Le Lezioni sulla missione del dotto vengono pubblicate nel 1794, quando Fichte è chiamato ad assumere la docenza all’università di Jena. Tema del testo è di illustrare quale debba essere il ruolo, all’interno della società, dell’intellettuale, descritto da Fichte come “educatore dell’umanità”, e di conseguenza quale sia il valore e il significato della cultura stessa nel percorso storico dell’umanità.
La missione del dotto
da J. G. Fichte, La missione del dotto, Mursia, Milano - 1987
L’acquisto della capacità diretta da un lato a reprimere e eliminare le cattive inclinazioni sviluppatesi prima del destarsi della nostra ragione e del senso della nostra autonomia, dall’altro a modificare le cose fuori di noi e a porle in armonia coi nostri concetti, l’acquisito di tale capacità, dico, si chiama cultura; e parimenti si designa con questo nome anche quel certo grado che si è acquistato di tale capacità. La cultura ha diversità soltanto di gradi; ma essa è suscettibile di un’infinità di gradi. Essa è l’ultimo e più alto mezzo pel raggiungimento del fine supremo dell’uomo, che è la piena coerenza con se stesso, se si considera l’uomo come essere ragionevole e sensibile insieme; è essa stessa il fine ultimo, se si considera l’uomo come essere puramente sensibile. La sensibilità deve essere coltivata: ecco ciò che di più alto e di meglio possiamo fare.
[...] Sottomettere a noi tutto ciò che esiste di irragionevole, dominarlo liberamente e secondo la legge a noi propria, è il fine ultimo dell’uomo; fine ultimo il quale è affatto irraggiungibile e rimarrà eternamente irraggiungibile tranne che l’uomo non debba cessare d’essere uomo e divenir Dio. […] La missione dell’uomo, quindi, non è di raggiungere questo fine. Ma egli può e deve avvicinarsi sempre più alla sua meta: or dunque l’avvicinarsi infinitamente a questa meta è la vera missione dell’uomo in quanto uomo, cioè in quanto essere ragionevole ma finito, in quanto essere sensibile ma libero.
[…] Il dotto dunque deve impiegare effettivamente a vantaggio della società quella dottrina che appunto per la società ha acquistato: deve condurre gli uomini alla consapevolezza dei loro veri bisogni e far loro conoscere i mezzi per soddisfarli. [...] E allora come può, come deve fare il dotto per diffondere le cognizioni da lui possedute? La società non potrebbe esistere senza la fiducia nella probità e nell’abilità altrui, e questa fiducia è quindi profondamente radicata nel nostro cuore; e, per un vero beneficio della natura, questo sentimento di fiducia non si trova mai in così alto grado in noi come quando abbiamo più vivo il bisogno di rivolgerci alla probità e all’abilità degli altri. Il dotto può contare su questa fiducia nella sua probità e abilità, se ha saputo acquistarsela, com’è suo dovere.
Inoltre esiste in tutti gli uomini quello che si può chiamare senso del vero, e tutto questo naturalmente non basta da solo, ma deve essere sviluppato, messo alla prova, purificato; e far ciò è appunto il compito del dotto. […] Il dotto quindi può calcolare insieme anche su questo senso del vero. Il dotto [...] è per la sua missione il maestro del genere umano.
Ma egli deve non soltanto condurre gli uomini alla consapevolezza dei loro bisogni in generale e dei mezzi per soddisfarli; egli ha in particolare il dovere, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, di guidarli a riconoscere proprio i bisogni attuali, quelli che si presentano in quelle determinate circostanze, e insieme ai mezzi possibili, nelle circostanze date, per raggiungere i fini a cui si deve mirare. Egli vede non soltanto il presente, ma anche il futuro; non soltanto il punto di vista attuale, ma anche la direzione che l’umanità deve costantemente seguire [...]. Sotto questo rispetto, pertanto, il dotto è l’educatore dell’umanità.
Il brano è tratto dal sesto capitolo del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e si propone, come si legge nel titolo del capitolo stesso, di esporre delle “proposizioni fondamentali di filosofia dell’arte secondo i principi dell’idealismo trascendentale”. L’arte, per Schelling, è attività al contempo conscia e inconscia, finita e infinita, e nasce quindi dal sentimento di questa infinita contraddizione; essa trova tuttavia nel prodotto estetico un’unità armonica, che si esprime visibilmente nella forma della bellezza.
Sistema dell’idealismo trascendentale
da F.W.J.Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Rusconi, Milano - 1997
L’opera d’arte riflette per noi l’identità di attività conscia e di attività priva di coscienza. Ma l’opposizione di queste due attività è infinita e viene superata senza ricorrere a qualsivoglia intervento della libertà. Il carattere fondamentale dell’opera d’arte è perciò un’infinità priva di coscienza. Oltre quanto vi ha messo con un’intenzione manifesta, l’artista sembra aver esposto nella sua opera, per dir così istintivamente, un’infinità che nessun intelletto finito è capace di sviluppare interamente.
Prendiamo, per illustrare in modo perspicuo, un solo esempio: la mitologia greca, di cui non si può negare che contenga un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in seno a un popolo e in una maniera tali, l’uno e l’altra, da far ritenere impossibile un’intenzionalità permanente nell’invenzione e nell’armonia con la quale il tutto si trova unificato in un unico vasto insieme. Così avviene per ogni vera opera d’arte, perché essa, quasi vi fosse in lei un’infinità di intenzioni, è capace di un’infinita interpretazione, benché non si possa mai dire se questa infinità sia stata presente nell’artista medesimo o si trovi soltanto nell’opera d’arte. Al contrario, nel prodotto che unicamente simula il carattere dell’opera d’arte, intenzione e regola affiorano in superficie e paiono cosi delimitate e circoscritte che il prodotto non è altro che l’impronta fedele dell’attività conscia dell’artista e, con ciò, un oggetto soltanto per la riflessione, ma non per l’intuizione, la quale ama sprofondarsi in quel che intuisce e può trovar quiete unicamente nell’infinito.
Ogni produzione estetica muove dal sentimento di una contraddizione infinita, quindi bisogna altresì che il sentimento che accompagna il compimento del prodotto artistico sia quello di una soddisfazione infinita, e questo sentimento deve a sua volta trapassare nell’opera d’arte stessa. L’espressione esterna dell’opera d’arte è pertanto l’espressione della quiete e della calma grandezza, persino laddove si tratta di esprimere l’estrema tensione del dolore o della gioia.
Ogni produzione estetica procede da una separazione, in sé infinita, delle due attività che in ogni libero produrre sono separate. Ora, giacché queste due attività devono essere presentate nel prodotto come unite tramite questo prodotto medesimo, un infinito sarà così esposto in modo finito. Ma l’infinito esposto in modo finito è bellezza. Il carattere fondamentale di ogni opera d’arte, che comprende in sé i due precedenti, è allora la bellezza, e senza bellezza non v’è opera d’arte alcuna.
Il brano che segue, tratto dalla sezione sull’autocoscienza della Fenomenologia dello Spirito (1807), presenta le figure del signore e del servo e il loro rapporto. Tali figure hanno la funzione di illustrare, sul piano storico, un momento cruciale della fase dell’autoscienza, quello attraverso il quale la coscienza di sè del padrone, che inizialmente si presenta come forma autentica dell’autocoscienza, lascia progressivamente il passo alla coscienza servile; essa si rivela essere la vera autocoscienza, grazie all’emancipazione, attraverso il lavoro, dalla dipendenza nei confronti del padrone. Pagine, queste, che nella tradizione filosofica sono state oggetto di molte indagini, riletture e interpretazioni, a partire soprattutto da Marx e fino alla tradizione filosofica francese del Novecento, con autori come Kojeve e Hyppolite.
Fenomenologia dello Spirito
da G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze - 1960
Il signore è la coscienza che è per sé; ma non più soltanto il concetto della coscienza per sé, anzi coscienza che è per sé, la quale è mediata con sé da un’altra coscienza, cioè da una coscienza tale, alla cui essenza appartiene di essere sintetizzata con un essere indipendente o con la cosalità in genere. Il signore si rapporta a questi due momenti: a una cosa come tale, all’oggetto, cioè, dell’appetito; e alla coscienza cui l’essenziale è la cosalità; e mentre egli a) come concetto dell’autocoscienza è immediato rapporto dell’esser-per-sé, pur essendo in pari tempo b) come mediazione o come un esser-per-sé che è per sé soltanto mediante un altro, si rapporta a) immediatamente ad ambedue, e b) mediatamente a ciascheduno mediante l’altro. Il signore si rapporta al servo in guisa mediata attraverso l’indipendente essere, che proprio a questo è legato il servo; questa è la sua catena, dalla quale egli non poteva astrarre nella lotta; e perciò si mostrò dipendente, avendo egli la sua indipendenza nella cosalità. Ma il signore è la potenza che sovrasta a questo essere; giacché egli nella lotta mostra infatti che questo essere gli valeva soltanto come un negativo; siccome il signore è la potenza che domina l’essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull’altro individuo, così, in questa disposizione sillogistica, il signore ha sotto di sé questo altro individuo.
Parimente, il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo; anche il servo, in quanto autocoscienza in genere, si riferisce negativamente alla cosa e la toglie; ma per lui la cosa è in pari tempo indipendente; epperò, col suo negarla, non potrà mai distruggerla completamente; ossia il servo col suo lavoro non fa che trasformarla. Invece, per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa: ossia il godimento; ciò che non riuscì all’appetito, riesce a quest’atto del godere: esaurire la cosa e acquetarsi nel godimento.
Non potè riuscire all’appetito per l’indipendenza della cosa; ma il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, si conchiude così soltanto con la dipendenza della cosa, e puramente la gode; peraltro il lato dell’indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora. In questi due momenti per il signore si viene attuando il suo esser-riconosciuto da un’altra coscienza; questa infatti si pone in essi momenti come qualcosa di inessenziale; si pone una volta nell’elaborazione della cosa, e l’altra volta nella dipendenza da un determinato esserci; in entrambi i momenti quella coscienza non può padroneggiare l’essere e arrivare alla negazione assoluta.
Qui è dunque presente il momento del riconoscere per cui l’altra coscienza, togliendosi come esser-per-sé, fa ciò stesso che la prima fa verso di lei; ed è similmente presente l’altro momento, che l’operare della seconda coscienza è l’operare proprio della prima; perché ciò che fa il servo è propriamente il fare del padrone; a quest’ultimo è soltanto l’esser-per-sé, è soltanto l’essenza [...]. La coscienza inessenziale è quindi per il signore l’oggetto costituente la verità della certezza di se stesso. È chiaro però che tale oggetto non corrisponde al suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo compimento, gli è divenuta tutt’altra cosa che una coscienza indipendente; non una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è dunque certo dell’esser-per-sé come verità, anzi la sua verità è piuttosto la coscienza inessenziale e l’inessenziale operare di essa medesima.
La verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile. Questa da prima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell’autocoscienza. Ma come la signoria mostrava che la propria essenza è l’inverso di ciò che la signoria stessa vuoi essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà piuttosto il contrario di ciò ch’essa è immediatamente.
Una delle tesi centrali del pensiero hegeliano è l’identità di reale e razionale. Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, la filosofia è descritta come pensiero che sa cogliere, oltre l’apparenza “variopinta” e transitoria, la “Sostanza immanente”, la struttura razionale della realtà. Il reale è compimento del razionale, e la filosofia è la presa di coscienza di una realizzazione che è già avvenuta storicamente: con un’immagine divenuta celebre, Hegel la paragona alla nottola di Minerva, che si alza in volo soltanto sul fare della sera.
Lineamenti della filosofia del diritto
da G.W.F. Hegel, Il sistema filosofico, a cura di A. Banfi, La Nuova Italia, Firenze - 1992
Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale.
Questa convinzione è propria di ogni coscienza ingenua oltre che della filosofia, e da essa questa procede alla considerazione dell’universo spirituale come di quello naturale.
Se la riflessione, il sentimento o qualsiasi altra forma della coscienza soggettiva riguarda il presente come cosa vana, l’oltrepassa e vuol conoscere qualcosa di meglio, si trova sospesa nel vuoto e poiché solo nel presente ha realtà, essa stessa non è che vanità. Se invece si voglia concepire l’idea come una semplice idea nel senso di una rappresentazione soggettiva, la filosofia afferma il principio che nulla è reale se non l’idea. Ciò che allora importa è di riconoscere nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la Sostanza immanente, l’Eterno che vi è in atto.
Poiché il razionale, il quale è sinonimo dell’idea, in quanto nel suo realizzarsi procede nell’esistenza esteriore, entra in un’infinita ricchezza di forme, di apparenze, di aspetti e avvolge il suo puro nocciolo di una spoglia variopinta a cui s’arresta in un primo momento la coscienza, e che solo il concetto trapassa per cogliere l’intima vita e sentirne il ritmo in tutte le forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari che si formano in questa esteriorità, per il manifestarsi in essa dell’essenza, questo infinito materiale e il suo ordinamento non è l’oggetto della filosofia. […].
Compito della filosofìa è intendere ciò che è, poiché ciò che è, è la ragione. Per ciò che riguarda l’individuo, ciascuno è figlio del suo tempo; anche la filosofia quindi è comprensione del proprio tempo nell’ordine del pensiero.
È tanto stolto immaginare che una filosofia superi il mondo della sua attualità, quanto che un individuo superi il suo tempo […].
Ciò infatti che separa la ragione come spirito autocosciente dalla ragione nella sua realtà esistenziale, ciò che differenzia questa ragione da quella e non vi lascia trovare appagamento, è la limitazione di qualche astratto, che non s’è ancora liberato nella forma del concetto. Riconoscere la ragione come la rosa nella croce del presente e quindi gioirne, tale principio razionale è la riconciliazione con la realtà che la filosofia concede a coloro in cui è sorta l’esigenza di comprendere e di garantire la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale, e di porre quindi la libertà soggettiva non nel particolare e nell’accidentale, ma in ciò che è in sé e per sé […].
Del resto la filosofia vien sempre troppo tardi per insegnare come il mondo debba essere. Come pensiero del mondo essa appare nel tempo solo dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è interamente costruita. Questa esigenza del concetto ha la sua riprova di fatto nella storia; che cioè solo quando la realtà è pienamente matura l’idea-le appare opposto al reale e ricostruisce questo stesso mondo nella sua propria sostanza, cioè nella forma di un regno intellettuale. Quando la filosofia dà rilievo a un aspetto della vita, esso è già invecchiato e quel rilievo non giova a ringiovanire, ma solo a conoscere: la nottola di Minerva spicca il suo volo solo sul far della sera.