Nelle settimane successive alla morte di suo padre, Meredith riuscì a non crollare solo grazie alla forza di volontà, e a una tabella di marcia rigida e fitta come quella di un campo addestramento reclute.
Il dolore era diventato il suo compagno silenzioso. Percepiva costantemente la sua ombra accanto a sé. Sapeva che, se avesse guardato una sola volta verso quell’oscurità, se l’avesse abbracciata come desiderava fare, sarebbe stata perduta.
Quindi continuò a muoversi, ad agire.
Natale e Capodanno erano stati un disastro, ovviamente, e la sua ostinazione nel voler seguire la tradizione non aveva certo migliorato le cose. La cena con il tacchino e tutto il resto aveva messo ancor più in risalto il posto vuoto a tavola.
E Jeff non capiva. Continuava a ripetere che, se avesse pianto, sarebbe stata meglio. Come se qualche lacrima avesse potuto aiutarla.
Assurdo. Sapeva bene che piangere era inutile, perché piangeva nel sonno. Ogni notte si svegliava con le lacrime sulle guance, e non le davano il minimo sollievo. Anzi, al contrario. Manifestare il dolore non serviva a nulla. Doveva soffocarlo per superare quel periodo difficile.
Quindi tirò avanti senza fermarsi, continuando a sorridere sul lavoro e passando da un’incombenza all’altra con estremo fervore. Solo quando le ragazze tornarono a scuola si rese conto di essere stufa di fingere che fosse tutto normale. E le notti insonni che si susseguivano dal giorno del funerale non le erano certo d’aiuto, così come le difficoltà di dialogo tra lei e Jeff.
Aveva provato a spiegargli quanto si sentisse fredda, intorpidita, ma lui si rifiutava di capire. Era convinto che dovesse “sfogarsi”, qualunque cosa significasse.
Non che lei si sforzasse molto di comunicare, doveva ammetterlo. A volte non parlavano per giorni interi, limitandosi a un cenno del capo nel momento in cui si incrociavano. Avrebbe dovuto impegnarsi un po’ di più.
Sciacquò la tazza del caffè, la appoggiò sullo scolapiatti e scese nello studio di Jeff al piano inferiore. Bussò adagio e aprì la porta.
Jeff era seduto alla scrivania che avevano acquistato una decina d’anni prima. La “scrivania dello scrittore”, l’avevano definita, e per battezzarla ci avevano fatto l’amore sopra.
“Un giorno sarai famoso. Il nuovo Raymond Chandler.”
Quel ricordo la fece sorridere, sebbene fosse triste pensare che, a un certo punto della loro vita, i sogni che li accomunavano avevano preso strade diverse.
«Come procede il libro?» gli domandò, appoggiandosi allo stipite della porta.
«Wow! Non me lo chiedi da settimane.»
«Davvero?»
«Davvero.»
A quel punto, lei si accigliò. Aveva sempre amato la sua scrittura. All’inizio del loro matrimonio, quando Jeff tentava di affermarsi come giornalista, leggeva ogni singola parola uscita dalla sua penna. Anche quando si era cimentato per la prima volta con un romanzo, qualche anno prima, Meredith era stata il suo primo recensore, il migliore. Almeno così diceva lui. Quel libro non aveva trovato un editore, ma lei ci aveva creduto. E aveva creduto in suo marito, con tutto il cuore. Le faceva piacere che ne avesse cominciato un altro. Gliel’aveva detto? «Mi dispiace, Jeff. Sono stata un disastro, ultimamente. Posso leggere quello che hai scritto finora?»
«Certamente.»
Era così semplice farlo sorridere, pensò, trafitta dal senso di colpa. Avrebbe voluto chinarsi verso di lui e baciarlo. Un tempo era naturale come respirare, ma adesso sembrava un gesto audace e Meredith si sentì bloccata. Mentalmente, aggiunse un’altra voce alla sua lista delle cose da fare: “Leggere il libro di Jeff”.
Lui si appoggiò allo schienale e le sorrise. Ci riuscì abbastanza bene. Solo i vent’anni trascorsi insieme le permisero di scorgere la vulnerabilità che si celava al di sotto. «Stasera andiamo a cena e poi al cinema. Hai bisogno di una pausa.»
«Magari domani. Stasera devo pagare le bollette della mamma.»
«Stai bruciando la candela da entrambe le parti.»
Detestava sentirgli dire sciocchezze simili. A che cosa avrebbe dovuto dare un taglio, secondo lui? Al lavoro? Alla cura di sua madre? Alle faccende di casa? «È passata solo qualche settimana. Dammi un po’ di tregua.»
«Solo se tu darai tregua a te stessa.»
Non aveva idea di cosa intendesse, e in quel momento non le importava. «Devo andare. Ci vediamo stasera.» Gli diede una pacca sulla spalla e uscì. Dopo aver chiuso i cani nella zona recintata del prato, salì in macchina e andò dai suoi genitori.
Anzi, da sua madre.
Quel pensiero le provocò una fitta di dolore, ma cercò di non badarvi.
Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle e chiamò sua madre.
Nessuna risposta. Non c’era da stupirsi.
Alla fine, la trovò nella sala da pranzo delle grandi occasioni, quella che non usavano quasi mai. Stava borbottando qualcosa tra sé in russo. Sparpagliati sul tavolo davanti a lei c’erano tutti i gioielli ricevuti in dono dal marito nel corso degli anni, oltre al cofanetto riccamente decorato che le avevano regalato lei e Nina per Natale tanto tempo prima.
Meredith vide come il dolore aveva ridotto il suo bel viso: le aveva prosciugato le guance, facendo risaltare gli zigomi, e l’aveva privata del colorito, tanto che la pelle era quasi in tinta con i capelli. Solo gli occhi – straordinariamente azzurri su quel volto pallido – conservavano una parvenza della donna che era stata fino a un mese prima.
«Ciao, mamma» disse, avvicinandosi. «Cosa stai facendo?»
«Abbiamo questi gioielli. E da qualche parte c’è anche la farfalla.»
«Ti stai mettendo in ghingheri per qualche motivo?»
Sua madre alzò la testa di scatto e solo in quel momento, quando i loro sguardi si incontrarono davvero, Meredith scorse la confusione in quegli occhi blu elettrico. «Possiamo venderli.»
«Non abbiamo bisogno di vendere i tuoi gioielli, mamma.»
«Presto non potremo più ritirare soldi, vedrai.»
Con delicatezza, Meredith iniziò a raccogliere la bigiotteria. Non c’era niente di valore, lì in mezzo. Suo padre tendeva a fare regali affettuosi, più che costosi. «Non preoccuparti delle bollette, mamma. Ci penso io a pagarle.»
«Tu?»
Annuendo, Meredith la aiutò ad alzarsi, sorpresa dalla sua remissività. Si lasciò accompagnare tranquillamente al piano superiore.
«La farfalla è al sicuro?»
«È tutto al sicuro, mamma» rispose, mettendola a letto.
«Grazie al cielo» disse Anya con un sospiro, e chiuse gli occhi.
Meredith rimase a lungo a fissare sua madre addormentata. Alla fine le toccò la fronte (non era calda) e le scostò delicatamente i capelli dagli occhi.
Dopo essersi accertata che dormisse profondamente, scese dabbasso e telefonò in ufficio.
Daisy rispose al primo squillo. «Ufficio di Meredith Whitson Cooper.»
«Ciao Daisy» disse, ancora accigliata. «Oggi lavorerò da Belye Nochi. Mia madre si comporta in modo un po’ strano.»
«Il dolore fa questo effetto alle persone.»
«Già» rispose, pensando a come ogni mattina, al risveglio, lei stessa si ritrovasse con le guance bagnate di lacrime. Il giorno prima era talmente stremata che aveva allungato il caffè con il succo d’arancia invece che con il latte. E se n’era accorta solo dopo averne bevuto metà. «È vero.»
Se fino a quel momento Meredith aveva bruciato la candela da entrambe le parti, a fine gennaio era rimasta solo la fiammella. Si rendeva conto che Jeff era diventato insofferente nei suoi confronti, addirittura rabbioso. Le ripeteva in continuazione di assumere qualcuno per darle una mano con sua madre o di permettergli di aiutarla o – peggio ancora – di trovare un po’ di tempo per loro due. Ma come avrebbe potuto, con tutto quello che aveva da fare? Aveva provato ad assumere una governante a Belye Nochi, ma era stato un vero disastro. Quella poveretta se ne era andata senza preavviso dopo una sola settimana: non sopportava il modo in cui sua madre la fissava in continuazione, dicendole di smetterla di toccare le cose.
Quindi, con Nina sparita chissà dove e sua madre che diventava ogni giorno sempre più fredda e più strana, Meredith era costretta ad accollarsi tutto quanto. Aveva promesso a suo padre di prendersi cura di lei e non voleva certo deluderlo. Non stava mai ferma e si occupava di ogni cosa. In quel modo riusciva a tenere a bada la sofferenza.
Il trantran quotidiano era diventato la sua salvezza.
La mattina si alzava presto, correva per sei chilometri, preparava la colazione per suo marito e sua madre, quindi andava al lavoro. Alle otto era già seduta alla scrivania. A mezzogiorno passava a Belye Nochi per controllare sua madre, pagare le bollette o mettere un po’ in ordine. Poi tornava in ufficio e restava lì fino alle sei. All’uscita andava a fare la spesa, si fermava da sua madre fino alle sette o alle otto e, se il suo comportamento non era troppo bizzarro, tornava a casa verso le otto e mezzo. A quel punto lei e Jeff improvvisavano qualcosa per cena e, immancabilmente, alle nove stava già dormendo sul divano, per poi svegliarsi verso le tre di notte. Quella folle routine aveva un unico aspetto positivo: poteva telefonare a Maddy la mattina presto per via del fuso orario. A volte bastava la voce delle sue figlie per darle la forza di affrontare la giornata.
Adesso era soltanto mezzogiorno ed era già sfinita quando premette il pulsante dell’interfono e disse: «Daisy, vado a casa per pranzo. Torno fra un’ora. Puoi portare a Hector i resoconti di magazzino e ricordare a Ed di farmi avere quelle informazioni sulle viti?».
A quel punto vide entrare Daisy. «Sono preoccupata per te» disse, chiudendosi la porta alle spalle.
Meredith era commossa. «Ti ringrazio, Daisy, ma sto bene.»
«Stai lavorando troppo. Lui non vorrebbe.»
«Lo so. Grazie.»
Guardò Daisy uscire dall’ufficio, quindi prese borsetta e chiavi.
Aveva ricominciato a nevicare. Il parcheggio e le strade erano un pasticcio viscido e fangoso.
Guidò con prudenza fino a casa di sua madre, quindi parcheggiò ed entrò. «Mamma, sono arrivata» gridò, dopo aver appeso il giaccone nell’ingresso.
Nessuna risposta.
Rovistando nel frigorifero, estrasse i pierogi che aveva scongelato la sera prima e un contenitore Tupperware pieno di zuppa di lenticchie, quindi scaldò i pierogi nel microonde. Stava per salire le scale quando, di sfuggita, scorse una sagoma scura nel giardino d’inverno.
Cominciava a essere stufa di quella storia…
Prese il giaccone e arrancò in giardino sotto la neve. «Mamma» disse, percependo l’esasperazione nella propria voce. Ma non poteva farci niente. «Devi smetterla. Vieni dentro. Ti preparo i pierogi e la zuppa.»
«L’hai fatta con la cintura?»
Meredith scosse il capo. Chissà che diavolo significava. «Andiamo.» La aiutò ad alzarsi. Era di nuovo scalza e aveva i piedi lividi. Una volta in cucina, la avvolse in una grossa coperta e la fece sedere a tavola. «Stai bene?»
«Non è di me che ti devi preoccupare, Olga. Vai a controllare il nostro leoncino.»
«Sono io, Meredith.»
«Meredith» ripeté, come se quel nome non le dicesse nulla.
Cominciò ad allarmarsi. Sua madre era più confusa del solito. Non si trattava soltanto del dolore. Qualcosa non andava. «Credo che sia meglio chiamare il dottor Burns, mamma.»
«Cos’abbiamo da barattare?»
Meredith sospirò di nuovo ed estrasse i pierogi dal microonde, quindi trasferì la pasta ripiena di agnello su un piatto più freddo e lo mise di fronte a sua madre. «Attenzione, scottano. Vado a prendere i tuoi vestiti e chiamo il dottore. Resta qui, okay?»
Mentre si trovava al piano superiore, telefonò a Daisy, chiedendole di prendere un appuntamento urgente con il dottor Burns. Quindi tornò giù con i vestiti e aiutò sua madre ad alzarsi.
«Li hai mangiati tutti?» domandò sorpresa. «Bene.» Le fece indossare un maglione, poi la aiutò a infilarsi le calze e gli stivali da neve. «Mettiti il cappotto. Vado a scaldare l’auto.»
Quando tornò in casa, sua madre era nell’ingresso e si stava allacciando il cappotto nel modo sbagliato.
«Lascia, faccio io.» Così dicendo, lo sbottonò per poi riabbottonarlo. Aveva quasi finito, quando si rese conto che il cappotto era tiepido.
Infilando una mano nelle tasche, trovò i pierogi, ancora caldi dal microonde e avvolti in tovaglioli di carta unti. “Ma che diavolo?”
«Sono per Anya» disse sua madre.
«Certo, sono per te» rispose Meredith, accigliandosi. «Te li lascio qui, okay?» aggiunse, mettendoli nella ciotola di ceramica sul tavolo dell’ingresso. «Andiamo, mamma.»
Quindi la accompagnò fino al SUV.
«Appoggiati allo schienale, mamma. Dormi un po’. Sarai sfinita.» Accese il motore e partì. In città, lasciò l’auto nel parcheggio a lisca di pesce davanti all’edificio in mattoni del Cashmere Medical Group.
Al banco dell’ingresso c’era Georgia Edwards, bella e pimpante come ai tempi in cui era una cheerleader alla Cashmere High. «Ciao Mere» disse con un sorriso.
«Ciao, Georgia. Daisy ha preso un appuntamento per mia madre?»
«Sai che Jim farebbe qualunque cosa per la vostra famiglia. Portala all’ambulatorio A.»
Mentre si dirigevano verso l’ambulatorio, sua madre sembrò rendersi improvvisamente conto di dove si trovavano. «È ridicolo» disse, liberando il braccio con uno strattone.
«Puoi protestare quanto vuoi» ribatté Meredith «ma adesso vieni dal dottore.»
Drizzando le spalle e alzando il mento, sua madre entrò nell’ambulatorio a passo spedito, dove si appropriò dell’unica sedia.
Meredith la seguì e chiuse la porta.
Qualche istante dopo arrivò il dottor James Burns, tutto sorridente, con la sua testa calva e gli occhi grigi dall’espressione comprensiva. Vedendolo, Meredith pensò a suo padre. Avevano giocato insieme a golf per anni, e il papà di Jim era uno dei migliori amici del suo. La abbracciò forte. In quel gesto si percepiva il loro dolore comune e un tacito: “Manca tanto anche a me”.
«Allora» disse, quando si ritrasse. «Come va oggi, Anya?»
«Sto bene, James. Grazie. Meredith è apprensiva, lo sai.»
«Ti dispiace se ti visito?» le domandò.
«Certo che no» rispose. «Ma è inutile.»
Jim la visitò come avrebbe fatto per una normale influenza. Alla fine scrisse qualcosa sulla sua cartella clinica e disse: «Che giorno è oggi, Anya?».
«31 gennaio 2001» rispose. Il suo sguardo era sicuro e lucido. «Mercoledì. Abbiamo un nuovo presidente, George Bush junior. E la capitale dello Stato è Olympia.»
«Come ti senti, veramente, Anya?»
«Il mio cuore batte. Respiro. Vado a letto e mi alzo.»
«Forse dovresti rivolgerti a qualcuno» disse dolcemente.
«A chi?»
«A un medico che ti aiuti a parlare del tuo lutto.»
«La morte non è una cosa di cui parlare. Voi americani siete convinti che le parole possano cambiare le cose. Non è vero.»
Il dottore annuì.
«Magari è mia figlia ad avere bisogno di aiuto.»
«Va bene» disse lui, scrivendo ancora qualcosa sulla cartella. «Potresti accomodarti in sala d’attesa mentre parlo con Meredith?»
Anya uscì immediatamente.
«C’è qualcosa che non va in lei» disse Meredith, appena rimasero da soli. «È molto confusa. Dorme a malapena. Oggi si è infilata il pranzo in tasca e parlava di se stessa in terza persona. Parla sempre di un leoncino e mi ha chiamata Olga. Credo che confonda le favole con la realtà. Ieri sera l’ho sentita mentre ne raccontava una… come se papà la stesse ascoltando. È sempre stata depressa in inverno, lo sai, ma stavolta c’è qualcosa di diverso. Qualcosa di strano. Possibile che abbia l’Alzheimer?»
«Il suo cervello sembra a posto, Meredith.»
«Ma…»
«Sta soffrendo. Dalle tempo.»
«Ma…»
«Non esiste un modo normale per affrontare una cosa simile. Sono stati sposati per cinquant’anni e adesso lui non c’è più. Cerca di ascoltarla, di parlarle. E non lasciarla troppo sola.»
«Credimi, Jim, mia madre è sola a prescindere dal fatto che io ci sia o meno.»
«Allora state da sole insieme.»
«Sì. Giusto. Grazie per l’incontro. Adesso la riporto a casa e vado al lavoro.» Ho una riunione alle due e un quarto.»
«Forse dovresti rallentare un po’. Posso prescriverti un sonnifero, se vuoi.»
Meredith pensò che, se avesse guadagnato dieci dollari ogni volta che qualcuno le dava un consiglio simile – soprattutto suo marito –, a quell’ora sarebbe stata su una spiaggia messicana. «Certo, Jim» rispose. «Ogni tanto mi fermerò ad annusare le rose.»
Era trascorso un mese da quando Nina aveva lasciato lo Stato di Washington e oggi, in una giornata rovente, si trovava in mezzo a una marea di profughi disperati e affamati, un’infinita distesa di esseri umani accovacciati davanti a tende sporche e cascanti. Erano in una situazione critica. Molti di loro erano arrivati al campo sanguinanti, con ferite da arma da fuoco o reduci da uno stupro, ma il loro stoicismo era incredibile. Quelle persone erano tormentate dal sole e dalla polvere, dovevano percorrere chilometri per un secchio d’acqua e attendere ore per una razione di riso dalla Croce Rossa, eppure c’erano bambini che giocavano in mezzo alla sporcizia e, di tanto in tanto, dal pianto si levava il rumore di una risata.
Nina era sporca, stanca e affamata quanto la gente che la circondava. Viveva in quel campo da due settimane, ormai. Prima era stata in Sierra Leone, dove doveva nascondersi e acquattarsi continuamente per evitare le pallottole e per non essere stuprata a sua volta.
Si accovacciò sul terreno rosso, arido e polveroso. Il brusio nel campo era soverchiante, tra voci, ronzii di insetti e il rumore di un macchinario in lontananza. In fondo a sinistra, una bandiera lacera sventolava su una tenda dell’esercito, a indicare la postazione medica. Centinaia di feriti facevano pazientemente la fila in attesa di cure.
Davanti a lei, un uomo di colore vecchio e rinsecchito giaceva tra le braccia della moglie, mezzo dentro e mezzo fuori dalla sua tenda. Da poco aveva perso una gamba e il moncherino insanguinato macchiava di rosso la coperta in cui era avvolto. Sua moglie lo stava sostenendo da ore, anche se lei stessa, con quel corpo emaciato, doveva avere dolori ovunque. Poco alla volta, gli versava in bocca preziose gocce d’acqua.
Nina mise il tappo all’obiettivo e si alzò. Mentre osservava il campo, provò un insolito senso di spossatezza. Per la prima volta dall’inizio della sua carriera, quella tragedia le appariva quasi intollerabile. Non che qui fosse peggio di quello che aveva visto prima. La situazione era sempre la stessa. Lei no, però. Portava con sé il suo dolore ovunque e il peso era tale da impedirle di compartimentalizzare la realtà.
La gente era convinta che per fare il suo lavoro bastasse esserci, come se chiunque potesse semplicemente inquadrare e scattare. In realtà, però, le sue fotografie erano un prolungamento della sua personalità, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti. Serviva una perfetta concentrazione per immortalare sulla pellicola il dolore profondo di una tragedia personale. Il fotografo doveva essere presente al cento per cento, vivere il momento – ma doveva essere il loro momento.
Aprì lo zaino ed estrasse il telefono satellitare. Quindi, dopo essersi spostata il più possibile verso est, sistemò l’apparecchiatura, posizionò il satellite e chiamò Danny.
Quando udì il suono della sua voce, qualcosa nel suo petto si distese. «Danny» gridò, per farsi sentire malgrado le interferenze.
«Nina, tesoro. Credevo che mi avessi dimenticato. Dove sei?»
A quelle parole, trasalì. «Guinea. E tu?»
«Zambia.»
«Sono stanca» disse, sorprendendosi di se stessa. Non ricordava di averlo mai detto, non mentre stava svolgendo il proprio lavoro.
«Posso arrivare sull’isola di Mnemba mercoledì.»
Acqua cristallina, sabbia bianca, ghiaccio, sesso. «Ci sto.»
Interruppe la chiamata, ripose il telefono nello zaino e se lo gettò su una spalla. Al suo ritorno, il campo era in subbuglio: era arrivato un nuovo convoglio della Croce Rossa e si stava provvedendo alla distribuzione del cibo. Scansò due donne che trasportavano uno scatolone di provviste e oltrepassò la tenda dove aveva scattato le fotografie.
L’uomo con le fasciature insanguinate era morto. La donna era ancora seduta alle sue spalle. Lo cullava, cantando per lui.
Si fermò per scattare una foto, ma stavolta l’obiettivo non riuscì a farle da scudo e, quando abbassò la macchina, si rese conto che stava piangendo.
Comodamente seduta sul sedile posteriore di un SUV, Nina osservava il panorama di Zanzibar dal finestrino, godendosi l’aria condizionata. Le strade strette e tortuose brulicavano di persone: donne musulmane in abiti tradizionali, con tunica e velo, scolari in uniforme blu e bianca, gruppi di uomini. Sul lato della strada, gli ambulanti vendevano merce di ogni tipo, dall’ortofrutta alle scarpe da tennis, a magliette seminuove. Nella giungla retrostante, alcune donne – quasi tutte con un neonato in braccio o sulla schiena – raccoglievano chiodi di garofano. Le spezie erano stese a bordo strada su teli color cannella, dove venivano fatte essiccare al sole.
Quando finalmente il taxi abbandonò la via principale e svoltò nel sentiero polveroso che conduceva alla spiaggia, Nina si aggrappò energicamente alla maniglia della portiera, decisa a salvarsi la pelle. Il terreno era di puro corallo, come tutta l’isola, e avrebbero potuto forare da un momento all’altro. A rilento, oltrepassarono villaggi situati in mezzo al niente, capi di bestiame chiusi in recinti di fortuna, donne che raccoglievano legna con indosso abiti e veli dai colori vivaci, bambini che insieme pompavano acqua dal pozzo. Le case, piccole e scure, erano costruite con i materiali a disposizione – ramoscelli, fango, pezzi di corallo – e tutto era rosso come la polvere.
La spiaggia in fondo alla strada era animatissima. Imbarcazioni in legno ballonzolavano nell’acqua bassa, mentre alcuni uomini si occupavano delle reti stese sulla sabbia. L’area era invasa da ragazzi in abiti logori che attendevano i turisti e si offrivano di farsi fotografare in cambio di dollari americani.
Appena salì sul motoscafo bianco e affusolato, si rese conto di quanta tensione avesse accumulato. Sentì allentarsi un nodo all’altezza della nuca. Mentre sfrecciavano sull’acqua piatta, l’aria del mare le sferzava il volto sporco e i capelli arruffati. Respirando l’aria salata, pensò a quanto fosse fortunata, a dispetto del suo dolore. Poteva lasciarsi alle spalle quei luoghi orribili, cambiare il proprio futuro con una telefonata e un biglietto aereo.
Mnemba era un piccolo atollo nell’arcipelago di Zanzibar. Al suo arrivo, Nina fu accolta dal dirigente dell’isola, Zoltan, con un bicchiere di vino bianco e un panno freddo e bagnato. Quando la vide, il suo bel volto scuro si aprì in un ampio sorriso. «Mi fa piacere rivederti.»
Tenendo l’attrezzatura sopra la testa, Nina scese dall’imbarcazione facendo un salto nell’acqua tiepida. «Grazie, Zoltan. Sono contenta di essere qui» disse, prendendo il bicchiere di vino. «Danny è arrivato?»
«È al numero sette.»
Nina si gettò sulle spalle lo zaino e la custodia della macchina fotografica e avanzò lungo la spiaggia. La sabbia era bianca come il corallo da cui era formata e l’acqua aveva un colore eccezionale, quasi identico a quello degli occhi di sua madre.
Sull’isola c’erano nove banda– casette con il tetto di paglia e aperte sui lati –, tutti nascosti alla vista da una fitta vegetazione. Per incontrare gli altri ospiti o il personale della struttura bisognava attendere l’ora dei pasti, serviti nella capanna ristorante, o il tramonto, quando sulla spiaggia antistante ogni singolo banda veniva allestito un tavolo per i cocktail.
Quando vide le sdraio contrassegnate con il numero sette, seguì il sentiero di sabbia fino al banda. Due minuscoli antilopi, non più grandi di conigli e con corna aguzze come punteruoli, attraversano il viottolo saltellando, per poi sparire.
Vide Danny prima che lui vedesse lei. Era seduto su una poltrona di bambù intrecciato, i piedi nudi appoggiati su un tavolino, e leggeva sorseggiando una birra. «Quella birra non sarà la cosa più bella che c’è qui, ma ci va vicino» disse Nina, appoggiandosi alla ringhiera in legno.
Danny posò il libro e si alzò. Era bello anche così, con i bermuda color cachi ormai frusti, i lunghi capelli neri che avevano bisogno di una sistemata e la barba sfatta. La prese fra le braccia e la baciò. «Sono sporca» esclamò con una risata, spingendolo via.
«È proprio quello che mi piace di te» rispose, baciandole il palmo sudicio.
«Ho bisogno di una doccia» aggiunse, sbottonandosi la camicia. Danny la prese per mano e, passando per la camera da letto, scesero insieme lungo la passerella in legno, fino alla doccia esterna. Sotto il getto d’acqua calda, si tolse reggiseno, calzoni corti e slip, quindi allontanò i panni fradici con un calcio. Danny iniziò a lavarla, ma immediatamente trasformò la cosa in un puro gioco preliminare e quando Nina, con il corpo ancora viscido di schiuma, allungò una mano verso di lui, la reazione fu immediata. La prese in braccio e la portò in camera.
Più tardi, quando entrambi ebbero ricominciato a respirare, si ritrovarono avvinghiati sul letto coperto dalla zanzariera. «Wow» gli disse, con la testa appoggiata nell’incavo del suo braccio. «Avevo dimenticato quanto eravamo bravi in questo.»
«Siamo bravi in molte cose.»
«Sì, ma in questo siamo speciali.»
Nel silenzio che seguì, Nina comprese che Danny stava per dire qualcosa che non aveva voglia di sentire. «Ho dovuto sapere da Sylvie che tuo padre era morto.»
«Cosa avrei dovuto fare? Telefonarti in lacrime? Dirti che stava morendo?»
Danny si girò su un fianco, facendole fare lo stesso. Erano l’uno di fronte all’altra, adesso. Le accarezzò la schiena con la mano, fermandosi sulla curva del fianco. «Sono di Dublino, ricordi? So bene cosa significa perdere qualcuno, Nina. So che il lutto ti penetra dentro e ti corrode l’anima, come acido delle batterie. E so anche cosa significa fuggirlo. Non ci sei solo tu in Africa, no?»
«Che cosa vuoi da me, Danny? Cosa?»
«Parlami di tuo padre.»
Nina lo fissò, sentendosi con le spalle al muro. Avrebbe voluto accontentarlo, ma non ci riusciva. I suoi sentimenti, il suo senso di perdita, erano così intensi che se si fosse abbandonata a essi non sarebbe più riuscita a riemergere.
«Non saprei come. Lui era… il mio sole, credo.»
«Ti amo così» mormorò Danny.
Avrebbe tanto voluto sentirsi confortata da quelle parole, ma non accadde. Conosceva bene l’amore impari, come si poteva restarne schiacciati, se una persona amava più dell’altra. Non aveva forse notato quel genere di devastazione negli occhi di suo padre quando guardava la moglie? Certo che sì. E un dolore simile, una volta visto, non si dimentica. Per lei sarebbe stato tremendo ritrovare quello stesso sguardo in Danny. E sarebbe accaduto. Prima o poi avrebbe capito che Nina, per quanto avesse amato suo padre, di fatto era più simile a sua madre.
«Non possiamo soltanto…?»
«Per ora» rispose lui, ma Nina sapeva che non sarebbe finita così.
L’idea di perderlo le provocò una strana inquietudine, quindi reagì come era abituata a fare ogni volta che le sue emozioni erano troppo acute da sopportare: fece scivolare le mani sul suo petto nudo, fino ai peli sotto l’ombelico e ancora più giù, finché sentì la forza della sua erezione. A quel punto capì che era ancora suo.
Per ora.
Il cielo è grigio come ardesia e gonfio di nubi. Un gabbiano solitario volteggia lassù, in alto, gracchiando e lottando contro il vento. Lei è una ragazzina con lunghi codini castani e le ginocchia sbucciate. Corre verso di lui. Un aquilone scivola sulla sabbia, roteando, e schizza via prima che riesca a raggiungerlo.
“Papà” grida, pur sapendo che è troppo lontano per sentirla. “Sono qui…”
Meredith si svegliò in preda al panico. Mettendosi a sedere, iniziò a guardarsi intorno, consapevole che suo padre non poteva essere lì. Un altro sogno.
Stanca e dolorante dopo una notte trascorsa a girarsi sotto le coperte, scese lentamente dal letto, facendo attenzione a non svegliare Jeff. Quindi si avvicinò alla finestra e rimase lì a fissare l’oscurità. L’alba non era ancora spuntata. Incrociò le braccia con forza, cercando di non crollare. Ultimamente aveva la sensazione che la sua anima stesse andando in pezzi, come se fosse affetta da una grave forma di lebbra spirituale.
«Torna a letto, Mere.»
«Scusa» rispose senza voltarsi. «Non volevo svegliarti.»
«Perché non dormi un po’ di più, oggi?»
Era allettante l’idea di sprofondare fra le sue braccia, sotto le coperte, e semplicemente dormire, mentre il mondo andava avanti senza di lei. «Magari potessi» disse. Stava già pensando a tutte le incombenze di quella mattina. Già che era in piedi, avrebbe potuto dare un’occhiata alle imposte trimestrali. La settimana successiva aveva un appuntamento con il commercialista e doveva essere pronta.
Jeff scese dal letto e si fermò dietro di lei. Meredith scorse il riflesso argenteo dei loro volti nel vetro scuro.
«Tu ti occupi di tutto e di tutti, Mere. Ma chi si occupa di te?»
Meredith si voltò verso di lui, lasciandosi abbracciare. «Tu» rispose.
«Io?» ribatté. «Sono solo una voce in più sulla tua lista delle cose da fare.»
In un altro momento – l’anno precedente, magari – gli avrebbe risposto che non era vero, avrebbe discusso con lui, ma adesso era troppo stremata per preoccuparsene.
«Non ora, Jeff» fu tutto ciò che riuscì a dire. «Non posso affrontare questa conversazione.»
«So quanto stai soffrendo…»
«È ovvio che sto soffrendo. Mio padre è morto.»
«Non è solo questo. Stai esagerando» disse con calma. «Ti ostini ancora ad attirare l’attenzione di tua madre, proprio come…»
«Cosa dovrei fare? Ignorarla? O magari abbandonare il mio lavoro?»
«Assumi qualcuno. A lei non importa un bel niente che tu ci sia o no. So che fa male, tesoro, ma non gliene è mai fregato niente.»
«Non posso. Non me lo permetterebbe. E poi ho fatto una promessa a papà.»
«E se finisse per distruggerti? È questo che avrebbe voluto tuo padre? Lei non ti guarda nemmeno.»
Aveva ragione, lo sapeva. In un momento come quello, avrebbe preferito che loro due non si conoscessero da così tanto tempo, che Jeff non avesse visto tutto ciò che aveva visto. Ma era presente la sera della recita – e altre sere simili –, la conosceva nel profondo e sapeva quanto aveva sofferto. «Non si tratta di lei, lo sai. Si tratta di me. Sono fatta così. Non riesco a… lasciarla perdere.»
«Tuo padre era preoccupato per questo, ricordi? Temeva che senza di lui la nostra famiglia sarebbe andata in pezzi. E aveva ragione. Stiamo crollando. Tu stai crollando e non permetti a nessuno di aiutarti.»
«Il dottor Burns dice che fra un po’ la mamma starà meglio. A quel punto, prometto che assumerò qualcuno per tenerle in ordine la casa e pagarle le bollette, va bene?»
«Prometti?»
Gli sfiorò le labbra con un bacio. Era finita. Per ora. «Torno per colazione, okay? Preparerò omelette e frutta. Solo per noi due.»
Lentamente, si allontanò da lui e andò in bagno. Mentre chiudeva la porta, le parve di sentirgli dire qualcosa. Colse la parola “preoccupato” e si chiuse dentro.
Senza accendere la luce, indossò gli abiti da corsa e uscì dalla camera. Al piano inferiore accese la caffettiera, prese i cani e uscì nella fredda oscurità di febbraio.
Aveva un disperato bisogno di chiarirsi le idee, quindi corse più forte che mai. La sofferenza fisica era molto più facile da gestire rispetto a quella emotiva. Accanto a lei, i cani guaivano e giocavano tra loro. Ogni tanto si allontanavano nella neve profonda ai lati della strada, ma tornavano sempre indietro. Quando raggiunse il campo da golf e invertì la direzione, l’alba aveva già indorato la valle. Non cadeva neve fresca da quasi due settimane e quella a terra, ormai gelata, scintillava sotto la flebile luce del sole.
Deviò verso Belye Nochi e diede da mangiare ai cani sulla veranda di sua madre. Era uno dei numerosi cambiamenti che aveva apportato alla sua tabella di marcia. Faceva sempre almeno due cose contemporaneamente. Si tolse le scarpe da corsa e andò in cucina ad accendere il samovar, quindi salì al piano superiore. Era ancora paonazza e ansimante quando aprì la porta della camera.
Il letto era vuoto.
«Merda.»
Uscì nel giardino d’inverno e si mise a sedere accanto a sua madre. Indossava la camicia da notte in pizzo che le aveva regalato suo padre per Natale l’anno precedente, con una coperta azzurra di mohair avvolta intorno alle spalle. Si era morsa il labbro inferiore, che adesso stava sanguinando. Aveva le calze grigie di umidità e marroni per lo sporco.
Meredith osò appoggiare la mano sulla sua, freddissima, ma non trovò le parole per accompagnare quel gesto così intimo. «Andiamo, mamma, devi mangiare qualcosa.»
«Ho mangiato ieri.»
«Lo so. Vieni.» Così dicendo, le afferrò la mano e la aiutò ad alzarsi. Il suo corpo, rimasto troppo a lungo su quella panchina di metallo, impiegò un po’ di tempo per raddrizzarsi, schioccando e scricchiolando a ogni movimento.
Quando fu completamente dritta, si staccò da Meredith e percorse il sentiero lastricato verso casa.
Meredith lasciò che la precedesse.
Una volta in cucina, telefonò a Jeff per avvisarlo che, alla fine, non sarebbe rientrata per colazione. «La mamma era di nuovo in giardino. Sarà meglio che lavori da qui, oggi.»
«Sai che novità.»
«Avanti, Jeff, non essere ingiusto…»
Ma lui riattaccò.
Irritata dal segnale di linea, decise di telefonare a Jillian. Un attimo dopo, le due si abbandonarono alla consueta routine e iniziarono a chiacchierare della scuola, di Los Angeles e del tempo. Meredith ascoltava la figlia maggiore a bocca aperta. Sempre più spesso, ultimamente, mentre quella giovane donna così sicura parlava di chimica, di biologia, di facoltà di medicina, non riusciva a capacitarsi di quanto fosse cresciuta, di quanto fosse diventata indipendente. Soltanto ieri, Jillie era una ragazzina paffutella con le fessure tra i denti, che riusciva a fissare un germoglio di melo per un pomeriggio intero in attesa che fiorisse. “Ci siamo, mamma, il fiore spunterà da un momento all’altro. Posso andare a chiamare il nonno?”
E, per insegnarle a guidare, le erano bastati dieci minuti. “Leggerò i manuali, mamma. Non devi essere nervosa. Fidati di me.”
«Ti voglio bene, Jillie» disse, rendendosi conto solo un attimo dopo di averla interrotta. Stava dicendo qualcosa riguardo agli enzimi. O forse era ebola. Rise: beccata mentre era distratta. «E sono molto orgogliosa di te.»
«Ti ho mandata in coma, vero?»
«Solo un sonno profondo.»
Jillian fece una risata. «Okay, mamma. Tanto dovevo scappare. Ti voglio bene.»
«Anch’io, Formichina.»
Dopo la telefonata, Meredith si sentì meglio. Era di nuovo se stessa. Parlare con le sue figlie era sempre il miglior rimedio per la depressione. Tranne, ovviamente, quando erano proprio quelle conversazioni a provocarla…
Per il resto della giornata lavorò dal tavolo della cucina di Belye Nochi. Oltre a occuparsi delle tasse, leggere i rapporti sul raccolto e supervisionare le spese di magazzino, persuase sua madre a mangiare, le pagò le bollette e lavò i suoi vestiti.
Finalmente, alle otto, dopo aver lavato i piatti e sistemato il cibo, andò in soggiorno.
Sua madre stava lavorando a maglia, seduta sulla poltrona preferita di papà. La luce della piantana lì accanto regalava al suo viso una dolcezza solo apparente. Sull’altarino alla sua sinistra, da una candela scoppiettante si levava una spirale di fumo.
Teneva gli occhi chiusi, anche mentre maneggiava i ferri da maglia. Le ciglia scure protese a ventaglio sulle guance pallide le conferivano un’aria triste, inquietante.
«È ora di andare a dormire, mamma» disse, sforzandosi di non apparire né impaziente né stanca. Accese il lampadario, cancellando in un attimo l’intimità della stanza.
«Posso gestirmi da sola» rispose.
Ancora la solita solfa: era sempre così quando si trattava di accompagnarla a letto. Litigavano al momento di lavarsi i denti, di cambiarsi, di togliersi le calze… litigavano su tutto, in pratica.
Erano appena passate le nove quando riuscì a metterla a letto. Dopo averle rimboccato le coperte sotto il mento, proprio come faceva un tempo con Jillian e Maddy, le disse: «Dormi bene, mamma. Sogna papà».
«Sognare è doloroso» rispose piano.
Meredith non sapeva come ribattere. «Allora sogna il tuo giardino. Presto fioriranno i crochi.»
«Sono commestibili?»
Succedeva sempre, ultimamente: un attimo prima sua madre era lucida e presente, dietro i suoi occhi azzurri, poi d’un tratto non c’era più.
Meredith voleva credere che fosse il lutto la causa di quei cambiamenti, di quella confusione. Una volta placato il dolore, sarebbe tornato tutto come prima.
Ma con il trascorrere dei giorni, ogni volta che sua madre appariva disorientata e smarrita, provava un po’ meno fiducia nelle valutazioni del dottor Burns. Temeva che il problema non fosse il lutto, ma l’Alzheimer. Come si spiegava, altrimenti, quell’improvvisa ossessione per le scarpe di cuoio, per il burro (che adesso Meredith trovava nascosto in tutta la casa) e per quel leoncino delle favole di cui ogni tanto la sentiva parlare?
Toccando come avrebbe fatto con un bambino impaurito la donna che in quel momento non era più sua madre, Meredith disse: «Non preoccuparti, mamma. C’è moltissimo cibo al piano di sotto».
«Faccio un pisolino per un minuto, poi vado sul tetto.»
«Nessuno andrà sul tetto» rispose Meredith stancamente.
Sua madre chiuse gli occhi con un sospiro. Dopo pochi istanti, dormiva già.
A quel punto, Meredith fece il giro della stanza per raccogliere le coperte e altre cose che sua madre aveva fatto cadere.
Dabbasso, infilò una montagna di panni in lavatrice, in modo che fossero pronti da lavare la mattina successiva, quindi finì di preparare due pacchi da mandare a Jillian e Maddy.
Erano le dieci quando ebbe terminato.
A casa, trovò Jeff nel suo studio. Stava lavorando al libro.
«Ciao» gli disse, entrando nella stanza.
Lui non si voltò. «Ciao.»
«Come va il libro?»
«Benissimo.»
«Non l’ho ancora letto.»
«Lo so.» A quel punto si girò verso di lei.
Conosceva quello sguardo carico di disappunto. All’improvviso, fu come osservare quella scena con occhi altrui, una prospettiva nuova, che cambiò tutto. «Abbiamo un problema, Jeff?»
Lo vide lievemente sollevato a quella domanda: evidentemente aveva sperato di sentirsela rivolgere. «Sì.»
«Ah.» A quel punto, capì di averlo deluso un’altra volta. Jeff avrebbe voluto discutere di quei problemi in cui era inciampata dopo averli improvvisamente portati alla luce, ma lei non sapeva cosa dire. Onestamente, era l’ultima cosa di cui aveva bisogno, ora come ora. Sua madre era sull’orlo della follia e suo marito era convinto che avessero dei problemi.
Sapendo di commettere un errore, ma incapace di rimediare, voltò le spalle allo studio – e allo sguardo triste e amareggiato di Jeff – e salì nella camera che condividevano da tanti anni. Si spogliò, indossò una maglietta e si mise a letto. Un paio di sonniferi avrebbero dovuto aiutarla, ma non fu così. E quando più tardi Jeff la raggiunse, si accorse che lui sapeva che era ancora sveglia.
Quindi si girò verso di lui e, avvicinandosi alla sua schiena, sussurrò: «Buona notte».
Non era sufficiente, non era nulla, lo sapevano entrambi. La conversazione che avrebbero dovuto affrontare incombeva su di loro come una nube minacciosa che si addensava all’orizzonte.