9

Meredith rispettò appieno il piano che aveva elaborato. Aveva stabilito che due pomeriggi e una sera con sua madre sarebbero bastati a Nina per comprendere il motivo del ricovero. Certo, nelle ultime settimane era migliorata, ma Meredith non credeva assolutamente che fosse in grado di badare a se stessa.

Ed era importante – anzi, essenziale – che Nina comprendesse la situazione. Ne aveva abbastanza di portare sulle proprie spalle l’intero fardello di quella scelta. Sua madre era rimasta in quell’istituto per quasi sei settimane e la caviglia era completamente guarita. Presto avrebbero dovuto prendere una decisione definitiva, e Meredith si rifiutava di farlo da sola.

Alle quattro e mezzo uscì dall’ufficio per andare alla casa di cura. Una volta là, salutò con un cenno di mano Sue Ellen, l’addetta alla reception, e oltrepassò il bancone con disinvoltura, la testa alta, le chiavi in una mano e la borsetta nell’altra. Restò fuori dalla porta di sua madre il tempo necessario per convincersi che quella che sentiva non era una vera e propria emicrania e, alla fine, aprì la porta.

All’interno, due uomini in tuta blu stavano facendo le pulizie: uno stava lavando il pavimento, l’altro la finestra. Tutte le cose di sua madre erano sparite. Sul letto, al posto della biancheria nuova di zecca comprata da lei, c’era uno spoglio materasso azzurro.

«Dov’è la signora Whitson?»

«Se n’è andata» rispose uno dei due uomini, senza alzare lo sguardo. «Non ci ha dato molto preavviso.»

«Mi scusi?» chiese lei sgranando gli occhi.

«Se n’è andata.»

A quel punto Meredith girò sui tacchi e tornò al bancone d’ingresso. «Sue Ellen,» disse, tenendo due dita premute sulla tempia sinistra «dov’è mia madre?»

«È andata via con Nina. Di punto in bianco. Senza nemmeno avvisarci.»

«Be’, c’è un errore. La riporterò qui…»

«Non c’è più posto, Meredith. La sua camera è stata assegnata alla signora McGutcheon. Non possiamo esserne certi, ovviamente, ma probabilmente non avremo letti disponibili fino ad agosto.»

Troppo infuriata per badare alle buone maniere, Meredith uscì a passo deciso senza dire nulla e salì in auto. Per la prima volta in vita sua se ne fregò del limite di velocità e, dodici minuti dopo, era già scesa dalla macchina a Belye Nochi.

L’interno della casa era invaso dalla puzza di fumo. Trovò una pila di piatti sporchi nel lavandino della cucina e, sul bancone, un cartone aperto con più di mezza pizza avanzata.

Ma c’era di peggio.

Sul fornello c’era una pentola sformata, tutta floscia: non ebbe bisogno di toccarla per capire si era fusa con il bruciatore.

Stava per precipitarsi al piano superiore, quando lanciò un’occhiata al prato sul retro. Attraverso i riquadri vetrati della porta finestra, le vide: Nina e sua madre erano sedute insieme sulla panchina in ferro.

Aprì una delle ante con una violenza tale da farla sbattere contro il muro.

Mentre attraversava il prato, udì la voce di sua madre e riconobbe il tono: stava raccontando una storia. A quel punto capì che era ancora preda della confusione mentale.

«… piange la perdita di suo padre, tenuto prigioniero nella torre rossa dal Cavaliere Nero, ma la vita continua. È una lezione davvero tremenda, che ogni ragazza deve imparare. Ci sono ancora i cigni da nutrire nei laghetti del giardino del castello e notti bianche in estate, quando i signori e le signore si danno appuntamento alle due del mattino per passeggiare sulle rive del fiume. Non sa quanto può essere duro l’inverno, quando le rose si congelano in un istante e cadono a terra, quando le ragazze imparano a reggere il fuoco tra le mani candide…»

«Basta con la favola, mamma» disse Meredith, sforzandosi di mascherare la rabbia. «Entriamo.»

«Non interromperla…» intervenne Nina.

«Sei un’idiota» le rispose, mentre aiutava sua madre ad alzarsi. Quindi la riportò in casa e, al piano superiore, la mise a sedere sulla sedia a dondolo con il lavoro a maglia.

Dabbasso, trovò Nina in cucina. «Che cavolo ti è venuto in mente?»

«Hai sentito la storia?»

«Che cosa?»

«La storia. Era quella della contadina e del principe? Ti ricor…»

Meredith la afferrò per il polso e la trascinò in sala da pranzo, accendendo le luci.

La stanza era immutata dal giorno in cui Anya era caduta dalla sedia. Mancavano strisce di carta da parati e i solchi vuoti somigliavano a vecchie ferite fra i colori vivaci di ciò che era rimasto. Qua e là si vedevano macchie rosso scuro.

Dai campi giunse uno scoppio: il ritorno di fiamma di un autocarro.

Meredith guardò Nina ma, prima che avesse il tempo di parlare, udì un rumore di passi che scendevano le scale a precipizio.

Anya entrò di corsa in cucina con in mano un enorme cappotto. «Avete sentito gli spari? Scendiamo! Subito!»

«Era soltanto il motore di un autocarro, mamma» disse Meredith, prendendola per un braccio nella speranza che quel contatto potesse essere d’aiuto. «Va tutto bene.»

«Il mio leoncino sta piangendo» aggiunse lei. Aveva lo sguardo vitreo, vacuo. «Ha fame.»

«Non ci sono leoncini affamati qui, mamma» rispose Meredith, con voce pacata e rassicurante. «Vuoi un po’ di minestra?» domandò con calma.

Lei la guardò. «Abbiamo la zuppa?»

«Molta. E anche pane, burro e kasha. Nessuno ha fame, qui.»

Poi, con delicatezza, le prese di mano il cappotto. In tasca, trovò quattro flaconi di colla.

La confusione svanì così come era arrivata. Sua madre rizzò le spalle, guardò le figlie e uscì dalla cucina.

«Ma che cavolo?» disse Nina.

«Hai visto? A volte… impazzisce. Per questo deve stare in un posto sicuro.»

«Ti sbagli» rispose Nina, con lo sguardo ancora rivolto alla porta da cui era appena uscita sua madre.

«Visto che sei tanto più intelligente di me, Nina, dimmi: a proposito di cosa starei sbagliando?»

«Quella non era pazzia.»

«Ah no? E cos’era, allora?»

Finalmente Nina si voltò verso di lei. «Paura.»

Nina fu tutt’altro che sorpresa quando Meredith iniziò a pulire la cucina. E con uno zelo da martire. Era arrabbiata, lo sapeva. E avrebbe dovuto importarle, ma non era così.

Invece, pensò alla promessa che aveva fatto a suo padre.

“Fatti raccontare la storia della contadina e del principe.”

In quel momento le era sembrata una cosa assurda; impossibile. L’ultima, disperata speranza di un moribondo di riunire tre donne.

Ma senza di lui, sua madre stava effettivamente crollando. Non si era sbagliato. Ed era convinto che la favola avrebbe potuto aiutarla.

Meredith sbatté un tegame su uno dei bruciatori rimasti e imprecò. «Non potremo più usare questo maledetto fornello finché non ci saremo sbarazzati della pentola che hai fuso.»

«Usa il microonde» rispose Nina distrattamente.

Meredith si voltò. «È questa la tua risposta? Usa il microonde? Non hai altro da dire?»

«Papà mi ha fatto promettere…»

«Oh, per l’amor del cielo!» Meredith si asciugò le mani con uno strofinaccio e lo gettò sul bancone. «Non la aiuteremo chiedendole di raccontare favole. La aiuteremo tenendola al sicuro.»

«Vuoi rinchiuderla di nuovo. Perché? Così potrai pranzare con le ragazze?»

«Come osi parlarmi così? Proprio tu!» Si avvicinò, abbassando la voce. «Lui sfogliava continuamente le riviste in cerca delle fotografie della sua “piccolina”. Lo sapevi? E controllava la posta e i messaggi tutti i giorni, nella speranza di trovare qualcosa che non arrivava quasi mai. Quindi non ti azzardare a darmi dell’egoista.»

«Basta così.»

Anya era in piedi sulla porta, con indosso la camicia da notte e, stranamente, con i capelli sciolti. La clavicola spiccava nettamente sotto la pelle solcata da vene e, intorno al collo, portava una catenina d’oro con appesa una piccola croce russa a tre barre. Tra il candore della pelle e il bianco di capelli e gonna, era una figura talmente pallida da sembrare trasparente. Con l’eccezione degli strabilianti occhi azzurri. Che adesso erano accesi di rabbia. «È così che gli fate onore? Litigando?»

«Non stiamo litigando, mamma» rispose Meredith con un sospiro. «Siamo solo preoccupate per te.»

«Pensate che sia impazzita.»

«Io no» disse Nina, alzando gli occhi. «Ho visto la nuova colonna nel giardino d’inverno, mamma. Ho visto le lettere.»

«Quali lettere?» chiese Meredith.

«Non è nulla» ribatté sua madre.

«Invece sì» disse Nina.

Anya non diede alcun segno di aver sentito. Non un sospiro. Non un sussulto. Non distolse nemmeno lo sguardo. Si limitò ad avvicinarsi al tavolo e a sedersi.

«Non sappiamo niente di te» aggiunse Nina.

«Il passato non conta.»

«È quello che dici da sempre, e noi non abbiamo mai ribattuto. O forse non ci importava. Ma adesso mi importa.»

Sua madre alzò gli occhi lentamente, e stavolta non c’erano dubbi sulla lucidità del suo sguardo. E nemmeno sulla sua tristezza. «Continuerai a chiedermelo, vero? Ovviamente. Meredith cercherà di fermarti perché ha paura. Ma non c’è modo di farti smettere.»

«L’ho promesso a papà. Voleva che ascoltassimo una delle tue favole per intero, fino alla fine. Non posso deluderlo.»

«Meglio non fare promesse alle persone in punto di morte. Adesso hai imparato la lezione anche tu.» Si alzò, con le spalle appena curve. «Se vostro padre vi sentisse litigare, gli si spezzerebbe il cuore. Siete fortunate a essere in due. Comportatevi di conseguenza.» Quindi uscì dalla stanza.

Dopo un po’, sentirono la porta chiudersi rumorosamente al piano di sopra.

«Senti, Nina» disse Meredith dopo un lungo silenzio. «Non me ne frega niente delle sue favole. Mi prendo cura di lei perché l’ho promesso a papà è perché è la cosa giusta da fare. Ma quello di cui parli – cercare di conoscerla – è una missione da kamikaze e io mi sono già schiantata troppe volte. Mi tiro fuori.»

«Credi che non lo sappia? Sono tua sorella. So quanto ci hai provato con lei.»

Meredith si voltò di colpo verso il fornello, e assalì la pentola fusa come se al di sotto ci fosse un tesoro nascosto.

Nina si alzò e la raggiunse. «Capisco perché l’hai rinchiusa in quel posto orribile.»

«Davvero?» rispose, voltandosi.

«Certo. Pensavi che stesse andando fuori di testa.»

«Lei è fuori di testa.»

Nina non sapeva cosa dire. Non era nemmeno in grado di esprimere la sua opinione in modo sensato. Sapeva soltanto di aver perso una parte essenziale di se stessa ultimamente e, forse, mantenere la promessa fatta a suo padre l’avrebbe aiutata a ritrovarla. «La costringerò a raccontarmi la favola. Tutta quanta. A ogni costo.»

«Fai come ti pare» rispose Meredith alla fine, con un sospiro. «Come sempre.»

In ufficio, Meredith cercò di concentrarsi sui dettagli della gestione del frutteto e dei magazzini, ma non riusciva a combinare nulla di buono. Era come avere nel petto una valvola che si serrava a ogni respiro, e la pressione accumulata rischiava di esplodere da un momento all’altro. Dopo aver sbraitato contro un dipendente per tre volte, decise di lasciar perdere e di andarsene prima di fare altri danni. Gettò un pacco di documenti sulla scrivania di Daisy e disse nervosamente: «Archiviali, per favore». E si allontanò senza darle il tempo di ribattere.

Una volta in auto, partì senza una meta precisa. A un certo punto si ritrovò su una vecchia strada dimenticata, che in qualche modo la riportò alla sua gioventù.

Parcheggiò davanti al negozio di souvenir di Belye Nochi, un piccolo e grazioso edificio in posizione arretrata rispetto alla strada e circondato da antichi meli in fiore.

In un lontano passato, al suo posto c’era una bancarella della frutta e Meredith aveva trascorso alcune delle estati più belle della sua vita a vendere mele mature ai turisti.

Attraverso il parabrezza, osservò l’edificio rivestito di assi bianche, con le grondaie avvolte di luci. Con l’arrivo dell’estate, ci sarebbero stati fiori ovunque: nei vasi accanto alla porta, nei cesti sulla veranda, avvinghiati lungo la recinzione.

Era stata una sua idea quella di trasformare la bancarella della frutta in un negozio di souvenir. Ricordava ancora il giorno in cui aveva proposto il progetto a suo padre. A quei tempi, era una giovane madre con una bambina su entrambi i fianchi.

“Sarà fantastico, papà. I turisti l’adoreranno.”

“È un’idea eccezionale, Sgorbietta. Sarai la mia stella polare…”

Aveva messo l’anima in quel posto, selezionando ogni articolo con cura assoluta. Ed era stato un successone. Tanto che, pur avendo raddoppiato la superficie, non c’era ancora spazio a sufficienza per tutti i bellissimi souvenir e gli oggetti di artigianato realizzati nella vallata.

In seguito, per far piacere a suo padre, aveva abbandonato il negozio per il magazzino.

Ripensandoci, era proprio quello il momento in cui aveva cominciato a vivere per gli altri…

Ingranò la retromarcia e se ne andò, provando il vago desiderio di non essersi mai fermata. Per un’ora si limitò a girovagare in auto, osservando i cambiamenti che la primavera aveva apportato al paesaggio. Quando imboccò il vialetto di casa, era sera e il panorama stava cominciando a oscurarsi.

Una volta dentro, diede da mangiare ai cani, preparò qualcosa per cena e infine fece un bagno. Restò nella vasca così a lungo che l’acqua si raffreddò.

Era ancora talmente confusa e turbata dagli eventi di quel giorno che non sapeva cosa fare o cosa desiderare. Aveva un’unica certezza: Nina stava scombussolando tutto quanto, le stava complicando la vita. E non aveva dubbi sul fatto che sarebbe finito tutto in un gran casino e che poi sarebbe toccato a lei rimettere in ordine.

Era stufa marcia di ritrovarsi sempre con il cerino in mano.

Alla fine si asciugò, si infilò una tuta comoda e uscì dal bagno. Mentre si strofinava i capelli con la salvietta, lanciò un’occhiata al grosso letto matrimoniale sulla parete opposta.

Con dolorosa nostalgia, ripensò a quando lei e Jeff l’avevano comprato. Era troppo caro, ma loro ci avevano riso sopra, pagando con la carta di credito. Il giorno della consegna, erano rientrati dal lavoro in anticipo, si erano gettati sul materasso e, tra baci e risate, lo avevano inaugurato con la loro passione.

Ecco di cosa aveva bisogno in quel momento: passione.

Aveva bisogno di strapparsi i vestiti di dosso, precipitarsi a letto e dimenticare tutto quanto: Nina, sua madre, le case di cura, le favole.

In un breve istante, quel pensiero si concretizzò in un progetto. Sentendosi eccitata per la prima volta da mesi, indossò una camicia da notte sexy e scese al piano inferiore. Dopo aver acceso il fuoco, si versò un bicchiere di vino e aspettò che Jeff tornasse dal lavoro.

Alle undici stava ancora aspettando. E, poco alla volta, l’eccitazione si trasformò in rabbia.

Dove accidenti era finito?

Quando finalmente Jeff entrò in soggiorno, aveva già bevuto tre bicchieri di vino e la cena era rovinata.

«Dove cavolo sei stato?» disse, alzandosi.

Jeff si accigliò. «Come?»

«Avevo preparato una cena romantica. Ormai è rovinata.»

«Tu che ti arrabbi perché rientro tardi la sera? È uno scherzo.»

«Dov’eri?»

«A fare ricerche per il mio libro.»

«In piena notte?»

«Non è piena notte. Comunque, sì. Lo faccio da gennaio, Mere, solo che non te ne sei mai accorta. O non te ne importava.» Quindi andò nel suo ufficio, sbattendosi la porta alle spalle.

Meredith lo seguì. «Volevo stare con te, stasera» esclamò.

«Be’, scusami tanto, ma non me ne frega niente. Mi ignori da mesi. È come vivere con uno stramaledetto fantasma. E adesso, all’improvviso, perché hai voglia di fare sesso, dovrei cambiare marcia ed essere a tua disposizione? Non funziona così.»

«Bene. Spero che starai comodo qui, stanotte.»

«Di certo sarà più caldo del tuo letto.»

Meredith uscì dall’ufficio sbattendo la porta, ma la rabbia svanì insieme a quello schianto. E, senza di essa, si sentì persa. Sola.

Avrebbe dovuto chiedergli scusa, parlargli del suo schifo di giornata…

Stava per farlo, quando vide la luce azzurrognola filtrare da sotto la porta. Aveva acceso il computer e iniziato a scrivere.

A quel punto salì al piano di sopra e si infilò a letto. In vent’anni di matrimonio, era la prima volta che Jeff dormiva sul divano dopo una lite. E, senza di lui, non riusciva a dormire.

Alle cinque, finalmente si arrese e scese dabbasso per scusarsi.

Jeff era già uscito.

Quella mattina, Meredith uscì a correre (dieci chilometri, stavolta, si sentiva particolarmente stressata), telefonò a entrambe le sue figlie e arrivò comunque in ufficio prima delle nove. Quindi telefonò a Parkview e parlò con il direttore, che non aveva affatto gradito l’improvvisa uscita di sua madre. Si sentì dire – di nuovo – che non prevedevano di avere disponibilità nell’immediato. Ovviamente c’era la possibilità che si liberasse un posto (il che avrebbe significato la morte di qualcuno, un’altra famiglia distrutta), ma non erano in grado di garantirlo.

Sua sorella non si sarebbe trattenuta abbastanza a lungo per poter essere d’aiuto. Negli ultimi quindici anni, non si era mai fermata a Belye Nochi per più di una settimana, dieci giorni al massimo. Nina sarà anche stata una professionista di fama mondiale, ma fuori dal suo campo non era affidabile. Le aveva addirittura dato buca come damigella d’onore – all’ultimo momento, senza lasciarle il tempo di trovare una sostituta –, a causa di un attentato in America Centrale. O in Messico. Non lo sapeva nemmeno ora. Sapeva soltanto che un minuto prima Nina era insieme a lei a provare gli abiti da damigella e che un minuto dopo era sparita.

Qualcuno bussò alla porta. Quando Meredith alzò gli occhi, Daisy entrò a passo leggero con in mano una cartellina. «Ecco i resoconti relativi ai campi e quelli dei frutticoltori.»

«Ottimo. Lasciali sulla mia scrivania.»

Ma Daisy esitò. “Oh, no” pensò Meredith. “Ci siamo.” Conosceva Daisy fin dall’infanzia, e ed esitare non era da lei. «Ho saputo» disse, chiudendosi la porta alle spalle «che Nina ha rapito tua madre.»

Meredith le rivolse un sorriso stanco. «Così è un po’ esagerato. Me ne occuperò io.»

«Ovviamente. Però, tesoro, sicura che sia giusto?» Così dicendo, appoggiò la cartellina sulla scrivania. «Posso mandare avanti io la baracca qui, lo sai» disse con calma. «Tuo padre mi ha istruita. Ti basta soltanto chiedere aiuto.»

Meredith annuì. Era vero, eppure non ci aveva mai pensato. Dopo di lei, Daisy era la persona più idonea a occuparsi della gestione del frutteto. Lavorava lì da ventinove anni. «Grazie.»

«Solo che non sai come si fa, vero?»

Meredith soffocò l’impulso di alzare gli occhi al cielo. Era quello che Jeff le ripeteva in continuazione. Era davvero un difetto così grande? Fare ciò che andava fatto? «Puoi telefonare al dottor Burns per me, Daisy?»

«Ma certo» rispose, dirigendosi verso la porta.

Un attimo dopo le inoltrò la chiamata e Jim rispose.

«Ciao Jim. Sono Meredith.»

«Sapevo che mi avresti telefonato. Ho saputo di Parkview oggi.» Dopo una pausa aggiunse: «Nina?».

«Ovviamente. Ha visto La grande fuga una volta di troppo. Non sanno quando avranno un posto disponibile e non possiamo permetterci un aiuto a tempo pieno. Hai un’altra struttura da suggerirmi?»

Jim tacque un istante prima di rispondere. «Ho parlato con il suo medico di Parkview e con il fisioterapista che si occupava di lei. Io stesso facevo visita ad Anya una volta alla settimana.»

Meredith sentì montare la tensione. «E?»

«Nessuno di noi ha notato particolari segni di confusione o demenza. Si è agitata un po’ solo una volta, durante la tempesta del mese scorso. Sembrava spaventata dai tuoni e diceva a tutti di voler salire sul tetto. Ma molti dei ricoverati erano turbati dal rumore.» Fece un sospiro profondo e aggiunse: «Tuo padre diceva che, durante l’inverno, Anya doveva sempre fare i conti con la depressione. In qualche modo, il freddo e la neve la disturbavano. Se a questo aggiungiamo il lutto… Insomma, per concludere, non credo che soffra di Alzheimer o di demenza grave. Non posso diagnosticare una malattia che non ho riscontrato, Meredith.»

Fu come se, all’improvviso, qualcuno le avesse caricato un peso enorme sulle spalle. «E adesso? Come faccio a badare a lei, a tenerla al sicuro? Non posso occuparmi di Belye Nochi e di casa mia e stare sempre con la mamma. Santo cielo, si è ferita da sé.»

«Lo so» rispose con dolcezza. «Ho fatto qualche telefonata. C’è un complesso per anziani molto grazioso a Wenatchee. Si chiama Riverton. Avrebbe a disposizione un alloggio con un spazio sul retro, grande abbastanza per fare un po’ di giardinaggio. Potrebbe scegliere se cucinare da sé o andare in sala da pranzo. C’è disponibilità per una camera singola a metà giugno. Ho chiesto alla direttrice di tenerla in serbo per te, ma serve una caparra in tempi brevi. Al telefono, chiedi di Junie.»

Meredith si appuntò tutto quanto. «Ti ringrazio, Jim. Apprezzo davvero il tuo aiuto.»

«Nessun problema.» Dopo una pausa, aggiunse: «E tu come stai, Meredith? L’ultima volta non ti ho vista molto bene».

«Grazie mille, doc!» rispose, sforzandosi di ridere. «Sono stanca, ma non può essere altrimenti.»

«Stai esagerando.»

«È la storia della mia vita. Grazie ancora.» Riattaccò prima che il medico potesse aggiungere altro. Quindi raccolse la borsetta dal pavimento e uscì dall’ufficio.

A Belye Nochi, trovò Nina in cucina. Stava scaldando un tegame di gulasch.

«Sto attenta, vedi?» disse con un sorriso. «Non è ancora andato a fuoco.»

«Devo parlare con te e con la mamma. Dov’è?»

Nina indicò la sala da pranzo con un cenno. «Indovina.»

«Nel giardino d’inverno?»

«Ovviamente.»

«Accidenti, Neens.» Attraversò la sala da pranzo devastata e uscì da sua madre, che era seduta sulla panchina di ferro. Perlomeno stavolta indossava abiti adatti al freddo.

«Mamma? Ho bisogno di parlarti. Possiamo entrare?»

Sua madre raddrizzò la schiena e, solo in quel momento, Meredith si rese conto di quanto fosse stata morbida e sinuosa la sua figura prima che cambiasse posizione.

Insieme, senza toccarsi né dire una parola, rientrarono in casa. In soggiorno, Meredith la fece sedere in poltrona e accese il fuoco. Alla fine arrivò anche Nina e si gettò sul divano, con i piedi scalzi appoggiati sul tavolino da caffè.

«Che succede, Mere?» chiese, sfogliando un vecchio «National Geographic». «Ehi, ecco la mia foto. Quella che ha vinto il Pulitzer» esclamò sorridendo, mostrando l’immagine a doppia pagina.

«Oggi ho parlato con il dottor Burns.»

Nina accantonò la rivista.

«Lui… è d’accordo con me: la casa di cura non è il posto adatto per la mamma.»

«Ma guarda un po’» disse Nina.

Meredith si rifiutò di abboccare all’amo e mantenne lo sguardo fisso su sua madre. «Ma entrambi siamo convinti che questa casa sia troppo per te. Jim ha trovato un bel posto a Wenatchee. Un complesso per anziani strutturato come un condominio. Dice che avresti un’accogliente alloggio singolo con cucina. E, se non ti andasse di cucinare, c’è anche la sala da pranzo. È proprio in centro. Potresti andare per negozi e alla bottega di maglieria.»

«E il mio giardino d’inverno?»

«L’alloggio ha un giardino sul retro. Potresti ricrearlo lì. La panchina, la recinzione, le colonne. Tutto quanto.»

«Non serve che se ne vada» intervenne Nina. «Questa è casa sua e ci sono qui io per dare una mano.»

A quel punto Meredith sbottò. «Davvero, Nina? E per quanto tempo possiamo contare su di te? O andrà a finire come per il mio matrimonio?»

«Ci fu un attentato, quella settimana» rispose, improvvisamente a disagio.

«O come per il settantesimo compleanno di papà? Cos’è successo quella volta? Un’alluvione, giusto? O era un terremoto?»

«Non ho intenzione di scusarmi per il mio lavoro.»

«Non è questo che ti chiedo. Sto solo dicendo che, con tutte le tue buone intenzioni, se domani dovesse accadere qualcosa di terribile in India, non vedremmo altro che il tuo culo mentre esci dalla porta. Non posso restare con la mamma ogni istante, e lei non può stare da sola.»

«E questo ti renderebbe le cose più facili» disse sua madre.

Meredith la scrutò in volto. Era sarcasmo, il suo? La stava giudicando? Era confusa? Ma non vide altro che rassegnazione. La sua era una domanda, non un’accusa. «Sì» disse, chiedendosi perché, con quella risposta, sentisse di aver deluso suo padre.

«Allora ci andrò. Non mi interessa più dove vivo.»

«Preparerò tutto quello che ti serve, così il mese prossimo sarai pronta ad andare. Non dovrai fare nulla.»

Sua madre si alzò e, quando la guardò, gli occhi azzurri erano addolciti dall’emozione. Poi, in un soffio, quell’espressione svanì. Si voltò e salì in camera, sbattendo la porta.

«Il suo posto non è in una casa di riposo, per quanto signorile» disse Nina.

Meredith la detestò profondamente per quelle parole. «E tu cosa pensi di fare in proposito?»

«Cosa vuoi dire?»

«Pensi di pagare una persona fissa che faccia la spesa, le pulizie, che paghi le bollette? O prometti di restare qui per anni? Ah no, aspetta. Le tue promesse non valgono una cicca.»

Nina si alzò lentamente e si mise di fronte a lei. «Non sono l’unica che non mantiene le promesse in questa famiglia. Gli avevi promesso di prenderti cura della mamma.»

«È quello che sto facendo.»

«Ah, davvero? E se lui fosse qui adesso? Mentre parli di trasferire il giardino d’inverno, di preparare le sue cose e di spostarla in città? Sarebbe fiero di te, Meredith? Direbbe: “Ben fatto. Grazie per aver mantenuto la parola?”. Non credo proprio.»

«Lui capirebbe» rispose, in tono meno deciso di quanto sperasse.

«Invece no. E lo sai.»

«Vaffanculo! Non sai quanto ci ho provato… quanto avrei voluto…» La sua voce si ruppe e sentì un nodo alla gola. «Vaffanculo!» ripeté, con un sussurro questa volta. Quindi girò sui tacchi e corse letteralmente verso la porta principale, non senza notare, mentre la spalancava per uscire, che il gulasch stava bruciando.

Salì in auto, sbatté la portiera e agguantò il volante. «Facile fare la morale quando non ci sei» borbottò, accendendo il motore.

Impiegò meno di due minuti per arrivare a casa.

I cani la accolsero con esuberanza e Meredith si inginocchiò per accarezzarli. Tanto entusiasmo era un toccasana per i suoi nervi scossi.

«Jeff?» chiamò. Nessuna risposta. Quindi si tolse il giaccone e si versò un bicchiere di vino. In soggiorno, accese il camino a gas e si sedette sul gradino di marmo, lasciando che il vero calore di quel finto fuoco le scaldasse la schiena.

Per anni aveva cercato di provare verso sua madre lo stesso amore incondizionato che aveva per suo padre. Il desiderio di amare – ed essere amata – era stato il caposaldo della sua gioventù e il suo primo vero insuccesso.

Agli occhi di sua madre non faceva mai niente di giusto e, per una ragazza tormentata dalla volontà di piacere, quel fallimento aveva lasciato il segno. La ferita peggiore – oltre a quella della recita di Natale – le era stata inflitta in un soleggiato giorno di primavera.

Non ricordava quanti anni avesse esattamente: probabilmente dieci, perché sua sorella aveva appena cominciato il corso di nuoto. Suo padre aveva accompagnato Nina in piscina e Meredith era rimasta sola con sua madre in quella grande casa labirintica. Dopo pranzo era sgattaiolata nel giardino d’inverno, con gli attrezzi in una mano e con un pacchetto di semi in tasca. Poi, tutta vibrante di emozione, aveva sradicato l’edera che soffocava qualunque cosa e trascinato via la vecchia colonna di bronzo ossidata, che dava al giardino un aspetto trascurato, disordinato. Poi, dopo aver smosso con la paletta il terreno nero e fangoso, aveva piantato semi di fiori in file perfette. Riusciva già a immaginare quando sarebbero cresciuti, sbocciati, regalando ordine e vivacità a quella specie di giardino caotico, tutto verde e bianco.

Era davvero soddisfatta della sua idea e del modo in cui l’aveva realizzata. Mentre dissodava il terreno, divideva i semi e li piantava con cura, iniziò a fantasticare su sua madre: presto sarebbe arrivata e, vedendo quel regalo, l’avrebbe – finalmente – abbracciata.

Tutta presa da quel sogno, non sentì il rumore della porta d’ingresso che sbatteva, né i passi sulle pietre di passaggio. Si accorse di non essere più sola nel momento in cui sua madre la sollevò in piedi con uno strattone così violento e improvviso da farla barcollare e cadere di lato.

“Cos’hai combinato al mio giardino?”

“Volevo sistemarlo per te. Io…”

Non avrebbe mai dimenticato l’espressione del suo volto mentre la trascinava sul prato e sui gradini della veranda, fino in casa. Pianse per l’intero tragitto, scusandosi e chiedendo cosa avesse fatto di male. Ma sua madre non disse una parola. Si limitò a spingerla dentro casa e a sbattere la porta.

Meredith continuò a piangere, affacciata alla finestra della sala da pranzo, mentre la guardava dissodare la terra e gettare via i semi come se fossero stati avvelenati. Lavorava come una pazza in preda alla frenesia. Rimise a posto tutta l’edera, stringendola fra le mani con una dolcezza che non aveva mai dimostrato alle sue figlie. Dopo aver sistemato tutto quanto, andò a recuperare la colonna, la trascinò al suo posto e la rimise in piedi. Quando il giardino d’inverno ebbe recuperato il suo aspetto originale, si inginocchiò davanti alla colonna e rimase lì per l’intero pomeriggio, con il capo chino, come in preghiera. Era ancora lì quando fece buio e iniziò a piovere.

Quando finalmente rientrò, con le mani nere di terra, le dita sanguinanti e la faccia striata di fango e pioggia, salì al piano superiore senza nemmeno guardare sua figlia e si chiuse in camera da letto.

Non parlarono mai più di quel giorno. E, quando suo padre tornò a casa, Meredith si gettò in lacrime fra le sue braccia. “Che succede, Sgorbietta?” le domandò.

Forse, se gli avesse risposto, se gli avesse detto la verità, le cose sarebbero state diverse, lei sarebbe stata diversa, ma non ci riuscì. “È solo che ti voglio tanto bene, papà» gli disse e, ancora una volta, la sua risata tonante l’aveva fatta sentire di nuovi coi piedi per terra.

“Ti voglio bene anch’io.” Meredith avrebbe tanto voluto che questo fosse sufficiente – aveva pregato perché lo fosse –, ma non lo era. E sentì sbocciare il senso di fallimento, lo sentì prendere il sopravvento, finché non le restò che un’unica possibilità, un unico tentativo: smettere di amare sua madre.

Chiuse gli occhi, dondolando appena. Nina si sbagliava. Suo padre avrebbe capito…

D’un tratto sentì un tonfo e alzò lo sguardo, convinta di trovarsi davanti Luke o Leia che aspettavano scodinzolando, in cerca di attenzioni.

Invece, sulla porta c’era Jeff. Indossava ancora i Levi’s sdruciti e la maglia azzurra a girocollo della mattina precedente.

«Ah, sei arrivato.»

«Me ne vado» mormorò lui.

Meredith non sapeva se prendersela o se sentirsi sollevata di non dover stare con lui quella sera. «Vuoi che ti tenga in caldo la cena?»

Jeff fece un sospiro profondo e ripeté: «Me ne vado».

«Ho sentito. Non…» All’improvviso capì. «Te ne vai? Mi lasci? Per ieri sera? Mi dispiace. Davvero. Non avrei dovuto…»

«Dobbiamo restare lontani per un po’, Mere.»

«Non farlo» sussurrò, scuotendo il capo. «Non ora.»

«Non esiste il momento giusto. Ho aspettato per via di tuo padre e poi per via di tua madre. Ripetevo a me stesso che mi amavi ancora, che eri molto presa e sotto pressione, ma… adesso non ci credo più. C’è un muro intorno a te, Mere, e sono stufo di tentare di scalarlo.»

«Andrà meglio, d’ora in poi. A giugno…»

«Basta rimandare. Abbiamo solo qualche settimana prima che le ragazze tornino a casa. Sfruttiamo questo tempo per capire cosa accidenti vogliamo.»

Meredith sentì che stava perdendo la testa, ma il pensiero di lasciarsi andare la spaventava a morte. Da mesi stava soffocando le proprie emozioni, e chissà cosa sarebbe accaduto se avesse smesso di farlo. Se si fosse abbandonata al pianto, avrebbe iniziato a gemere come un’ossessa e, forse, si sarebbe trasformata in una statua di pietra, come un personaggio delle favole di sua madre. Quindi tenne duro e annuì. E, con tutta la calma di cui fu capace, rispose: «Okay».

Vide l’espressione sul volto di Jeff, la delusione, la rassegnazione. Il suo sguardo diceva: “Ovvio che avresti risposto così”. Lasciarlo andare era una sofferenza insopportabile, ma non sapeva come fermarlo, cosa dire. Quindi si alzò in piedi e gli passò accanto, oltrepassò la valigia davanti alla porta d’ingresso (ecco il tonfo che aveva sentito) e andò in cucina.

Mentre fissava il vuoto in piedi davanti al lavandino, il suo cuore stava letteralmente perdendo colpi. Faceva fatica a respirare. In tutti quegli anni di matrimonio, non le era mai passato per la testa che Jeff potesse lasciarla. Nemmeno la notte precedente, quando avevano dormito separati. Sapeva che non era felice – non lo era nemmeno lei, in realtà –, ma sembrava una cosa a sé, uno dei soliti momentacci.

Questo però…

Jeff arrivò dietro di lei. «Mi ami ancora, Mere?» mormorò, afferrandola per le spalle e voltandola finché non furono faccia a faccia.

Se solo glielo avesse chiesto un’ora fa o il giorno prima o la settimana precedente… in qualunque altro momento tranne ora, quando perfino il suolo che calpestava le sembrava instabile. Aveva sempre considerato l’amore di Jeff come una specie di paratia in grado di resistere a qualunque tempesta. Invece era condizionato anch’esso, come tutto nella sua vita. All’improvviso tornò a essere la ragazzina di dieci anni che veniva trascinata via dal giardino mentre si chiedeva cosa avesse fatto di male.

Jeff la lasciò andare e si incamminò verso la porta.

Meredith fu sul punto di chiamarlo e dirgli: “Ma certo che ti amo. Tu mi ami?”. Ma non riuscì ad aprire la bocca. Avrebbe dovuto strappargli di mano la valigia o gettargli le braccia al collo. Qualcosa del genere. Ma rimase lì a fissargli la schiena, sconcertata e con gli occhi privi di lacrime.

All’ultimo momento, lui si voltò a guardarla. «Sei identica a lei, lo sai, vero?»

«Non dire così.»

La fissò ancora per un istante. Era un’apertura, lo sapeva. Le stava dando un’altra possibilità. Ma non riuscì a coglierla. Non era in grado di muoversi, di tendere una mano verso di lui, nemmeno di piangere.

«Addio, Mere» disse infine.

Rimase immobile a lungo. Jeff se ne era già andato da molto tempo e lei era ancora lì, appoggiata al lavandino, a fissare il nulla del giardino oltre i vetri.

“Sei identica a lei” le aveva detto.

Quelle parole facevano un gran male, e lui doveva averlo previsto.

“Tornerà” si disse. “Capita che le coppie si prendano una pausa. Andrà tutto bene.” Doveva trovare il modo di sistemare le cose, valutare il da farsi. Andò a prendere l’aspirapolvere nello sgabuzzino, lo trascinò in soggiorno e lo accese. Il rumore soffocò le voci che le affollavano la mente e il battito disordinato del suo cuore.