogliamo offrire qui la caratterizzazione. […] La ragione è per il filosofo quello che la grazia è per il cristiano: il cristiano è determinato ad agire dalla grazia, il filosofo dalla ragione. Gli altri uomini sono trascinati dalle loro passioni, senza che le azioni che compiono siano precedute dalla riflessione: sono uomini che camminano nelle tenebre; mentre il filosofo, anche nelle passioni, agisce solo dopo aver ben riflettuto: cammina nella notte, ma c’è una fiaccola che lo precede. [...]La verità non è per il filosofo un’amante che gli corrompa l’immaginazione, e che egli creda di trovare dappertutto. Il filosofo si contenta di farla emergere là dove gli riesce di scorgerla. Non la confonde con la verosimiglianza: prende per vero il vero, per falso il falso, per dubbio e incerto quel che è dubbio e incerto, per verosimile quel che non è altro che verosimile. Fa anche di più, ed è questa una grande perfezione dell’atteggiamento filosofico: quando non ha motivi sufficienti per giudicare, sa sospendere il giudizio.

Il mondo è pieno di persone di spirito, e anche di molto spirito, che giudicano sempre; e sempre tirano a indovinare, perché è tirare a indovinare dare giudizi senza prima interrogarsi e rendersi conto se si possiede o no un adeguato criterio di giudizio. […] Il filosofo crede invece che l’intelligenza consista nel giudicare bene: è più contento di sé, in certi casi, quando ha sospeso la sua facoltà di giudizio, e cioè sempre qualora si sia reso conto di non possedere un criterio adeguato alla decisione […]. Comunemente si intende per “spirito” proprio questa facoltà di operare vivaci e improvvisi collegamenti di idee. Tuttavia, tale qualità è quella meno ricercata dal filosofo, che preferisce al brillìo delle frasi l’attenta distinzione delle idee, la conoscenza precisa delle loro estensioni e dei loro legami e la capacità di non lasciarsi abbagliare da somiglianze o rapporti superficiali. […] Lo spirito filosofico è dunque uno spirito di osservazione e precisione, che riporta tutto ai suoi veri princìpi.

Ma il filosofo non si limita ad affinare in questo modo il proprio giudizio […]. Il nostro filosofo non si crede in esilio in questo mondo, né crede di vivere in un paese nemico: vuole godere saggiamente dei beni che la natura gli offre; vuole ricavare piacere dalla compagnia degli altri, e così cerca di andare d’accordo con quelli con cui il caso o la sua scelta lo fanno vivere, e trova nel medesimo tempo ciò che gli conviene. È un galantuomo che vuoi piacere e rendersi utile. […] La società civile è quasi per lui come una divinità in terra: la incensa e la onora con la probità, con la scrupolosa osservanza dei suoi doveri e con il desiderio sincero di non esserne un membro inutile o fuori posto. I sentimenti di probità entrano in quella che vogliamo dire la “costituzione meccanica” del filosofo tanto quanto i lumi dell’intelligenza.

Più troverete retta ragione in un uomo, e più in lui troverete anche bontà e probità. Dove, al contrario, regnano il fanatismo e la superstizione, lì domineranno anche le passioni e la collera prepotente. Il temperamento del filosofo consiste nell’agire in modo ordinato e razionale; poiché egli ama al massimo grado la società, a lui importa molto più che a tutti gli altri uomini impiegare ogni energia per produrre solo effetti conformi all’ideale dell’uomo sociale e civile.

T9 Jean-Jacques Rousseau Lo stato di natura

In questo originale ripensamento di un tema giusnaturalistico, Rousseau concepisce lo stato di natura come qualcosa che non c’è mai stato né mai ci sarà, usandolo come un’ipotesi necessaria per spiegare la socialità a partire dalla sua mancanza. Il torto dei filosofi giusnaturalisti è stato quello di concepire lo stato di natura come il riflesso della società attuale: in questo modo, sostiene Rousseau, essi sono caduti in un circolo vizioso che non può spiegare nulla.

Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza

da J.J. Rousseau, Scritti politici, Utet, Torino - 1970

I filosofi che hanno studiato i fondamenti della società, hanno tutti sentito il bisogno di risalire fino allo stato di natura, ma nessuno vi è riuscito. Alcuni1 non hanno esitato a supporre che nell’uomo, a questo stadio, vi fosse il concetto di giusto e di ingiusto, senza curarsi di dimostrare se questa nozione gli fosse necessaria, e neppure se gli fosse utile; altri hanno parlato del diritto naturale che ciascuno ha di tenersi quanto gli appartiene2, senza spiegare ciò che intendono per appartenere; altri ancora3, attribuendo anzitutto al più forte l’autorità sui più debole, hanno fatto nascere senz’altro il governo, senza pensare al tempo che dovette trascorrere prima che potessero avere un significato per gli uomini i termini “autorità” e governo.

Tutti infine, parlando continuamente di bisogno, di cupidigia, di oppressione, di desideri e di orgoglio, hanno trasferito nello stato di natura idee che avevano attinto dalla società: parlavano dell’uomo selvaggio, e descrivevano l’uomo civile.