Tratto dalla prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il brano che segue presenta, attraverso gli esempi della fisica e della metafisica, le caratteristiche grazie alle quali la conoscenza può dirsi scientifica. È la cosiddetta “rivoluzione copernicana del pensiero”: l’indagine critica di Kant si sposta dalla realtà ai modi del conoscere propri del soggetto, ai quali gli oggetti della realtà devono adattarsi.
Critica della ragion pura
da Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari - 20124
Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato, con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformò i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, togliendovi o aggiungendo qualche cosa, fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura.
Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con princìpi de’ suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno.
È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sibbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge. La fisica pertanto è debitrice di così felice rivoluzione compiutasi nel suo metodo solo a questa idea, che la ragione deve (senza fantasticare intorno ad essa) cercare nella natura, conformemente a quello che essa stessa vi pone, ciò che deve apprenderne, e di cui nulla potrebbe da se stessa sapere. Così la fisica ha potuto per la prima volta esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti secoli essa non era stata altro che un semplice brancolamento.
Alla metafisica, conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l’applicazione di questi all’intuizione), nella quale dunque la ragione deve essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e sopravvivrebbe anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel baratro di una barbarie che tutto devastasse. Giacché la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. [...] Non v’è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti.
[...] Si faccia, dunque finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò che si accorda meglio con la desiderata possibilità d’una conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati.
Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’intuizione degli oggetti.
Kant sostiene che il noumeno, o “cosa in sé”, è una pura idea negativa, un concetto-limite. Quello a cui l’intelletto può applicare l’insieme delle categorie è solo l’ambito fenomenico offertoci dall’esperienza. Tuttavia, il concetto di noumeno non è contraddittorio né inutile, in quanto serve per stabilire dei confini all’ambito della conoscenza umana.
Critica della ragion pura
da Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari - 20124
Il concetto di un noumeno, cioè di una cosa che deve esser pensata non come oggetto dei sensi, ma come cosa in sé (unicamente per l’intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacché non si può della sensibilità asserire che sia l’unico modo possibile di intuizione. Anzi, questo concetto è necessario, acciò l’intuizione sensibile non venga estesa fino alle cose in sé, e sia così limitata la validità oggettiva della conoscenza sensibile; (giacché le restanti cose, a cui quella non giunge, si chiamano appunto per ciò noumeni, per indicare così che tale conoscenza non può estendere il suo dominio anche a ciò che pensa l’intelletto). Ma, infine, nemmeno della possibilità di tali noumeni è possibile punto rendersi conto, e il territorio di là dalla sfera dei fenomeni (per noi) è vuoto; cioè, noi abbiamo un intelletto, che si estende al di là problematicamente, ma non una intuizione, e neppure il concetto d’una possibile intuizione, onde possano esser dati oggetti fuori del campo della sensibilità, e l’intelletto possa essere usato al di là di essa in modo assertorio. Il concetto di noumeno è dunque solo un concetto-limite (Grenzbegriff), per circoscrivere le pretese della sensibilità, e di uso, perciò, puramente negativo. Ma esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, sibbene si connette colla limitazione della sensibilità, senza poter nondimeno porre alcunché di positivo al di fuori del dominio di essa.
Dalla riflessione di Hume Kant ha cominciato a intuire la funzione attiva che il soggetto conoscente svolge nella costruzione delle sue conoscenze. Egli se ne distaccherà ben presto proprio in quanto, a differenza di Hume, arriverà a individuare dei concetti a priori, quindi non derivati dall’esperienza, che tuttavia la articolano e le conferiscono forma.
Prolegomeni ad ogni futura metafisica
da Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, Laterza, Roma-Bari - 1982
Lo confesso francamente: l’avvertimento di David Hume fu proprio quello che, molti anni or sono, primo mi svegliò dal sonno dommatico e dette un tutt’altro indirizzo alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa. Mi tenni ben lontano dal seguirlo nelle conseguenze, che provenivano solo dal fatto che egli non si propose la questione nella sua integrità, ma si fermò solo su di una parte di essa, che non può offrire nessuna spiegazione senza involgere il tutto. […]
Ricercai, dunque, dapprima, se l’obbiezione di Hume poteva generalizzarsi, e subito trovai che il concetto di connessione tra causa ed effetto non è affatto l’unico, con cui l’intelletto pensa a priori i nessi tra le cose, e che anzi la metafisica consta tutta quanta di essi.
Cercai di assicurarmi del loro numero, ed, essendomi ciò riuscito secondo il mio desiderio, di trarli, cioè, da un unico principio, pervenni così alla deduzione di questi concetti, dei quali ero oramai sicuro che non sono, come Hume aveva ritenuto, derivati dall’esperienza, ma traggono origine dall’intelletto puro. […]
Or siccome ciò mi era riuscito con la soluzione del problema di Hume non solo in un caso particolare, ma anche rispetto a tutta la facoltà della ragion pura; così potei avanzarmi con passi sicuri, per quanto certo lenti, per riuscire finalmente a determinare completamente e secondo princìpi generali tutta l’estensione della ragion pura, così nei suoi limiti come nel suo contenuto; il che appunto era ciò di cui la metafisica avea bisogno per costruire il suo sistema secondo un piano sicuro.
In questo passo Kant propone la celebre distinzione tra imperativi categorici e imperativi ipotetici. In entrambi i casi si tratta di norme che determinano un’azione: tuttavia gli imperativi ipotetici prescrivono un’azione determinata in vista di uno scopo da perseguire, mentre gli imperativi categorici definiscono una determinata azione come buona di per sé.
Fondazione della metafisica dei costumi
da Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza - 1992
Poiché ogni legge pratica presenta un’azione possibile come buona, quindi come necessaria per un soggetto che sia praticamente determinabile dalla ragione, tutti gli imperativi sono formule di determinazione dell’azione necessaria secondo il principio di una volontà in qualche modo buona. Ora, se l’azione è buona esclusivamente come mezzo per qualcos’altro, l’imperativo è ipotetico; se invece è pensata come buona in sé, quindi necessaria per una volontà in sé conforme alla ragione, come principio della volontà stessa l’imperativo è categorico.
L’imperativo dice quindi quale delle azioni possibili sia la buona ed è la regola pratica di una volontà che non compie immediatamente un’azione perché buona, o perché il soggetto non sa che essa è buona, o perché, anche sapendolo, le sue massime possono essere in contrasto coi princìpi oggettivi della ragion pratica.
L’imperativo ipotetico sta a significare soltanto che l’azione è buona in vista di qualche scopo, possibile o reale. Nel primo caso è un principio problematicamente pratico, nel secondo è un principio assertoriamente pratico. L’imperativo categorico che presenta l’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, a prescindere da qualsiasi scopo, cioè anche in mancanza di qualsiasi altro fine, vale come principio apodittico (pratico).
Nel dicembre del 1783 Kant risponde alle osservazioni polemiche del predicatore Zollner sull’Illuminismo, sulle pagine di quella stessa “Rivista mensile di Berlino” che aveva ospitato l’intervento del suo avversario. L’articolo contiene la storica definizione dell’Illuminismo come uscita dell’uomo dallo stato di minorità intellettuale, insieme al detto oraziano “sapere aude” adottato come motto della cultura dei Lumi.
Che cos’è l’Illuminismo
da Immanuel Kant, Che cos’è l’Illuminismo, a cura di Nicolao Merker, Editori Riuniti, Roma - 1997
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro.
Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È dunque il motto dell’Illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita: e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far si che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori del girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché a prezzo di qualche caduta essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo.
È dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata pressoché una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e attualmente è davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova.
Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità.