Per saperne di piùEstetica: nascita e sviluppo della scienza del bello

di Elio Franzini

La parola “estetica” nasce nel 1735, nel momento in cui Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) definisce, con questo termine tratto dal greco antico aísthesis, la scienza della conoscenza sensibile o gnoseologia inferior nelle sue Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus, e in modo più ampio con l’Aesthetica del 1750. Con questo termine, che non esiste come sostantivo in greco o in latino, Baumgarten si riferisce agli orizzonti della sensibilità, della poesia, del bello e dell’arte. Al tempo stesso, l’intera Europa del Settecento, anche prima di Baumgarten o là dove non lo si conosce, è attraversata da studi sul gusto, il genio, il bello, il sublime, l’espressione, l’arte, la poesia, a volte rigorosamente differenziati, a volte uniti in un solo e spesso confuso insieme.

La bellezza ha per lui tre aspetti: è accordo di pensieri, che si unificano in fenomeno sensibile, è accordo dell’ordine interno, che deve essere “sentito”; è infine l’accordo che dà il significato, che si istituisce tra i pensieri e le cose. Il contesto generale di Baumgarten è retorico-poetico, inserito tuttavia in una grande tradizione metafisica quale quella leibniziana, che pone l’intera questione sotto il sigillo di una filosofia fortemente connotata in una direzione conoscitiva, che mette in secondo piano il ruolo delle singole arti e le questioni di un’espressività extrapoetica.

L’estetica tuttavia vive anche prima di essere battezzata, nascendo nel luogo stesso in cui è nato il pensiero occidentale, cioè nella Grecia classica. Il termine estetica, che nella società contemporanea ha assunto un significato vicino alla cosmetica e alla capacità di rendere “bello” il corpo, nasce con la filosofia stessa. In greco, pur non essendovi la parola “estetica”, si conoscevano infatti funzioni e significati dell’aísthesis (“sensazione”) e dei suoi correlati, cioè degli aisthetá, le “cose sensibili”. È a questa tradizione terminologica, in primo luogo aristotelica, che si richiama Baumgarten nel momento in cui battezza la nuova disciplina. E, con la terminologia, vi è l’intero insieme di problemi cui essa allude: gli aisthetá, le cose sensibili, sono componenti conoscitive, non la totalità del conoscere. Infatti, accanto a esse, o a esse contrapposte, si pongono gli oggetti del pensiero, strumenti e prodotti della logica, cioè i noetá. Così, parlare di “sensazione” conduce, sin da Aristotele, a delineare i suoi rapporti con i meccanismi generali della conoscenza e, in particolare, con le leggi del pensiero così come esse sono universalmente delineate nella “logica”.

Il bello non entra direttamente da protagonista nella nascita moderna dell’estetica, ma si inserisce come possibilità di incontro tra i campi dell’estetico e dell’artistico, assumendo nella sua storia settecentesca un legame antico con le arti. Un’ampia trattatistica cinquecentesca ne aveva già saldato la terminologia, tra loro collegando, alla ricerca di un ideale armonico e simmetrico, capace di incarnare l’idealità sovrastorica della bellezza, termini “poietici” come invenzione ed espressione.

L’estetica è dunque, nella sua intricata storia, una serie di percorsi che non sempre si incontrano, e che a volte sono anche sentieri interrotti. Se infatti le scarne indicazioni presocratiche sulla bellezza sono forse poco significative, le elaborazioni platoniche sul ruolo del sensibile, del bello e dell’arte costituiscono un punto essenziale dell’intera storia che seguirà: la centralità metafisica della bellezza, il ruolo conoscitivo della poesia, la svalutazione gnoseologica delle arti in quanto “copia di copia”, così direttamente legata alla convinzione del carattere illusorio del sensibile, sono i parametri di riferimento di discorsi che domineranno, a partire dalla prima parte del medioevo cristiano, l’intera storia della disciplina.

La bellezza nel Seicento e Settecento

Temi diversi si incrociano e sviluppano, assumendo una direttrice unitaria, anche se non certo sistematica, tra Seicento e Settecento.

In primo luogo, come sarà in Baumgarten,

ciò accade grazie al pensiero filosofico,

subendo l’essenziale influsso delle diverse interpretazioni di Cartesio presenti nel pensiero di Locke e di Leibniz, interpretazioni che giocano la propria differenza intorno al tema “aristotelico” del sentire. La centralità conoscitiva della sensazione in Locke, a partire dalla ripresa del motto aristotelico “nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi”, fa incontrare l’iniziale assoluta passività della tabula rasa della coscienza, su cui si incidono le tracce sensibili del mondo esteriore, con la capacità di rielaborazione attiva, e riflessiva, di tali tracce in una costruzione di complessi apparati di idee. L’esperienza sensibile ha lo scopo primario di opporsi all’innatismo dei cartesiani: le idee sono sempre il prodotto di un’attività che ha però un avvio passivo e meramente ricettivo. Leibniz, nel suo grandioso tentativo di ripresa critica di Locke, vuole invece salvaguardare la presenza, nei processi conoscitivi, di un principio virtuale capace di ordinare il divenire stesso della conoscenza. Così, se è vero che nulla è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi, è vero anche che l’intelletto, con la sua attiva forza formativa, precede la realtà passiva del sensibile. La coscienza è sempre attiva, non conosce passività, anche se, nei gradi inferiori del suo percorso, questa attività può essere “inconscia”. Leibniz costruisce allora un “albero della conoscenza” all’interno del quale le cartesiane percezioni chiare, distinte e adeguate sono un punto d’arrivo che passa attraverso l’inconscio, il confuso, l’oscuro, tendendo, per un principio di convenienza, o perfezione, intrinseco al processo stesso, verso il meglio, verso una sempre maggiore adeguatezza e perfezione. Esistono delle percezioni che sono del tutto “chiare” - percezioni di suoni, colori, sapori - ma che non hanno la proprietà della “distinzione”, cioè confondono in un’unità indistinta le loro componenti specifiche. Saranno proprio queste percezioni inconsce, o piccole percezioni, nella loro confusa chiarezza, il punto di avvio della estetica baumgarteniana. Portare a “perfezione” questo ordine di sensibilità, questa conoscenza originaria, chiamata da Baumgarten, per i suoi legami con i sensi, gnoseologia inferior, è l’orizzonte scientifico che egli si propone. Ma questo orizzonte ha il suo privilegiato campo applicativo nell’ambito della poesia, dell’oratoria, della retorica, che si trovano immediatamente inserite nel quadro scientifico dell’estetica. Né, d’altro lato, è casuale che quegli studiosi che sono all’origine della moderna teoria dell’arte, come Winckelmann (1717-1768), Lessing (1729-1781) o Herder (1744-1803), vedano in Baumgarten un imprescindibile punto di avvio filosofico per le loro specifiche ricerche di teoria dell’arte.

Dalla disputa tra antichi e moderni all’estetica filosofica

È a questo punto che si annoda un altro filo che genera la vicenda moderna dell’estetica. Ancora una volta l’avvio si pone nel contesto delle dispute poetico-retoriche: in questo caso, in quell’episodio identificato con “querelle tra antichi e moderni”. Avviata da Perrault nel 1687, riprende paradigmi cinquecenteschi e ha chiari principi informatori, ma complesse (e contraddittorie) linee di sviluppo. I “moderni”, pur sospettandone i contenuti, e ignorando il sospetto che a sua volta Cartesio aveva nei confronti del valore conoscitivo dell’arte, sostengono l’importanza di applicare il metodo cartesiano anche al campo artistico. Vi è infatti un progresso non solo nella scienza, ma anche nell’arte, nelle arti che devono essere controllate e regolamentate con chiarezza. Tuttavia, malgrado queste premesse, il partito moderno avrà un successo limitato negli studi estetici, utile forse solo per allontanarli dalla retorica, mentre le vere tappe importanti per la genesi dell’estetica si avranno nelle varie accezioni con cui sarà intesa l’appartenenza al variegato mondo degli “antichi”. Da un lato, infatti, essi sono rappresentati da una posizione “classicista”, guidata da Boileau (1636-1711), cioè dall’autore dell’Art poétique (1674), vero maestro di quel classicismo accademico che domina il mondo pragmatico delle arti nella fine del Seicento e per gran parte del Settecento: non si nega la presenza delle emozioni nell’arte, presenza che ne garantisce il senso “eterno” al di là delle variazioni della storia, ma si ritiene che queste emozioni debbano venire ricondotte in apparati di regole, immutabili e tramandabili nella loro immutabilità. D’altro lato, invece, ci si riconnette, inizialmente con evidente intenzione anticartesiana, alla filosofia di Locke: l’arte è l’espressione di emozioni e la superiorità degli antichi sui moderni è data proprio dal fatto che le emozioni che suscitano in noi le opere degli antichi hanno dimostrato la capacità di costruire, attraverso la storia, il senso di un percorso “estetico” che mai perde il proprio valore. Autori come Jean-Baptiste Du Bos, con le sue Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura, sono all’origine di questo atteggiamento. Anche quando, come in Charles Batteux (1713-1780), si tenta un “sistema delle arti”, i criteri non sono sottomessi a regole estrinseche, bensì scaturiscono dalle specificità espressive e simboliche delle arti stesse, dal rapporto che esse instaurano con le forze naturali che le costituiscono e di cui sono un’interpretazione espressiva. La medesima forza “geroglifica” dell’arte, che ne scardina gli apparati tradizionali, si ritrova in Denis Diderot (1713-1784), che vede nell’arte una via espressiva per interpretare la natura. Per cui, da una disputa accademica scaturisce un percorso che segna un superamento filosofico dei parametri che legavano l’arte alla retorica: le regole non sono immutabili vincoli, bensì derivano dall’adesione alle specificità del materiale che l’arte lavora ed interpreta per renderlo espressivo e comunicativo sul piano emotivo, storico, sociale, culturale. Quest’asse, che genericamente potremmo chiamare “anticlassicistico”, corre attraverso la cultura europea e, al di là delle differenze filosofiche specifiche, ha sempre in Locke un punto di riferimento unitario, che si ritrova in Francia ma anche, e in modo particolarmente ricco, nello studio sul sublime di Edmund Burke (1729-1797) sino agli scritti di Winckelmann e Lessing, che cercano appunto modi nuovi per entrare in rapporto con la “classicità” dell’arte, modi che non possano venire confusi con quelli del classicismo del Seicento francese.

Il pensiero barocco

Accanto a queste strade, con i loro riferimenti filosofici definiti, si pone un percorso più frammentato, all’interno del quale si rielaborano sia le categorie del pensiero barocco (dal Wit all’agudeza, dall’esprit all’ingegno) sia quegli apparati concettuali tradizionali, in primo luogo della bellezza, che la storia del pensiero aveva considerato senza prestare attenzione ai legami con il mondo delle arti. Attraverso varie esperienze, che hanno storie filosofiche diverse, si crea, tra Seicento e Settecento, quel “vocabolario”, quell’insieme categoriale, che ha accompagnato la storia dell’estetica: il genio, il gusto, il sublime, l’espressione, il bello, l’immaginazione, il sentimento sono temi che possono venire ricondotti, pur nella loro varietà, a impostazioni unitarie. Da Cartesio a Pascal, da Leibniz a Locke vi è il tentativo di costruire quella che esplicitamente Hume chiamerà “scienza dell’uomo”. In essa, accanto alla logica, alla morale, alla politica, vi deve essere spazio per un orizzonte qualitativo che, al di là dei differenti punti di vista, sempre più si impone nella vita sociale settecentesca: questo orizzonte può venir chiamato “estetica”, come in Germania, o criticism, come in Inghilterra, ma in ogni caso ha lo scopo di discutere la relazione dei soggetti con il mondo della varietà, delle qualità, dei sentimenti, di giudizi che, non avendo la certezza della scienza, siano almeno in grado di giustificare e fondare filosoficamente un diffuso “senso comune” intorno alla realtà teorica dell’emozionalità, in primo luogo connessa al mondo delle arti.

Arte e bellezza

Sin dai primi anni del Settecento si hanno su questo tema due trattati: il Trattato (1714-1715) del ginevrino Jean-Pierre Crousaz (1663-1749) e il Saggio sulla bellezza (1715) del gesuita Yves-Marie André (1675-1764). Entrambi seguono una corrente di ispirazione cartesiana, che mira in primo luogo a fissare sul piano metodologico e terminologico un campo attraversato da innumerevoli questioni teoriche e pragmatiche.

Diverso invece il ruolo rivestito da Shaftesbury (1671-1713) che dedica ampio spazio alla questione della bellezza nella sua Ricerca sulle virtù e il merito (1699). Partendo da presupposti platonici, Shaftesbury tende a conciliare il bello, il bene e il vero per mostrare come, attraverso l’arte, si possa giungere a cogliere la bellezza del mondo: l’universo è un insieme che tende all’unità e l’artista è il continuatore della creazione originaria, il costruttore di una totalità organica in cui dominano armonia e proporzione. L’artista è il virtuoso, cioè un conoscitore e amatore dell’arte che possiede un’energia costruttrice, un entusiasmo pervaso di forza morale, parente della mania platonica. La bellezza sensibile è dunque soltanto il primo passo per salire, grazie all’entusiasmo, verso un bello morale e razionale: la bellezza ha un carattere divino e sollecita in noi la parte divina, rivelata dalla vita del sentimento e delle passioni.

Se i paradigmi di Shaftesbury sono evidentemente ispirati a un’istanza metafisica che si oppone al nascente empirismo, il pensiero di Joseph Addison (1672-1719) è invece fortemente debitore nei confronti di Locke. Le sue idee estetiche ebbero ampia diffusione grazie al quotidiano “The Spectator” di cui pubblica, dal 1711 al 1712, ben 555 numeri, di cui undici, con il titolo I piaceri dell’immaginazione (The Pleasures of Imagination), sono integralmente dedicati a questioni di estetica. Addison è consapevole dell’ambiguità che circonda il termine “immaginazione” e cerca allora di qualificarla come un potere che “sta in mezzo” tra la sensibilità e l’intelletto, in grado di suscitare uno specifico sentimento di piacere. Questi “piaceri dell’immaginazione” possono essere “primari”, se generati da un oggetto fisicamente presente ai nostri occhi, o “secondari” se suscitati da cose assenti o riunite insieme attraverso la piacevole combinazione di elementi fittizi. In ogni caso, il piacere non è uno stato di confusione bensì il correlato del gusto, di una relazione sensibile con la natura e, secondariamente, con l’arte.

Il pensiero di Addison delinea dunque un territorio specifico per i problemi dell’arte e del bello: ma la loro prima vera e propria “sistematizzazione” avviene nell’opera di Francis Hutcheson (1694-1746), che nella sua Indagine sull’origine delle nostre idee di bellezza e virtù (1725), stempera la polemica antilockiana del maestro Shaftesbury ipotizzando l’esistenza di un “senso interno” capace di afferrare la bellezza come “uniformità con varietà”. La definizione della bellezza non è oggettiva, non si riferisce a una qualità intrinseca agli oggetti, bensì a un’idea che, di fronte a un modo di disporsi delle qualità delle cose, suscita quel senso interno che tale bellezza riconosce. Con Hutcheson prende avvio la cosiddetta “scuola scozzese” che ha in David Hume e nel suo Saggio sul gusto (1757) uno dei suoi maggiori rappresentanti. Ma un ruolo particolare spetta a Edmund Burke (1729-1797) e alla sua Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di sublime e bellezza (1757). Pur essendo in lui ricca ed evidente l’eredità empirista (dai poteri attribuiti all’immaginazione alle funzioni del gusto), il suo interesse è particolarmente rivolto alla ricerca del ruolo che le passioni e i sentimenti, e in primo luogo il piacere e il dolore, hanno nella loro connessione estetica con la natura e con l’arte. Se il piacere positivo viene tradizionalmente connesso alla bellezza, esiste tuttavia anche un piacere ambiguo, che si mischia con il dolore e origina quel che Burke chiama sublime. Il sublime ha la funzione di spezzare il cerchio delle poetiche classiciste e di mostrare le questioni delle facoltà soggettive di fronte all’oscurità del mondo delle passioni, che originano un universo espressivo che le regole del classicismo, o di una bellezza armonica, non sono più in grado di spiegare.

La ragione poetica: Giambattista Vico

Giambattista Vico nella sua Scienza nuova (che ebbe tre edizioni: 1725, 1730, 1744), pur parlando ancora in modo confuso di “fantasia”, segnala, con le sue critiche a Cartesio, che il razionalismo ha costruito un’idea di scienza che esclude da sé la storia, la fantasia, il mondo della qualità e della metafora. Si tratta dunque, sulla base di autori quali Platone, Tacito, Grozio e Bacone, di costruire una scienza “storica”, capace di descrivere le età attraversate dal mondo, di coglierne le caratteristiche essenziali.

La lingua delle prime due età, quella degli dèi e quella degli eroi, parla per immagini e metafore, è una lingua geroglifica vicina all’espressività dei gesti. La sapienza poetica che questa lingua esprime è radicata nel legame sensibile, e originario, tra la fantasia degli uomini e le qualità della natura: è una sorta di logica “muta” in cui si esalta la valenza espressiva del gesto, l’aspetto misterico del geroglifico, la forza mitica della creatività. Sensi e passioni sono dunque le basi del linguaggio mitico, che li traduce in metafore e in simboli, in quelli che Vico chiama “universali fantastici”, che solo la poesia può esprimere. Il soggetto è qui attivo, ha una relazione organica con la “natura numinosa”, è catturato da un’emozione che si traduce in forza costruttiva, in energia poetica.

Kant e la critica del gusto

Il pensiero di Kant, che certo rappresenta il punto più alto dell’estetica settecentesca e il suo inserimento nel quadro complesso della filosofia critica, non può essere riguardato come la tappa conclusiva di un percorso cosciente e autoconsapevole bensì come il momento teorico in cui la molteplicità dell’estetica semplicemente riconosce la propria irriducibile complessità. Kant infatti, nella Critica della ragion pura (1781), utilizza il termine estetica riferendolo alle forme a priori dell’intuizione pura, cioè spazio e tempo. Solo in seguito, nella Critica del Giudizio (1790), pur negando che dell’estetica possa darsi scienza, la connette al giudizio di gusto e alla questione della bellezza. Qui, inoltre, Kant inserisce il tema del giudizio estetico nel quadro del giudizio riflettente, cioè di una particolare funzione soggettiva capace di comprendere l’intrinseca unità finale della natura senza separarla in un’infinità di singoli fenomeni meccanici.

Il contesto generale dell’estetica kantiana è particolarmente complesso. Forse il suo tema centrale va identificato ricordando che è qui centrale il problema del sentimento. È infatti un orizzonte che si presenta sia nel giudizio teleologico, quando è sentimento della finalità della natura, sia nel giudizio estetico, in cui si presenta come sentimento di piacere e dispiacere nei confronti del bello o del sublime. In ogni caso Kant vuole sottolineare che la connessione tra il sentimento e il giudizio non si riferisce mai all’oggettività della natura o dell’arte, bensì a ciò che il soggetto prova in sé nel momento in cui riconosce finalità e bellezza nella natura. Non si è allora di fronte a un giudizio teoretico-conoscitivo bensì a un “libero gioco” tra l’immaginazione e l’intelletto, che origina un giudizio di gusto, cui è correlato il sentimento di piacere del soggetto. Tale giudizio, in virtù di questa “giocosità” che lo rende immune da scelte scientifiche o morali, e pur rimanendo soggettivo, si presenta come universale e necessario.

D’altra parte, malgrado le rigide opzioni di partenza, l’estetica kantiana non è mai riducibile in un quadro sistematico: le funzioni estetiche del soggetto non si limitano a un’analitica formale ed entrano nell’intera complessità della vita estetica. Ne è prova ed esempio l’analitica del sublime, in cui Kant, riprendendo il termine di Burke, ne coglie l’ambiguità estetica: da un lato è infatti sentimento di dispiacere per l’incapacità della nostra immaginazione sensibile a contenere la grandezza di uno spettacolo naturale; dall’altro, tuttavia, è sentimento di piacere perché la contemplazione estetica della grandezza genera in noi il sentimento della “destinazione sovrasensibile” delle nostre limitate facoltà soggettive: perché, in altri termini, porta il fenomeno sul piano della ragione, arricchendolo di sfumature etiche.

Le relazioni tra immaginazione e ragion pratica che sono al centro del sublime tornano là dove Kant affronta il problema dell’arte e del genio, cioè quelle questioni che maggiormente influiranno sulle generazioni successive. Il genio non è certo un potere sregolato, bensì il talento naturale che dà la regola all’arte, costruendo “idee estetiche” capaci di mettere in movimento la complessità di tutte le facoltà soggettive. Una complessità che non è più possibile contenere in un quadro armonico e regolato.

Saranno infatti proprio questi ultimi temi dell’estetica kantiana, cioè quelli che guardano all’ambiguità del sublime e alla ricchezza irrappresentabile dei pensieri suscitati dalle idee estetiche, ad aprire quelle prospettive su cui, insoddisfatti della separazione tra fenomeno e noumeno, e del ruolo rivestito dall’immaginazione, si porranno le ricerche del romanticismo e del primo idealismo tedesco.

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"Agli uomini che coltivano le arti"